DOPO AVER VISTO “IL FLAUTO MAGICO” del Fratello W. A. Mozart, per la regia di Ingmar Bergman
Non occorre commentare la sublime espressività della musica di Mozart, né la magia della regia e della scenografia della pellicola. Per quanto riguarda la musica, un Fratello dotato di capacità di leggere nelle musicalità del divino Wolfgang Amadeus Mozart può illuminarci sui significati arcani delle Sue note; ma, forse, la spiegazione sarebbe altra musica … Vorrei propormi di decifrare il messaggio dell’Opera nel suo aspetto visuale e verbale, secondo la viveka (il criterio discriminativo, in questa applicazione) della Dottrina Tradizionale dell’Oriente indo-asiatico. Non dico solo Indiano, perché la forma verbale di quella Dottrina è la stessa in tutta l’area dell’Oriente Asiatico, soprattutto a causa della diffusione dell’insegnamento del Buddha, che ha largamente influenzato il Tibet, la Malaisya, l’Indocina e, forse, anche l’area Zen. Mi pare, in questo mio esame frettoloso, che l’Opera possa essere letta in due modi: in chiave duale ed in chiave unitaria. Nella prima, si presentano due tipi umani; l’uno portato alle soglie dell’Iniziazione quasi per forza, è Papagheno, un uomo comune, un po’ ragiasico (n.d.r. riferito a persona che ordisce inganni), nel suo desiderio di attività a livello profano, ed un po’ tamasico, nel suo attaccamento ai piaceri ovvi e profani, del mangiare, dell’accoppiarsi e del procreare. Non arriva all’Iniziazione, perché non è per lui e non gli interessa per nulla, a lui basta trovare la sua controparte femminile, la sua Papaghena, e godersela, e mettere al mondo figli in quantità. L’altro tipo è quello rappresentato da Tamino, che si rivela sempre più come uomo sattwico, come “uomo di desiderio”, secondo la terminologia martinista e rosacrociana. I due candidati attraversano tutto l’iter della tegolatura e, poi, delle prove che spaventano Papagheno e lo fanno tornare alla sua carriera profana, che non lo lascia insoddisfatto, secondo le sue aspirazioni. Invece Tamino, veramente uomo di desiderio (desiderio di arrivare alla Luce), supera tutte le prove e giunge ad essere accettato dalla Fratellanza dei Saggi. Vista sotto questa chiave, l’Opera, ad un certo punto, può apparire sconcertante; la perpetuazione della dualità tra Tamino e Pamina porterebbe allo strano finale di sponsali di tipo totalmente hollywoodiano. Non può essere così: un recipiendiario che ha dimostrato, nelle sue vicissitudini e nelle prove, di essere un vero vanaprastha, un uomo che si è reso conto della vanità di tutte le cose del mondo, non può ricadere nei lacci di un affetto di carattere dualistico; per lui non conta più altro che la Ricerca della Luce, nella quale tutto si fonde in uno, in Dio. Perciò si direbbe che, da quel certo punto, il psicodramma mozartiano diventa mistico e Paminasi trasfigura nell’Atma, come quella figura femminile degli affreschi della Villa dei Misteri a Pompei. Se questa è la giusta lettura, allora dobbiamo tornare da-capo e rileggere tutta l’Opera in chiave monistica (n.d.r. riferito a dottrine che riducono la pluralità degli esseri a una sostanza unica). Allora tutti i personaggi e le vicende stanno tutte nell’interiorità dell’uomo; e vediamo tutti i conflitti, tutte le influenze degli attaccamenti al corpo fisico, ai sensi ed a quello che può offrire il mondo degli oggetti. Allora si tratta di un dramma del microcosmo individuale; ma, in realtà, non cambia niente. L’amore ed il desiderio che possiamo provare per un individuo dell’altro sesso, per i godimenti che ci presentano i sensi, a tutti i livelli, sono solo apparentemente fatti cosmici; ma il mondo esterno non c’entra per niente; tutto è dentro il sistema psicofisico dell “individuo. Un’analisi dettagliata, nella quale si dovrebbero collocare tutti i personaggi e tutte le fasi del dramma, richiederebbe molto tempo, molto studio e molte pagine; la lascio ad altri. Mi interessano ora due elementi che mi hanno colpito: il flauto di Tamino ed il carillondi Papagheno. Il primo lo guida e gli risolve tutti i momenti più perigliosi o sconcertanti; e mi pare che sia il Namasmarana, la ripetizione del Nome Divino. Chi si guida fermamente e con volontà sincera alla volta di quel Faro non potrà mai trovarsi in difficoltà, né deviare. Colui che si attiene tenacemente al Dharma, alla Legge che, nell’intimo, ci detta il Grande Architetto non sbaglierà mai, ed avrà conforto in tutti i casi di vita. Ma c’è anche la voce della Natura, detta da tutto ciò che c’è di materiale in noi; è il carillon di Papagheno. È non necessariamente malvagia; Papagheno non è un cinico immorale; è un bravo uomo che non ha sviluppato interesse per la ricerca spirituale. Vive e lascia vivere. Visto in chiave monistica, unipersonale, il Flauto è la voce di Buddhi, l’Intuizione, ossia quella parte o funzione della nostra mente che riceve i messaggi della Sfera Superiore, ed i campanelli di Papagheno sono le richieste che ci vengono dalle sfere fisica,vitale ed istintiva della nostra struttura. Può apparire insistente e fuori luogo il mio continuo riferimento alla Tradizione Indù;forse è una questione di gusto, od anche Karmica; ma, tra tutto quello che ho letto, la Voce dei Saggi Indiani è la più chiara, la più semplice e immediata. L’Occidente ha dovuto, forse per ragioni storiche, rivestire la Dottrina di mascheramenti enormemente elaborati e, per me forse,oggi inutili, Ramana Maharsci, Aurobindo, Ramakrshna e l’Avatara di oggi, Sri BhagavanSatya Sai Baba, sono come raggi laser!
TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. MARIO BIANCO
gennaio 1977 dell’e.. v..
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