COLLODI, L’AUTORE CHE VEDE IN SUA MADRE UNA FATA

Collodi, l’autore che vide in sua madre una fata

(Disgustato dagli adulti, volle dedicarsi ai bambini)

(Geminello Alvi)

 Corriere della sera    Domenica 29 Ottobre 2000

Il cielo turchino sfama­va a onde, come eccitato dalle policromie del tra­monto, colorando di viola­ceo solenne il selciato, e le acque lente dell’Arno, mentre il vaniloquio infan­tile si fondeva allo stridio degli uccelli: remoto e si­lente era il mondo. E Car­lo Lorenzini andava, ses­santenne dai piccoli oc­chi, ma spalancati dall’ir­radiare di quella serata, limpida così tanto da puli­re i ricordi, sospenderli in vita finalmente estranea. E così quieto quasi respi­rando dagli occhi, tutto ri­vide: i colombi cotti nel vi­no a casa del prete Zipoli; il palazzo di Davanzati dov’era la bisca dei nottam­buli; i visi degli amici scio­perati e cari; la ricerca af­fannata di cento lire per saldare i debiti di gioco; i capelli biondacei della fi­gliolina nata inattesa e già morta; se stesso trentatre­enne nel carnaio del 1859. S’avvide d’essere giunto in via Rondinelli dove abi­tava in signorile apparta­mento, presso il fratello di­rettore alla Ginori. Salutò il cielo, e salì in sala,  do­v’ erano mamma e cogna­ta. S’industriavano a estrarre da un cassettone la tovaglia bianca di cui sua madre reggeva un lem­bo, vagando svagata, infantile anziana. Lo guar­dò parendo dirgli: «An­che per questa volta ti per­dono. Ma guai se me ne fai un’altra delle tue».

Egli emanava ancora il tanfo dolciastro del sigaro appena fumato. Cenò con una zuppa e nel lindore di quel cielo serale, andò a dormire. Come ogni sera si prese un bacio dalla ma­dre Angiolina e la benedi­zione.

Faticò a dormire, com­preso in misticume di ricordi nitidi, senza rancori. E non vide d’iniziare un sogno. «Allora si affacciò alla finestra una bella bambina coi capelli turchi­ni e gli occhi chiusi e le ma­ni imbronciate sul petto, la quale disse con una vo­ce che pareva venire dall’altro mondo: « Sono morta anch’io». Morta? E allora che fai costì alla fi­nestra? «Aspetto la bara che venga a portarmi via». Nei sogni è come per le nu­vole in cielo, si confondo­no sempre in altro.

Forse perciò il viso del­la fatina divenne quello di sua madre e la scena si tra­sferì sul divano del salone di via Rondinelli. E se la vide lì: sdraiata sulla tova­glia bianca: morta. Incor­niciò disperato le  sue mani attorno al viso morbido di lei, è pianse e ur­lò, agitandosi al punto che si sve­gliò. Restò a dirsi che era un sogno; ma un nitido so­gnare non è meno reale del cielo se­rale. Si sedette sul letto, trovò le pantofole e col lu­me in mano vagò per il cor­ridoio fino alla stanza di sua madre. Entrato, scan­sandosi dall’occhio la pun­ta del berretto da notte, ne spiò per un po’ il respi­ro; e impaziente prese a scuoterla.

Destata a quel modo la poveretta lo guardava; e lui subito a scusarsi, dicen­do che l’aveva vista morta, confuso in pianto dispera­to, e però infine consola­to. «E fu tale e tanta la con­tentezza di Pinocchio, che prese le mani della fata co­minciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sé. Dimmi mam­mina: dunque non è vero che tu sia morta?». E la madre rispose lei pure, commossa e però ironica:«Par di no». E l’abbracciò a sua volta. Tornò a dormi­re infantile e trascorse al­tre e serene giornate, fin­ché un mattino di quel 1886 la cameriera trovò Angiolina Orzali in Loren­zini morta nel letto davve­ro. «Pianse tutta la notte e la mattina dopo, sul far del giorno piangeva sem­pre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi lamen­ti erano così strazianti e acuti che tutte le colline all’intorno ne ripetevano l’eco». E il privile­gio, d’essere stato consolato della morte di sua ma­dre Angiolina da lei stessa, ancor più lo commosse. Non vi sono gran libri su Carlo Lorenzini; ma tutti concordano: la fa­tina era la madre; i consi­gli a Pinocchio li dava quella sua madre sorelli­na.

Riprova d’un sincero amore, perché la fata è la cosa più alta ch’esista nel­la storia del burattino che il 17 luglio del 1881 nacque a puntate, sul giornale per i bambini. Nel periodare piccoso, sventato e birbo­ne c’era il ventiduenne nel 1848 milite volontario del­la Guardia Civica in giub­ba nera. Malgrado la nulli­tà degli ufficiali che si but­tarono per le fosse, non fuggì. Un decreto grandu­cale perdonò lui e gli altri; tornò l’anno dopo al po­sto di commesso del Mini­stero. Poi però non gli piacque l’indegno com­mercio con la Francia nel 1859, ma fu per Ricasoli. Ancor meno sopportò Fi­renze capitale invasa da piemontesi e scannocrati meridionali. Sparirono le mescite di minestre e vi­no, le mura del Trecento e ampli viali; restarono in­posta di famiglia, corso forzoso, tassa sul macina­to. Si sfogò come i senza mestiere: scrivendo per i giornali. Ma si depresse, stomacato dagli adulti spe­se le sue fatiche per i bam­bini. E rivide le porte di Fi­renze che si chiudevano al contado, per riaprire all’al­ba: i saltimbanchi di via Calzaioli e burattini accan­to alle scimmie e i cani addestrati, tra i venditori di orologi; s’intenerì dei ciu­chini cavalcati da lui, fi­glioletto d’un cuoco, e scrisse Pinocchio. Beveva nelle trattorie un decino e fumava sigarette antia­smatiche giocando a qua­drigliate. Vide l’Italia con­fusa ancor prima d’inizia­re.

Terragno fiorentino, sa­peva però i galleggiamen­ti incolunmi sulla spianata oceanica, le nuotate e l’ac­que molto furibonde, gli inghiottimenti dei mostri: quanto senza saperlo gli uomini chiamano vita, e i saggi Sofia. Finché «poco a poco il cielo si rassere­nò, e il sole apparve fuori in tutto il suo splendore, e il mare diventò tranquillis­simo e buono». Morì nel 1890 d’aneurisma pettora­le a sessantaquattro anni.

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