Valore e senso del nostro lavoro
Il concetto che Henry Ford aveva dell’operaio medio è oggi ormai quasi completamente abbandonato e il lavoro in serie della catena di montaggio è diventato il simbolo del lavoro alienante e frustrante che nessuno farebbe se avesse altre possibilità. Ma dall’affermazione che il lavoro monotono è un supplizio per qualsiasi essere umano non discende logicamente che il lavoro “variato” sia necessariamente una caratteristica sempre desiderabile. In effetti una variazione troppo accentuata nel proprio lavoro è fonte di stress, di costi energetici (fisici, mentali ed emozionali) altissimi. Il tempo per la famiglia, gli amici e lo svago si assottiglia notevolmente a causa del bisogno di aggiornamento costante. Con un lavoro soggetto a molteplici cambiamenti si aumentano le difficoltà a strutturare e organizzare il tempo, a stabilire dei contatti sociali gratificanti, a formarsi un’identità e un ruolo sociale. Per molti imprenditori dell’industria contemporanea la flessibilità favorirebbe l’aumento dell’occupazione. In realtà, analisi oggettive e rigorose del mondo del lavoro, mostrano eloquentemente che la flessibilità diventa spesso un semplice sinonimo di precarietà, un attacco generalizzato al diritto del lavoro. Il suo quadro etico e normativo, anziché considerarlo, come si dovrebbe, un’irrinunciabile acquisizione della modernità, viene oggi interpretato come un arcaismo, un retaggio del passato. La nuova società che si sta rapidamente costituendo è composta da un ristretto gruppo di privilegiati con un posto stabile, ben retribuito, con buone prospettive di carriera e di gratificazione personale e un altro composto da lavoratori temporanei, precari, senza una dimora lavorativa stabile, impiegati sulla base delle fluttuazioni del mercato. Le conseguenze di un lavoro intermittente, a chiamata non sono rilevabili solo nell’immediato ma anche sul lungo periodo. I progetti di vita rinviati potrebbero diventare irrealizzabili, le esperienza di vita frammentarie faranno emergere un curriculum eterogeneo, discontinuo e dunque poco apprezzato. In poche parole i costi personali e sociali della flessibilità minano la qualità di vita in modo incisivo. Ebbene il nostro Ordine, da sempre mosso da ideali di giustizia e fratellanza, ha secondo me il dovere di stigmatizzare questi cambiamenti e di arginarli, forse anche solo diffondendo quelle ricerche scientifiche che mostrano che la flessibilità non solo non contribuisce ad aumentare la libertà dell’individuo ma altresì non sembra neppure potersi vantare di una maggiore efficienza.
Daniele Bui
Tema
Il lavoro
Se il compito dell’Apprendista è quello di imparare, dal Compagno ci si attende che sappia mettere in pratica ciò che ha appreso. Il lavoro è quindi al centro dell’attività del Compagno ed è appunto su questo tema che vorrei attirare la vostra attenzione.
Daniele Bui, Loggia Il Dovere.
Il lavoro nell’antichità e nel Medio-Evo
Tradizionalmente il lavoro è stato percepito come un’attività forzata e penosa. Si pensi
– Alla sentenza divina nella Bibbia: “Tu guadagnerai il tuo pane con il sudore della tua fronte”
– O al mito dell’età d’oro, un’epoca felice nella quale l’uomo non aveva bisogno di lavorare. Parlando dei primi uomini, Platone dice che: “ Avevano frutti abbondanti dagli alberi e da molte altre piante, che nascevano non ad opera dell’agricoltura, bensì perché la terra li produceva spontaneamente … È facile, aggiunge Platone, giudicare che gli uomini di allora erano infinitamente più felici di quelli di oggi” (Il Politico, 272°)
– La lingua stessa traduce questo concetto: L’etimologia di lavoro, in francese, travail, viene dal latino popolare tripalium, che designa sia uno strumento al quale si sottomettevano i cavalli per ferrarli, sia uno strumento di tortura. Tripaliare (in latino volgare) significa torturare.
– Si parla anche di travaglio nel caso di donne che stanno partorendo per sottolinearne la sofferenza. Per i greci il lavoro ha sempre rappresentato la miseria e non certo la nobiltà dell’uomo.
Callicle, nel Gorgia di Platone, afferma che l’uomo che lavora con le mani, va disprezzato, va chiamato banausos per offenderlo e addirittura sembra che nessuno avrebbe voluto dare la propria figlia come sposa ad un costruttore di utensili. Per Aristotele gli “operai meccanici” non avevano neppure diritto di cittadinanza tant’è che li aveva relegati al rango di schiavi.
Marco Terenzio Varrone, parlando degli strumenti con cui si lavora la terra, li divide in tre categorie: strumenti parlanti (=schiavi), strumenti semiparlanti (=buoi), strumenti muti ( =gli utensili) L’opposizione tra schiavi e liberi si estendeva all’opposizione tra tecnica e scienza, tra forme di conoscenza legate alla manipolazione e una conoscenza pura espressa nella contemplazione della verità. Il disprezzo per gli schiavi, considerati inferiori per natura, si ampliava così alle attività che essi esercitavano.
Le sette arti liberali del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) si chiamavano liberali perché erano le arti proprie degli uomini liberi in quanto contrapposti ai non liberi o schiavi che esercitavano le arti meccaniche o manuali.
La rivalutazione del lavoro manuale
Per una rivalutazione della vita attiva bisognerà attendere fino al 1400. L’elogio delle mani, che è presente nei testi di Giordano Bruno, la difesa delle arti meccaniche, che compare in tanti testi di ingegneri e di costruttori di macchine del 1500 e che viene ripresa da Bacone e Galileo possono essere compresi e valorizzati pienamente solo tenendo conto del contesto storico nel quale emergono.
Per rendersi conto dell’importanza e del significato di queste prese di posizione in difesa del lavoro manuale nonché del suo valore culturale vale la pena di ricordare che alla voce “mécanique” il Dictionnaire français di Richelet (pubblicato nel 1680) riceveva ancora la seguente definizione : “il termine meccanico, in riferimento alle arti, significa ciò che è contrario a liberale e onorevole : ha senso di basso, villano, poco degno di una persona onesta.” Le tesi di Callicle quindi sono tutt’altro che tramontate ancora nel Seicento.
L’illuminismo, che assume la Rivoluzione scientifica come modello di razionalità, prosegue l’opera di rivalutazione del lavoro empirico soprattutto nell’Encyclopédie dove Denis Diderot colloca le arti ed i mestieri in una posizione centrale. Anche Jean-Jacques Rousseau, nei suoi scritti pedagogici, illustrando l’educazione che dovrebbe essere impartita ad Emilio, prende il lavoro manuale ad esempio di un apprendimento produttore di socievolezza e solidarietà.
Hegel contribuisce a sua volta a rivalutare il lavoro. Memorabile è l’episodio dialettico del padrone e dello schiavo. Due uomini lottano uno contro l’altro. Uno è coraggioso, accetta di rischiare la vita nel combattimento, mostrando così che è un uomo libero. L’altro, che non osa rischiare la sua vita, si sottomette. Il vincitore non uccide il suo prigioniero, al contrario lo conserva come testimone e specchio della sua vittoria. Tale è lo schiavo, il servus, colui che alla lettera è stato conservato. Il padrone obbliga lo schiavo al lavoro, mentre lui si gode la vita. Il padrone non coltiva il suo giardino, non fa cuocere i suoi alimenti, non costruisce la sua casa. Ha il suo schiavo per questo. Il padrone non conosce più i rigori del mondo materiale perché ha interposto uno schiavo tra il mondo e lui. Ma il padrone viziato dall’ozio, presto non sa più far niente. Per contro lo schiavo, costantemente occupato a lavorare, impara a vincere la natura utilizzando le leggi della materia e recupera una certa forma di libertà (il dominio della natura) con le sue scoperte tecniche. Attraverso una conversione dialettica esemplare, il lavoro servile gli rende la sua libertà. Fu un uomo pavido, rinunciò alla sua libertà per non morire, ridiventa ora un uomo libero ponendosi come libertà ingegnosa contro la natura che assoggetta al momento stesso in cui il padrone, che non sa più lavorare, ha sempre più bisogno del suo schiavo e diventa il qualche modo lo schiavo dello schiavo.
Quindi la dinamica servo padrone (che corrisponde al tipo di società del mondo antico) è destinata a mettere capo ad una paradossale inversione di ruoli, ossia ad una situazione per cui il padrone diventa servo del servo e il servo padrone del padrone. Infatti, il padrone, che inizialmente appariva indipendente, nella misura in cui si limita a godere passivamente del lavoro altrui, finisce per rendersi dipendente dal servo. Invece quest’ultimo, che inizialmente appariva dipendente, nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, finisce per rendersi indipendente. Il lavoro appare allora, come per noi Massoni, l’espressione della libertà riconquistata.
Il lavoro quindi non contribuisce solo a rendere più abitabile, più umano il nostro ambiente naturale ma il lavoro umanizza anche il lavoratore. Ogni lavoro, diceva Emmanuel Mounier, travaille à faire un homme en même temps qu’une chose (contribuisce alla costruzione di un uomo contemporaneamente alla costruzione di una cosa). Si tratta di un principio fondamentale in Massoneria. Sia prima che dopo il Fr. Anderson il nostro Ordine si è costantemente definito un’istituzione che vede nel lavoro un mezzo di perfezionamento, uno strumento indispensabile nella ricerca della verità. Nella Massoneria operativa il lavoro era sostanzialmente quello relativo alle edificazioni di cattedrali. Con l’avvento della Massoneria speculativa esso è diventato un’attività costante volta al miglioramento spirituale dell’iniziato. Lavorare è forse il miglior esorcismo contro l’egoismo naturale. Lavorare significa uscire da sé stessi. Gli psichiatri applicano questo principio quando prescrivono un lavoro ai loro pazienti. Il malato mentale a cui si consegna un piccolo lavoro ritrova un qualche equilibrio e si rende utile, si occupa, si dimentica un po’ di sé stesso. Il lavoro dà all’esistenza un ordine, una regolarità salutari. Il tempo nel quale vive l’ozioso è discontinuo ed eterogeneo; scorre al ritmo capriccioso delle passioni. Il tempo del lavoratore, regolato dagli orari, impone alla vita un equilibrio salubre.
Inoltre il lavoro contribuisce ad inserire le persone nel tessuto sociale. Lavorare significa trovare un suo posto nella società di cui tutti gli elementi sono solidali. L’uomo non può compiere i gesti più ordinari, bere un bicchier d’acqua, accendere una lampadina … senza usufruire del lavoro degli altri. Si pensi solamente a quante persone sono coinvolte affinché noi possiamo vestirci alla mattina. C’è il lavoro dei contadini e degli allevatori per il reperimento della materia prima, il lavoro dei conducenti che trasportano i prodotti, dei commercianti, il lavoro dei tecnici che hanno costruito i telai che servono a fabbricare gli indumenti … Il nostro lavoro rappresenta così un debito che noi abbiamo contratto usufruendo del lavoro altrui. Esiste una sorta di solidarietà sincronica dei lavoratori che si scambiano vicendevolmente i loro servizi e una solidarietà diacronica che ci permette di trarre profitto dai lavori di chi ci ha preceduto e che dovrebbe obbligarci moralmente a lavorare per chi verrà dopo di noi.