UGO FOSCOLO

UGO FOSCOLO, UN POETA MASSONE TRA ILLUMINISMO E ROMANTICISMO

Tra le colonne della stessa Loggia di Vincenzo Monti, la Reale Amalia Augusta all’Oriente di Brescia, sedette anche un altro poeta, che però manifestò un’indole ben diversa, poco incline com’era all’adulazione e sempre disposto a pagare in prima persona le proprie scelte ideali. Ugo Foscolo, com’è ben noto, era nato a Zante, allora territorio della Repubblica di Venezia, nel 1778. Dopo i primi studi in Dalmazia si trasferì prima a Venezia, dove frequentò i letterati massoni Ippolito Pindemonte e Aurelio De’ Giorgi Bertola, poi a Padova. Di formazione schiettamente illuminista fu però percorso da quelle irrequietezze preromantiche che avevano già caratterizzato Goethe prima di lui. Di simpatie dapprima giacobine, aveva aderito con entusiasmo alla politica napoleonica – a Napoleone aveva dedicato l’ode A Bonaparte liberatore – per rimanerne poi profondamente ferito quando nel 1797, col Trattato di Campoformio, la Francia cedeva Venezia all’Austria. Foscolo si dimise da tutte gli incarichi pubblici e si rifugiò in esilio volontario a Milano e poi a Bologna. La cocente delusione subita non gli impedì di combattere con le truppe francesi contro quelle austriache a Marengo prima e poi a Cento, ove rimase ferito. Ripubblicò in questo periodo l’ode A Bonaparte liberatore, ma in forma emendata, con un esplicito invito a Napoleone a non assumere le vesti del tiranno. Tra il i 1806 e il 1807 visse a Brescia (ove pubblicò Dei sepolcri): a questo periodo risale la sua affiliazione alla Loggia Reale Amalia Augusta. Nel 1808 occupò la cattedra di letteratura italiana dell’Università di Pavia – il cui titolare precedente era Vincenzo Monti – ma questa venne soppressa da Napoleone. Ormai il tiranno scopriva le carte e il suo vero volto, e ogni manifestazione di libero pensiero era messa al bando. Da quel momento inizia un tormentato esilio, prima a Firenze, poi in Svizzera. Nel 1813 tornò a Milano, dopo la sconfitta a Lipsia di Napoleone, per difendere il Regno d’Italia dagli austriaci. Dopo la definitiva sconfitta del 1814 rifiutò l’offerta del governo austriaco di dirigere una rivista, perché era vincolante un giuramento di fedeltà al regime di Vienna che Foscolo non sentiva in coscienza di poter prestare. Questa decisione segnò l’esilio definitivo di Foscolo, a Londra, dove si spense, povero e malato, nel 1827. Non è questa la sede per ricordare tutte le traversie che la sua opera principale, Ultime lettere di Jacopo Ortis, dovette affrontare {tra cui una pubblicazione abusiva nel 1799, e vari rimaneggiamenti fino al 1817). Il romanzo, in forma epistolare, risale al periodo della delusione di Campoformio, che già l’incipit manifesta senza mezze misure:

Da’ colli Euganei, 11 Ottobre 1797

 Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo So: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri?1)

Da notare la data, 11 ottobre 1797: non passeranno che sei giorni prima della firma (ufficiale) del Trattato di Campoformio. L’amor di Patria, dunque, e la delusione manifestata agli Italiani senza coraggio, almeno altrettanto che a Napoleone, come cifra caratteristica del romanzo:

Esclamano d’essere stati venduti e traditi: ma se si fossero armati sarebbero stati vinti forse, non mai traditi; e se si fossero difesi sino all’ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati di comperarli. Se non che moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia! Ma i francesi che hanno fatto parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertà, faranno da Timoleoni in pro nostro? – Moltissimi intanto si fidano nel Giovine Eroe nato di sangue italiano; nato dove si parla il nostro idioma. lo da un animo basso e crudele, non m’aspetterò mai cosa utile ed alta per noi. Che importa ch’abbia il vigore e il fremito del leone, se ha la mente volpina, e se ne compiace? Sì; basso e crudele – né gli epiteti sono esagerati. A che non ha egli venduto Venezia con aperta e generosa ferocia? Selim | che fece scannare sul Nilo trenta mila guerrieri Circassi arresisi alla sua fede, e Nadir Schah che nel nostro secolo trucidò trecento mila Indiani, sono più atroci, bensì meno spregevoli. Vidi con gli occhi miei una costituzione democratica postillata dal Giovine Eroe, postillata di mano sua, e mandata da Passeriano a Venezia perché s’accettasse; e il trattato di Campo Formio era già da più giorni firmato e Venezia era trafficata; e la fiducia che l’Eroe nutriva in noi tutti ha riempito l’Italia di proscrizioni, d’emigrazioni, e d’esilii. – Non accuso la ragione di stato che vende come branchi di pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la patria mia, Che mifu tolta, e il modo ancor m’offende. Nasce italiano, e soccorrerà un giorno alla patria: – altri sel creda; io risposi, e risponderò sempre: La Natura lo ha creato tiranno: e il tiranno non guarda a patria; e non l’ha?2)

E ne ha per tutti: per la chiesa, per i nobili, per la borghesia senza nerbo:

Ben è vero, l’Italia ha preti e frati; non già sacerdoti: perché dove la religione non è inviscerata nelle leggi e ne’ costumi d’un popolo, l’amministrazione del culto è bottega. L’Italia ha de’ titolati quanti ne vuoi; ma non ha propriamente patrizj: da che i patrizj difendono con una mano la repubblica in guerra, e con l’altra la governano in pace; e in Italia sommo fasto de’ nobili è il non fare e il non sapere mai nulla. Finalmente abbiamo plebe; non già cittadini; o pochissimi. | medici, gli avvocati, i professori d’università, i letterati, i ricchi mercatanti, l’innumerabile schiera degl’impiegati fanno arti gentili essi dicono, e cittadinesche; non però hanno nerbo e diritto cittadinesco?3)

 ‘Ma c’è altro, oltre l’impegno politico, nell’Ortis: c’è il simbolismo che emerge qua e là nell’opera e che ha chiari richiami al patrimonio simbolico liberomuratorio. Tra i tanti, riportiamo il brano che segue, in cui il Sole è definito ministro maggiore della Natura:  

Parea che Notte seguìta dalle tenebre e dalle stelle fuggisse dal Sole, che uscia nel suo immenso splendore dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e l’universo sorridea. Le nuvole dorate e dipinte a mille colori salivano su la volta del cielo che tutto sereno mostrava quasi di schiudersi per diffondere sovra i mortali le cure della Divinità. lo salutava a ogni passo la famiglia de’ fiori e dell’erbe che a poco a poco alzavano il capo chinato dalla brina. Gli alberi susurrando soavemente, faceano tremolare contro la luce le gocce trasparenti della rugiada; mentre i venti dell’aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avresti udito una solenne armonia spandersi confusamente fra le selve, gli augelli, gli armenti, i fiumi, e le fatiche degli uomini: e intanto spirava l’aria profumata delle esalazioni che la terra esultante di piacere mandava dalle valli e da’ monti al Sole, ministro maggiore della Natura. – lo compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo e guardare tanti beneficj senza sentirsi gli occhi bagnati dalle lagrime della riconoscenza4).

È difficile, in questo brano, non rintracciare l’afflato al Sacro: un afflato che, certo, rimanda a una religione naturale di stampo illuminista, ma che vive già le tormentate domande del romanticismo. Non è facile trattare in chiave massonica un’opera così densa. Ma alcune suggestioni non possono sfuggire. Nell’opera si trovano simbolicamente tre Foscolo. C’è Lorenzo Alderaniil destinatario delle lettere, e curatore della raccolta – che è apprendista dell’arte, spettatore esterno ed incredulo, passivo, che non comprende completamente il dramma di Ortis, e la cui cifra caratteristica è l’assenza di qualunque propensione all’azione. Poi c’è lo stesso Foscolo in carne ed ossa, che matura la propria umanità nello sviluppo dell’opera. E infine c’è il protagonista Ortis, che è l’alter ego di Foscolo per eccellenza, il più importante, perché quello che esegue il rituale simbolico della morte. Foscolo usa il suicidio del suo alter ego Ortis e mette così in scena il proprio suicidio simbolico con cui supera la propria condizione di uomo nella sfera privata e si pone come uomo nella sfera della storia: è Ortis che incarna il Maestro massone, è Ortis il personaggio col quale Foscolo chiude la vicenda privata e rinasce uomo migliore per entrare in una dimensione pubblica, storica ed in definitiva eroica. Il suicidio non è per amore di Teresa (No, cara giovine; non sei tu cagione della mia morte. Tutte le mie passioni disperate; le disavventure delle persone più necessarie alla vita mia; gli umani delitti; la sicurezza della mia perpetua schiavitù e dell’obbrobrio perpetuo della mia patria venduta – tutto insomma da più tempo era scritto”) 5) ma per il tradito e impossibile amor di Patria. E lascia Foscolo in una dimensione intermedia, da Compagno d’Arte, ma già nettamente proteso verso la Maestranza. È come se nell’opera il Foscolo, nel suo percorso Massonico, abbia deciso di mettere in scena ciò che era – l’apprendista Alderani- e ciò cui aspira – il Maestro Ortis -. Sotto questa luce, forse è voluta – o forse solo inconscia – la scena finale in cui tre lavoratori (quasi fossero i tre compagni traditori del Maestro Hiram) sotterrano il cadavere di Ortis:

 La notte mi strascinai dietro al cadavere che da tre lavoratori fu sotterrato sul monte de’ pini6).

 Ancora al massone Francesco De Sanctis lasciamo il commento sull’opera:

Comparve lacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di una insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava l’eroe liberatore di Venezia, e l’eroe mutatosi in traditore vendeva Venezia all’Austria. Da un dì all’altro Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo. Sfogò il pieno dell’anima nel suo lacopo Ortis. La sostanza del libro è il grido di Bruto: “O virtù, tu non sei che un nome vano”. Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è la sua morte, è il suicidio. A breve distanza hai l’ideale illimitato di Alfieri con tanta fede, e l’ideale morto di Foscolo con tanta disperazione. Siamo ancora nella gioventù, non ci è il limite. IIlimitate le speranze, illimitate le disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù, giustizia, gloria! scienza, amore, tutto questo mondo interiore dopo sì lunga e dolorosa gestazione appena è fiorito, e già appassisce.. La verità è illusione, il progresso è menzogna. Al primo riso della fortuna ci era la follia delle speranze, al primo disinganno ci è la follia delle disperazioni. Questo subitaneo trapasso di sentimenti illimitati al primo urto della realtà rivela quella agitazione d’idee astratte ch’era in Italia, venuta da’ libri e rimasta nel cervello, scompagnata dall’esperienza, e non giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo lacopo un sentimento morboso, una esplosione giovanile e superficiale, più che l’espressione matura di un mondo lungamente covato e meditato, una tendenza più alla riflessione astratta, che alla formazione artistica, una immaginazione povera e monotona in tanta esagerazione de’ sentimenti. Il grido di lacopo rimase sperduto fra il rumore degli avvenimenti. Sorsero nuove speranze, si fabbricarono nuove illusioni. Il romanzo, uscito anonimo, mutilato e interpolato, pura speculazione libraria, destò curiosità, fu il libro delle donne e de’ giovani, che vi pescavano un frasario amoroso. Ma non vi si die’ importanza politica nè letteraria, anzi molti, tratti da somiglianze superficiali, lo dissero imitazione del Werther. Il fatto è che non rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta da così rapida vicenda di cose e di uomini, e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze. Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria, della patria di Dante e di Alfieri. Le necessità della vita lo incalzavano. E ancora più, uno spirito guerriero che gli ruggia dentro e non trovava espansione, una forza inquieta in ozio. Giovane, pieno d’illusioni, appassionato, con tanto “furore di gloria”, con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio di fare, e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco, stimolato da Alfieri, quell’ozio forzato lo gitta violentemente in sè, gli rode l’anima. È la malattia ch’egli chiama nel suo Ortis con una energia piena di verità “consunzione dell’anima”7).

Non si può, infine, fare a meno di dedicare qualche parola anche a Dei sepolcri. Non per l’importanza letteraria del carme, ben nota a tutti, quanto per il senso della morale laica che pervade tutta l’opera, dando un valore alla morte che va ben oltre il premio in un aldilà misterioso e incerto. Per Foscolo, come per i massoni in genere, il premio è qui e ora, e se qualcosa rimane dopo la morte è nell’esempio di chi passa all’Oriente Eterno e nel ricordo di chi rimane. In questa cornice si muove il memorabile incipit, con il richiamo, ancora una volta, al Sole e a un’armonia che riflette il senso di una visione religiosa, certo, ma non positiva quanto piuttosto naturale:

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne

confortate di pianto è forse il sonno

della morte men duro? Ove più il Sole

per me alla terra non fecondi questa

bella d’erbe famiglia e d’animali,

e quando vaghe di lusinghe innanzi

a me non danzeran l’ore future,

né da te, dolce amico, udrò più il verso

e la mesta armonia che lo governa,

né più nel cor mi parlerà lo spirto

delle vergini Muse e dell’amore,

unico spirto a mia vita raminga,

qual fia ristoro a’ di perduti un sasso

che distingua le mie dalle infinite

ossa che in terra e in mar semina morte?

Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,

ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve

tutte cose l’obblio nella sua notte;

e una forza operosa le affatica

di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

e l’estreme sembianze e le reliquie

della terra e del ciel traveste il tempo. 8)

Ed ecco, poco oltre, il valore di ricordo mosso dal sentimento Verso ciò che è capace di lasciare qualcosa dopo la morte:

Non vive ei forse anche sotterra, quando

gli sarà muta l’armonia del giorno,

se può destarla con soavi cure

nella mente de’ suoi? Celeste è questa

corrispondenza d’amorosi sensi,

celeste dote è negli umani; e spesso

per lei si vive con l’amico estinto

e l’estinto con noi, se pia la terra

che lo raccolse infante e lo nutriva,

nel suo grembo materno ultimo asilo

porgendo,sacre le reliquie renda

dall’insultar de’ nembi e dal profano

. piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,

e di fiori odorata arbore amica

le ceneri di molli ombre consoli.

Sol chi non lascia eredità d’affetti

poca gioia ha dell’urna; e se pur mira

dopo l’esequie, errar vede il suo spirto

fra ‘I compianto de’ templi acherontei,

o ricovrarsi sotto le grandi ale

del perdono d’Iddio: ma la sua polve

lascia alle ortiche di deserta gleba

ove né donna innamorata preghi,

né passeggier solingo oda il sospiro

che dal tumulo a noi manda Natura?9)

 Ma l’eredità di chi lascia questa vita è soprattutto l’esempio, lo stesso esempio che Foscolo aspira a lasciare, l’esempio delle virtù dell’Eroe, di chi per scelta antepone il bene dell’altro – in primis della Patria, per Foscolo – al proprio:

A egregie cose il forte animo accendono

l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella

e santa fanno al peregrin la terra

che le ricotta 10)

E allora, chi meglio di Ettore, per incarnare quest’etica laica, fondata – e come potrebbe essere altrimenti – sulla libertà di scelta dell’Eroe? Perché non c’è eroismo senza libertà di scelta, non c’è grandezza in un gesto eclatante imposto dall’esterno. Ettore incarna l’entusiasmo contrapposto al fanatismo, dunque, e Foscolo gli affida il compito di chiudere il Suo carme:

E tu onore di pianti, Ettore, avrai,

ove fia santo e lagrimato il sangue

per la patria versato, e finché il Sole

risplenderà su le sciagure umane 11).

 Niente premio e niente espiazione per il Massone nell’aldilà. Tutto si gioca qui, su questa terra, nella capacità di lasciare un segno, di essere costruttori di sogni. Ma senza derive materialiste, e anzi con una sacralità che nulla ha da invidiare alle religioni rivelate.

MARCO  ROCCHI

TRATTO DA “HIRAM  n°3/2018

NOTE

1 Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, 1801

2) Ibidem.

3) Ibidem

4) Ibidem

5) Ibidem

6) Ibidem

7) Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, 1870.

8) Ugo Foscolo, Dei sepolcri, 1806) Ibidem

9) Ibidem

10) Ibidem

11) Ibidem

Questa voce è stata pubblicata in Lavori di Loggia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *