FINALMENTE LIBERA

Finalmente libera

Sara  si guardò un attimo intorno.

Furtiva, rubava con lo sguardo l’essenza dell’altrui vivere.

Mentre osservava, infatti, dava la netta impressione che in un solo, misero istante, capisse tutto ciò che la vita, passando, lasciava addosso a chi le si “parava” di fronte.

In quel parco giochi, in un orario qualsiasi di un pomeriggio anonimo e tristemente grigio, ad un tratto tirò fuori dal suo portafogli, gonfio di appunti con indirizzi e numeri telefonici, una foto stropicciata e leggermente ingiallita dal tempo.

Lei la guardò con un amore eterno ed infinito.

  • Mia figlia.- mi disse accennando un sorriso amaro.

Due occhi scuri come la notte ma lucenti come il sole mi guardavano da quella foto, felici ed ignari.

La raggiante gioia della fanciullezza.

L’inconsapevole bellezza dell’ingenua lealtà e viva sincerità.

Perché quella foto?

Guardai per alcuni minuti quell’immagine, cercando in ogni modo di capire.

Sentii Sara sospirare.

Riprese la sua foto, la guardò un attimo e le sorrise.

La rimise al suo posto con estrema cura.

  • Questo è tutto quello che di concreto mi rimane di lei.- disse.

La guardai in silenzio.

  • La vita è beffarda. Si prende gioco di tutti. Ti regala la gioia più grande e proprio quando finalmente pensi che una fetta di felicità questa volta sia toccata anche a te, ti accorgi che invece no, non è così. –

Sara parlava con voce rauca. Quelle parole le venivano dall’anima e le graffiavano quel poco di carne che le era rimasta attaccata addosso.

Il dolore dapprima lacera, dopo consuma a poco a poco .

Ogni tanto la vedevo perdersi, probabilmente appesa con un filo sottilissimo ai suoi ricordi.

Sapevo della sua bambina. Me ne avevano parlato.

Mi avevano detto che se n’era andata tre anni fa. Aveva dieci anni.

Una malattia che colpisce quasi esclusivamente le bambine.

La sindrome degli occhi belli. La sindrome di Rett.

“ Non perdona” mi avevano detto. Io non sapevo neanche che cosa fosse, non ne avevo mai sentito parlare.

Il problema è proprio questo: non è una malattia molto conosciuta.

Solo da pochi anni, mass media e personaggi dello spettacolo, stanno iniziando ad  impegnarsi nella diffusione di informazioni che riguardano questa patologia, ma per il resto solo chi ne viene colpito e chi gli sta vicino, sa di che cosa si tratta.

 La scienza se ne occupa attivamente, ma le cure sono quasi nulle. Ci vuole tempo per raggiungere dei risultati, tempo per capire, confrontare e conoscere. Sperimentare.

Io non ho mai avuto un figlio e non ho idea di che cosa significhi veder scivolare via la sua vita, dopo che con ogni forza per anni si è cercato di trattenerla, ma, immagino che la parola “ tempo” non basti a giustificare l’impotenza della scienza di fronte a quella dolce anima così fragile che ad un certo punto si dissolve e se ne va.

Conoscevo Sara solo da pochi mesi. Stavamo lavorando insieme ad un progetto lavorativo.

Era una persona silenziosa, pacata, estremamente umile: l’umiltà tipica di chi ha già perso tutto nella vita e sa esattamente cosa vuol dire non avere più niente.

Rientrammo dal parco e andammo direttamente a casa di Sara.

Entrando, vidi tante fotografie della piccola Isabella.

Spesso, nelle foto, aveva le mani vicino alla bocca.

In effetti ciò che colpiva di più erano gli occhi di quel piccolo angelo.

Vivaci e sorridenti.

Entrare in quell’appartamento era come entrare in una stanza segreta del cuore di chi l’abitava.

Tutto era ordine ed infinito calore. Colori tenui alle pareti e tendaggi leggeri. Tappeti e fiori.

Non lo avrei mai immaginato così. Tutto questo era per la piccola Isabella,come se inconsciamente Sara sperasse che la sua piccola bambina, fosse ancora lì.

Sara camminava scalza sui tappeti morbidi. Notai qualche gioco, appoggiato sui mobili.

Vicino allo stereo, cd con musica da bambini.

Tulipani rosa e bianchi sul tavolo di cristallo da salotto, vicino ad una foto della piccola appena nata.

  • Oggi avrebbe compiuto tredici anni.- mi disse porgendomi una tazza di té.

Non avevo idea di cosa dire. Volevo che fosse lei a parlare. Avrei voluto che una volta uscite le parole, uscisse anche il dolore, ma..

Ci sedemmo sui divani bianchi. Una di fronte all’altra.

  • Sai, non ero triste quando è morta. Ero spaventata, perchè non sapevo come sarebbe stata la mia vita senza di lei, ma non ero triste per lei, ero triste per me: perchè la disperazione qualche volta ti fa chiudere in una sorta di egoismo, per cui pensi che anche se lei soffre, purchè ci sia, va bene anche in quel modo.- posò la sua tazza di té e prese la foto di Isabella appena nata. Sorrideva sempre con tanta dolcezza nel guardare quelle immagini.
  • Lei soffriva. Forse non tanto fisicamente quanto dentro, nello spirito: uno spirito finito in gabbia, intrappolato. Fino a due anni e mezzo è stata una bambina normalissima. Non puoi immaginare con quale vivacità viveva le sue giornate! Era una meraviglia. Allegra, sorridente, giocava sempre. Sempre.- 

Guardai Sara mentre con la mente era ormai scivolata a rivivere quei giorni.

  • Poi tutto ad un tratto, quando la chiamavo lei non si voltava più. Le parlavo, ma non le importava, era precipitata in un Mondo tutto suo e non c’era modo di attirare la sua attenzione.-

Le  mani di quella povera mamma tanto coraggiosa,si aprirono inconsapevolmente nel gesto di chi vuol mostrare che sono rimaste vuote.

  • In pochi mesi, la vidi regredire di tutte quelle fantastiche scoperte che fanno i bambini nei primi anni di vita. Alla fine non parlava neanche più. Non ho più sentito il bellissimo suono della sua voce, da allora. Mi guardava e basta. Avevo solo i suoi occhi, come riferimento. Una finestra illuminata che si affacciava sulla sua anima innocente. –

Chiuse le mani l’una sull’altra e se le portò alla bocca quasi pregasse. Chiuse per un attimo gli occhi.

  • I pediatri non sapevano cosa dire. Ipotizzarono la sindrome di Rett ma non avevamo i risultati dei test.-

La guardavo ipnotizzata di fronte a tanto dolore e tanto sconcerto.

  • Esistono dei test specifici per questa malattia?- le chiesi.
  • Si, ma vengono fatti una volta scartata tutta una serie di altre possibilità.-
  • Ed esiste una cura, una soluzione, una volta diagnosticata la malattia?-
  • No. Non ancora.  C’è chi vive più a lungo, chi meno, ma..- fece una piccola pausa, cercando forse le parole più adatte a rendere l’idea di una situazione – Immagina lo spirito e la vivacità di una bambina, rinchiuso in un corpo che non ti obbedisce più!-

Per farmi capire aveva creato con le mani una gabbia, unendo la punta delle dita e poi le aveva strette dando l’impressione di schiacciare qualsiasi cosa si fosse trovata al suo interno.

  • E’ una malattia del sistema nervoso, per cui mani e corpo non rispondono più e Isabella non riusciva più assolutamente a coordinare i movimenti del suo corpicino. Non aveva più fame, né sete, né sonno. Il suo corpo era  diventato solo un involucro. –
  • Io e suo padre le siamo stati vicini e l’abbiamo assistita giorno e notte.-

Era la prima volta che la sentivo parlare del padre della bambina, ma solo perchè la loro storia era finita addirittura prima del manifestarsi della malattia di Isabella.

In quel momento, Sara mi fece chiaramente capire che quella sua presenza costante vicino a lei e alla loro piccola era stata di fondamentale importanza. Le aveva dato tanta forza.

  • Poi  – proseguì  – un giorno quella gabbia si è aperta e ha lasciato la sua anima finalmente libera. –

Vidi gli occhi di Sara diventare rossi e due fiumi di lacrime silenziosi solcarle il viso.

  • Io, ormai, avevo imparato ad amare il suo silenzio, le sue giornate interminabili, riuscivo quasi ad intuire in ogni suo gesto un messaggio, avevo imparato a gioire anche di quel poco che riusciva a darmi.-

Le accarezzai le mani. Una perdita così grande segna la vita di una persona per sempre.

Capii solo in quel momento perchè avesse deciso di raccontarmi di sua figlia.

La libertà. Per l’immenso valore che io do alla libertà.

La libertà è per ogni creatura dell’Universo la meta da raggiungere.

Isabella era finalmente libera.

Il cuore di chi l’ha amata e la ama deve riuscire a gioire di questo.

Può sembrare poco, ma per chi ha visto l’anima del proprio figlio chiusa irrimediabilmente in una gabbia,la morte non è più quel passaggio terribile verso una condizione che non si conosce, ma rappresenta l’unica via per rendere quella stessa anima, di nuovo libera:

è un fiume che finalmente raggiunge il mare, una carezza che diventa un abbraccio, la cupa tristezza che sfocia in pianto, ma anche la gaiezza che diventa ballo,risate e grida di gioia.

La immagino così adesso, la piccola Isabella, mentre balla, ride e grida di gioia chiamando la sua mamma affinchè riesca finalmente a vederla felice e  “Finalmente libera”.

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