SPERANZA E’

Speranza è…

Laici e cattolici a confronto?

          In seguito alla pubblicazione della “Lettera Enciclica SPE SALVI del Sommo Pontefice Benedetto XVI ai Vescovi, ai Presbiteri e ai Diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici sulla Speranza cristiana” (Libreria Editrice Vaticana – 30 novembre 2007) si è aperto un interessante dibattito fuori e dentro la Chiesa sul concetto di Speranza da cui la nostra Istituzione ritengo che non possa rimanere estranea.

          Quello della Speranza infatti è un concetto alto che contiene implicazioni laiche e religiose, filosofiche, etiche e politico-sociali e molti sono i filosofi di ogni tendenza, scrittori e giornalisti illustri di varie espressioni politiche che si sono cimentati sull’argomento con commenti, approfondimenti e analisi critiche. Da una parte vi sono pensatori di orientamento cristiano che con il Papa hanno equiparato il concetto di Speranza a quello della Fede e alla salvezza ultraterrena, dalla parte opposta filosofi come ad esempio Massimo Cacciari che hanno espresso sul tema solo implicazioni negative: compito specifico del laico non è quello della salvezza dell’anima, pertanto per lui affidarsi alla speranza, dopo aver messo in campo tutto ciò che è in suo umano potere, è come lanciare la spugna, arrendersi e attendere il maturare degli eventi.

          Prima di addentrarmi nel tema e nelle sue sfaccettature filosofiche, religiose e politico sociali, mi sembra utile chiarire e chiarirci al nostro interno il concetto e il rapporto fra la sfera laica e sfera religiosa e se il Papa, dopo il gran rifiuto alla Sapienza di Roma, o un qualsiasi capo religioso di altro credo, possa o meno intervenire nei templi più propriamente laici (ONU, Parlamento Europeo e Parlamenti nazionali, Atenei ecc.) su temi e argomenti che riguardano l’uomo, il suo modo di vivere e programmare il proprio futuro.

E’ bene chiarire che la laicità non è pensiero debole, non è visione relativista del mondo, dell’etica.

          Il laico non è, contrariamente a quello che sostiene qualche intellettuale cattolico chi non crede o non riesce a credere. Non è neppure chi non riesce a conferire senso alla vita, a interpretare il male perché dotato del lume della ragione e non anche della fede. Il laico è colui che tra Chiesa e Stato sente di dover erigere, come diceva Thomas Jefferson “un alto muro di separazione”: per proteggere sia la sovranità legiferante del popolo, sia le religioni. La laicità non è un’opinione ma un metodo, uno spazio dove le convinzioni più diverse, anche integraliste, possono incontrarsi senza violenza, favorendo leggi attente al bene comune. L’autonomia della politica, il muro di Jefferson, non appartiene al non cristiano: appartiene a ciascuno. E non esiste una forza esterna allo Stato cui viene delegata la competenza delle competenze e che può decidere le materie su cui lo Stato può o non può legiferare.

          La Corte costituzionale ha formulato il principio costituzionale di laicità, come atteggiamento non di estraneità, indifferenza o ostilità dello Stato e dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla coscienza religiosa dei cittadini, in regime di pluralismo confessionale, non escluso l’ateismo, ma di tutela della eguale libertà di tutte le fedi. Nessuno prevarichi nessuno: questa è laicità.

          Di recente è stato chiesto al Premio Nobel Rita Levi Montalcini se la religione è compatibile con la ricerca scientifica. E la risposta è stata, da scienziata atea quale ella è, che tra l’uno e l’altro termine non esiste contrasto alcuno. Scrivere perciò sugli striscioni della Sapienza “la scienza è laica”, può significare solo che la scienza è contro la religione. E questa non è laicità.

          Nel Gennaio di questo anno scriveva Claudio Magris sul Corriere della Sera: “ Laico non vuol dire affatto l’opposto di credente (o di cattolico),come ignorantemente si ripete, e non indica di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis (un metodo dicevamo sopra); è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato. La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista)secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista…..Laico è chi conosce il rapporto, ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l’articolo del codice penale che punisce l’omicidio.”

          Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani, diceva che laico è colui che si appassiona ai propri “valori caldi” (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i “valori freddi” (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi.

          Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l’autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall’idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale, come lo è stato spesso nella storia, o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.

          Ascoltare il discorso del Papa alla Sapienza, che non poteva essere giudicato prima di averlo letto o sentito, poteva arricchire o non arricchire l’uditorio. Importante, una volta che il Senato Accademico lo aveva invitato, era ascoltarlo senza respingerlo a priori. Magari con il suo libero arbitrio il laico poteva anche scegliere di andare a farsi una passeggiata, ma mai e poi mai poteva e doveva impedire al Pontefice di parlare. Diciamo che nei confronti di Benedetto XVI è scattato invece un pregiudizio assai poco scientifico e affatto laico.

          Mi è sembrato opportuno fare questa premessa per definire i ferri del mestiere di un laico che sono quelli dell’ascolto e della tolleranza, del pensiero, della riflessione e della coscienza.

          Ci sono invece molti per i quali il principio di fedeltà all’autorità è la cosa più importante, anche della luce della coscienza. Ciò si riscontra spesso nella religione e anche altrove, per esempio in politica, dove pure vi sono parrocchie, dogmi, autorità. Il nostro vero interlocutore di uomini e di massoni è la coscienza laica, la dimensione della coscienza che ricerca la verità per se stessa, rifiutando di legarsi aprioristicamente a qualunque catechismo.

          Il teologo laico Vito Mancuso nel suo interessante e coraggioso libro “L’anima e il suo destino”, edito da Raffaello Cortina, Milano, 2007, equipara Dio ad un impersonale Principio Ordinatore, che chiama sapienza e che interviene in tutte le cose (l’omnia dei latini), nella natura, nella realtà, nel nostro presente, ogni giorno per l’ordinamento dell’energia e con un fine preciso: la nascita della libertà dell’uomo. L’energia dell’uomo è l’anima e dire anima e dire libertà è la stessa cosa. La libertà all’inizio nasce disordinata, basta vedere i bambini e quanto è difficile la loro educazione, il rendere ordinata cioè la loro energia. Se poi l’anima cresce ordinata genera gioia, pace e speranza serena, se invece cade in balia del disordine, genera rabbia, violenza e disperazione. Per Mancuso il discorso su Dio sussiste come discorso sulla verità con l’esercizio della ragione.  “Le storie lontane di cui ci parla la Bibbia, compresa quella di Gesù crocifisso, hanno senso se conducono l’anima alla vita qui ed ora, a ritrovare in essa la presenza di Dio qui ed ora, in questo immane macello che è la storia universale…I contenuti della fede…devono essere letti come profondi insegnamenti sulla condizione umana che vanno ogni giorno attualizzati e reinterpretati, e non come oggettivi resoconti storici di un lontano passato, destinato inesorabilmente a diventare sempre più lontano e sempre più passato”.  

          La luce dell’uomo è la verità e noi siamo qui per consegnarci alla verità. “Tutto il pomposo apparato di basiliche e cattedrali, di anni santi, indulgenze e giornate mondiali, come l’umile apparato di monasteri silenziosi, di chiese cittadine e di pievi di campagna, santi sacerdoti ed eroiche suore….hanno un senso se sono sapienza al servizio dell’anima e del suo destino…Se la fede non genera una sapienza per l’anima, colmandola di gioia, di sguardo sereno su se stessa e sul mondo, è vana. Può essere persino dannosa.

          Meglio un ateo felice e onesto, che un credente infelice e disonesto… L’obiettivo è la pienezza dell’umanità… Dio non ci ha creati per credere, ma per essere. Per essere uomini. Felici e orgogliosi di esserlo.” Per Mancuso la speranza di Dio, è reale, attiva e positiva, va vissuta e conquistata qui ed ora, giornalmente in questa vita e in questa terra, che non può essere una valle di lacrime. Conclude il teologo: “Io penso che il Cristianesimo contenga in sé il sentiero seguendo il quale il mio essere uomo si compie. Lo dico sulla base del fatto che il suo nucleo vitale è l’amore…e amore significa ordine e ordine significa forza. L’amore vero è forte, non teme, resiste. Dice il Cantico dei Cantici: E’ forte come la morte…Amare la vita. Alla fine tutto sta qui..”

          Speranza di verità, speranza di sapienza, speranza di libertà, speranza di amore. Quante assonanze con la Massoneria!

Veniamo all’enciclica papale.

          Nella Spe Salvi il Papa tenta ovviamente di equiparare la speranza alla fede cristiana, dando però a quest’ultima un significato nuovo, sostanziale, performativo:

«È essa (la fede, n.d.a.) per noi “performativa” – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto “informazione” che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? <…> Fede è sostanza della speranza »

          La peculiarità di un messaggio performativo rispetto ad uno semplicemente informativo è che il primo – a differenza del secondo – agisce sulla realtà, trasforma immediatamente la vita di chi lo accoglie e la sua realtà circostante. La fede di cui parla il Papa in Spe Salvi non è semplicemente un annuncio ultraterreno che rimanda ad una realtà metatemporale – al di fuori del tempo – cui il cristiano può aspirare come consolazione ai travagli ed alle sofferenze esistenziali. L’enciclica ci dice che la fede è salvifica adesso, nell’hic et nunc della nostra condizione epocale; la fede è sostanza e -proprio per questo- diventa speranza «mondana» (nel-mondo) e non semplicemente ultraterrena:

«La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una «prova» delle cose che ancora non si vedono»

          La fede-speranza di cui parla Spe Salvi è una sorta di s-velamento: una Verità che si sottrae come una danzatrice che lascia cadere dei veli, mentre indietreggia ed elude lo sguardo dello spettatore velandosi di nuovo; non è certamente un caso che «Rivelazione» significhi «che si vela due volte». Tuttavia, per il laico e per il suo concetto di ragione, non è facile accettare questa concezione fideistica della speranza. In particolare il Massone – in quanto uomo libero – è come un viandante che rifiuta lo sfondo consolatorio e salvifico delle verità dogmatiche o ideologiche per muoversi verso sentieri ancora inesplorati ed interrotti. Nuovi percorsi per nuovi sentieri del pensiero, senza tuttavia che questo significhi una qualche forma di sospensione nella ricezione dell’eredità iniziatica della Tradizione. Ecco perché ritengo necessario elaborare una nuova forma di definizione del concetto di «speranza» un po’ diversa da quella fideistico-teologica papale, più adatta cioè non soltanto al Massone, ma in genere a tutta la società laica.

          Il Principe Rosa+Croce è il viandante della via Francigena, per il quale non è importante dove essa conduca, ma lo spirito che pervade il pellegrino che la percorre, la tensione che spinge il viandante verso il fine. Nel cammino rosa+cruciano la speranza è una compagna del nostro viaggio interiore e rappresenta il bordone appoggiandoci al quale desideriamo crescere nel nostro intimo e impediamo alla disperazione di impadronirsi di noi anche nei momenti più difficili.

          La speranza che vogliamo nasce dai principi morali in cui crediamo, dall’amore verso l’Essere Supremo e verso l’uomo, dal rispetto della nostra e delle altrui libertà, a partire da quella religiosa. Dal nostro voler essere sapienti al fine di saper discernere il bene dal male, con una visione ottimistica della società umana, dedicandoci con le nostre possibilità individuali al nostro arricchimento interiore e al bene dell’intera umanità.

          Al pari dell’Ulisse dantesco che invitava i compagni alla conoscenza e alla virtute crediamo che la scienza da sola non basta,se non è accomunata allo spirito e alla credenza in un Essere Supremo.

          La scienza (la conoscenza) da sola può essere utilizzata per combattere le malattie, ma anche per costruire l’atomica distruttiva, può partorire Beethoven e la sua musica e contemporaneamente Hitler e l’olocausto. Il massone,mattone dopo mattone, con la sua virtute, deve edificare il proprio tempio interiore,animato dal bene e dall’amore,verso se stesso e verso l’umanità intera, dandosi un’organizzazione (uno stile di vita) adeguata, e un progetto preordinato al pari degli artigiani medioevali,costruttori di cattedrali. Insieme al teologo Mancuso ritengo anch’io migliore un profano semplice lavoratore e onesto che un Massone magari bene inserito nella società,ma disonesto.

          Soffermiamoci ancora qualche istante sul nostro tempo.

          La contemporaneità è sempre più spaventata di fronte alla crisi che attanaglia il mondo occidentale. Soprattutto la Chiesa Cattolica Romana sembra intenzionata ad interrompere il dialogo con la scienza e con il pensiero contemporaneo, paventando lo spauracchio di derive relativistiche. Al contrario io credo che il relativismo ed il nichilismo “attivo”- quello assertivo, propositivo- costituiscano l’orizzonte speculativo tramandatoci dalla storia dell’Occidente, dal quale non si può semplicemente allontanarsi sic et simpliciter. La crisi della ragione è la sfida del nostro tempo con cui dobbiamo, giocoforza, confrontarci. Sostenere come fa il Papa (nel famoso discorso di Ratisbona su Manuele Paleologo II) che la fede è razionale e speculare alla ragione- ma ad essa prioritaria e trascendente- mi sembra di ritornare al vecchio assioma medievale della ratio (filosofica) ancella della teologia e subordinata alla Scrittura.

Vediamo anche più da vicino questo «relativismo», tanto temuto soprattutto dal cattolicesimo. Quando si parla di relativismo non possiamo prescindere dal pensarlo come eredità della storia del pensiero occidentale. I motivi che sottendono la formazione di questo pesante lascito sono molteplici:

  1. La frantumazione del sapere filosofico, in quanto pensiero esaustivo ed unitario, nella molteplicità delle neonate scienze umane più idonee a scandagliare i tradizionali campi d’indagine della filosofia: la psicologia come disciplina che indaga la psiche, la sociologia che si occupa delle dinamiche sociali, l’antropologia culturale le strutture culturali, ecc. Non è più possibile pensare ad una scienza delle scienze, ma si deve ripiegare su più discipline che analizzano la «verità» secondo il relativo approccio metodologico.
  2. Il trionfo della razionalità tecnica che rende inadeguato il sapere filosofico, umanistico. Non è più necessario rispondere alle classiche domande del pensiero umanistico («dove vado?», «perché sono nato?», «qual è il senso dell’esistenza?», ecc.), ma si deve passare a trarre le conseguenze dalle premesse date («qual è lo sviluppo sostenibile?», anziché «come deve essere  pensata l’idea di sviluppo sostenibile?»).
  3. La fine del pregiudizio etnocentrico: non è possibile valutare civiltà culturalmente diverse secondo scale di valori universali desunte dall’evoluzione della storia occidentale. Ogni civiltà ha una sua storia ed una sua dignità culturale: le civiltà non-occidentali non sono inferiori o arretrate, ma seguono semplicemente un percorso diverso.
  4. La fine dell’idea di progresso indefinito e delle metanarrazioni, secondo cui la storia è una linea retta che procede inesorabilmente verso un fine trascendente o ideale, sia questo la società egualitaria, il dominio tecnologico o la Parusia. Per i Greci il tempo è circolare e gli stessi eventi si sarebbero perpetuati in eterno alla fine d’ogni ciclo cosmico: di nuovo sarebbe nato «un» Platone, di nuovo «un» Leonida sarebbe caduto con onore alle Termopili, ecc. La tradizione giudaico-cristiano desume e perfeziona dall’annalistica romana l’idea di un tempo lineare dominato da un inizio (la Rivelazione) ed una fine ineluttabile (Il Regno di Dio, la seconda venuta di Cristo o Parusia). La scienza e il pensiero utopico fanno proprio questo schema rettilineo: un inizio (rispettivamente la nascita della scienza moderna e del socialismo) ed una fine (rispettivamente il dominio sulla natura e la società egualitaria). Nel Novecento viene meno proprio quest’idea che la storia sia un percorso lineare e necessario: al contrario, il cammino dell’umanità è interrotto da stasi, regressioni, deviazioni. Soprattutto viene a cadere l’idea di un lieto fine che garantirà il trionfo infallibile della giustizia.

La ragione cartesiana ed illuministica entra in crisi all’inizio del Novecento ed implode dopo il secondo conflitto mondiale. Altre correnti postfilosofiche si affacciano all’orizzonte: tutte, pur nella diversità d’intenti e di metodologie, sconfessano la vecchia filosofia fondazionalista, le metanarrazioni (escatologia e teologia) e le metateorie (la metafisica). In altre parole, sconfessano la possibilità di arrivare a qualche forma di sapere assoluto ed universale. La crisi del fondazionalismo è completata dalla letteratura del Novecento che mette in discussione l’ontologia dell’identità soggettiva. Il soggetto (la ragione) è omologato dalla differenza, dietro l’ordine si nasconde il caos come nelle pagine dell’Ulisse Joyciano o in Il Processo di Kafka.

Il sapere, da adesso in poi, può essere soltanto «relativistico». Il relativismo può assumere diverse forme (storico, epistemologico, logico-linguistico, etico, ecc.), ma in ogni caso può essere definito come «quella posizione (o insieme di posizioni) che rifiuta la possibilità di elaborare un complesso di conoscenze, di credenze, di precetti etici, condivisi universalmente ed oggettivamente determinati». Il relativismo comporta l’inevitabile incenerimento dei campi del sapere e delle scelte etiche: tutto è lecito, finché non viola la sacra sfera della differenza, finché la personale weltanschauung (ted. «visione del mondo») non viene imposta all’Altro. Inevitabilmente, il relativismo trova la massima apoteosi nella postmodernità, dove si annullano le vecchie categorie di «alto», «basso», «sacro» e «profano». È proprio questa sorta d’omologazione nella differenza, di livellamento assiologico ed ontologico a preoccupare il Cattolicesimo. Una concezione dove tutte le fedi sono uguali e degne di rispetto, in cui nessun dogma o nessuna nota della Cei può essere imposta dall’alto. Questa è lo spauracchio temuto dalla gerarchia d’Oltretevere che pretende, al contrario, di continuare ad esercitare i suoi secolari pregiudizi per esempio sulla sessualità e sul modus vivendi della collettività. In fondo, forse una posizione antitetica al comandamento dell’amore universale introdotto da Cristo.

Definito il concetto di «relativismo» ed indicate le motivazioni sottese alla idiosincrasia cattolica,vorrei esaminare le ragioni per cui, al contrario, il relativismo non solo non può essere facilmente messo tra parentesi, ma costituisce un’occasione per il pensiero, specialmente se riallacciato all’idea di una speranza laica e aconfessionale.

L’abbandono della pretesa di rivendicare il possesso esclusivo della «Verità» da parte di uno o più soggetti comporta l’apertura dello spazio etico dove è possibile incontrare e confrontarsi con comunità e tradizioni che presentano visioni del mondo differenti, dove anziché praticare la clash of civilisations si preferisce praticare il dialogo e l’ascolto. In questo caso si deve passare dall’idea di detenzione e-sclusiva di «Verità» assoluta a quella di con-divisione in-clusiva di molteplici visioni che presentano la medesima dignità culturale. In questo caso la visione dell’«Altro» equivale alla mia: i criteri normativi che permettono di preferire una civiltà o una verità ad un’altra sono intrinseci ai paradigmi comunitari (ai processi storici che formano le civiltà).

Una civiltà è una costruzione storica e culturale e la differenza tra due sistemi deve spesso essere cercata nel livello di complessità sociale. Ma se questa asserzione da un lato mette finalmente fine alle pretese di egemonia culturale o spirituale di una dottrina su un’altra (relativismo culturale o epistemologico), dall’altro rischia di provocare dei cortocircuiti inquietanti all’interno di realtà multiculturali (relativismo etico): pensiamo alla possibilità di rivendicare la pratica della poligamia, dell’infibulazione o delle mutilazioni corporali all’interno del territorio occidentale. Non tutto può essere equiparato o relativizzato, si deve distinguere il relativismo etico dal relativismo epistemologico o culturale: per il primo non tutto è riconducibile a parametri omogenei (la fatwa a morte su scrittori o cineasti ritenuti «infedeli» non è equiparabile alle vignette danesi su Maometto).

Si deve quindi porre un meta-orizzonte di valori non negoziabili: nel caso della civiltà occidentale, dobbiamo rivendicare la centralità ed inviolabilità della dignità umana ed il diritto volterriano di libertà e manifestazione.

Anche le altre civiltà presentano, a loro volta, dei meta-orizzonti imprescindibili: si deve difendere questi meta-orizzonti etici, mentre tutto il resto può essere sottoposto alle assimilazioni plasmatrici, al dialogo ed all’ascolto. In questo contesto mi sembra – finalmente – acquistare senso la possibilità di una ri-definizione del concetto di «speranza», di cui parlavo sopra, come di un confronto/ascolto dialogico tra visioni plurali dotate della medesima dignità epistemologico-culturale, ma fondate su meta-orizzonti etici eterogenei, su cui è necessario produrre il massimo sforzo persuasivo.

L’idea di speranza deve quindi essere riallacciata all’ideale di un multiculturalismo parziale (confronto/ascolto soltanto su dottrine e usanze religiose o culturali che non mettano in discussione la dignità e la libertà umana), dove sia possibile rispettare le differenze, senza per questo cadere nel qualunquismo o nel cinismo. Invece di propugnare derive fideistiche, o di contemplare con nostalgia vecchie ideologie totalitarie, ritengo che sia questo il nuovo orizzonte della speranza. Un orizzonte che si presenta, al contempo, come una sfida ed una possibilità anche per la Massoneria.

Sabato 13 settembre avevo fra le mani i maggiori quotidiani italiani che riportavano il resoconto della visita del Papa in Francia e della sua “lectio magistralis” tenuta di fronte al Presidente della Repubblica francese e davanti a settecento,fra storici,intellettuali,filosofi e artisti.

A due anni esatti dal controverso discorso all’Università di Ratisbona contro il fanatismo religioso, mi sono sembrate importanti le novità del  messaggio papale nella secolarizzata Francia nell’affermare che fra fede e politica non c’è contrasto, che è vero che esiste una laicità positiva,che la religione non è identificabile con uno Stato: la religione non è politica e la politica non è una religione. Il messaggio sicuramente innovativo era rivolto per una comprensione più aperta tra Stato e Chiesa, per “tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini sia la responsabilità dello Stato verso di essi…sia per acquisire piena consapevolezza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del suo contributo alla creazione di un consenso etico di fondo nella società. Nel mondo attuale che offre poche aspirazioni spirituali e poche certezze materiali,la società necessita di Dio e di speranza.” Sarkozy a sua volta nel tranquillizzare tutte le religioni e in particolare quella musulmana ha detto che “…occorre fare di tutto affinché gli islamici possano vivere la loro fede a parità con tutte le altre. La laicità positiva (aperta al dialogo) prevede infatti il rispetto delle convinzioni religiose di ognuno…Sarebbe però una pazzia privarci della religione: sarebbe un errore contro la cultura e il pensiero.”

Indubbiamente sono dei passi in avanti notevoli fra due posizioni fino ad ieri assai divergenti, tanto che mentre il giorno precedente il quotidiano della “gauche” Liberation definiva il viaggio del Papa una “missione impossibile” il giorno successivo quasi tutti i quotidiani italiani e stranieri parlavano di “Santa Alleanza” del Papa con Sarkozy, certamente una alleanza per l’Europa a difesa delle radici cristiane escluse a suo tempo dalla Carta della UE.

Sarà interessante conoscere che cosa accadrà nel prossimo futuro nella scettica Francia in cui le chiese sono però ancora sempre pressoché vuote (solo l’otto per cento va a messa e nemmeno tutte le domeniche), in cui le vocazioni sono in vertiginosa caduta, il materialismo imperante, e in cui è ancora vigente una legge-dogma vecchia di un secolo (1905) che sancisce una separazione tra Stato e Chiesa  molto netta e assai più marcata della Costituzione americana.

Per quello che riguarda la nostra Istituzione ritengo che vi siano tutte le condizioni per inserirci con le nostre menti più prolifiche nel dialogo intrapreso, visto che peraltro sentiamo parlare sempre più spesso di temi a noi cari e di religione al plurale.

Per quello che riguarda infine la Chiesa di Roma vanno sottolineate le parole impegnative e innovative ( o di circostanza?) di Papa Ratzinger da cui ci attenderemo azioni conseguenti.

Riprendere ad esempio il percorso delle “Giornate interreligiose”, in cui si incontravano tutte le religioni dell’Occidente e dell’Oriente anche più estremo, inaugurato da Giovanni Paolo II e successivamente abbandonato, sarebbe una cosa buona e giusta.

Sicuramente per noi massoni e per l’umanità intera sarebbe tutto più giusto e perfetto.

TAVOLA SCOPITA DAL FR: Massimo Corti

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