CONCORSO LETTERARIO R. LOGGIA “N. GUERRAZZI” SCHIAVITU’ E’ …

Titolo  “SCHIAVITU’  E’…”

1°  Premio

Marco  Poli

Liceo Scientifico   “C. Cattaneo”

FOLLONICA

Motivazione

Una sintetica e lucida ricostruzione del fenomeno della schiavitù nella storia dell’umanità, resa più armoniosa con sapienti pennellate di poesia,  coniugando in modo razionale il passato con il presente.

La schiavitù non è , purtroppo, un doloroso capitolo superato e chiuso per sempre, come troppo spesso viene proclamato per tacitare le nostre coscienze, ma esiste ancora, se pure in forme subdole e nascoste, in molte parti del nostro pianeta.

La speranza è che l’umanità, forte dei suoi valori, sappia vincere in modo definitivo la battaglia contro la schiavitù, in ogni sua forma.

Occorre risolvere «quelle contraddizioni che la recente evoluzione, in senso “globale”, della nostra storia rende più stridenti e insostenibili».

Restano le mura delle fortezze calcinate dal sole tropicale, insieme al profilo delle palme mosse dalle brezze oceaniche, a segnare il panorama di quel tratto della costa africana che un tempo veniva chiamata inequivocabilmente “Costa degli schiavi”.

SVOLGIMENTO

Gli antichi, pittoreschi cannoni in disarmo che punteggiano le fortezze sono puntati non solo all’esterno, a protezione della merce da nemici e predoni che potevano sopravvenire dall’immenso mare, ma anche verso l’interno dell’emporio, per difendere mercanti e guardiani dalla loro stessa merce, per quella sua caratteristica unica e irripetibile che la rendeva insieme pregiata e minacciosa.

Uomini, donne, persone o bestiame, razziati nel cuore e nell’interno del continente degli ultimi della terra. Raccolti per essere avviati oltreoceano e stivati, con un elaborato algoritmo di ottimizzazione dello spazio, nel buio del ventre profondo delle navi; neri nel buio e nel nero della loro assenza di anima, ma anche della paura degli stessi negrieri.

Sono le immagini di film già visti che addensano o rimpiazzano la nostra immaginazione: l’inevitabile perdita di una parte del carico, un “calo” percentuale più o meno commercialmente accettabile, un po’ come le perdite tra i pesci tropicali e i pappagallini selvatici che oggi si commerciano di frodo. Forse il sacrificio supremo del carico, quando la nave negriera rischia di essere catturata, e i corpi vengono strappati dalle stive e affondati in mare rapidamente da un ingegnoso e inarrestabile precipitare di catene, perché senza il “corpus delicti” manca l’unica prova del reato e il mare copre ogni colpa.

          Questa è la nostra memoria perduta della schiavitù più recente, perché quella degli antichi è ormai cosa altra e remota, ma anche questa memoria si allontana sempre più: si replica nella liturgia dei giorni dedicati al “Ricordo” o alla “Memoria”, durante i quali compunte Autorità spremono le loro lacrimucce di coccodrillo ed esorcizzano quella loro vocazione autentica di Kapò o Gauleiter, che nondimeno esercitano assiduamente altrove.

Neppure sopravvivono le chiose indelebili tatuate sugli avambracci dei superstiti. L’ultimo schiavo autentico è morto da tempo, in qualche casa di riposo, ultracentenario, ed ha finito di scocciare gli altri ospiti con le sue favole..; forse, volendo, è più facile trovare l’ultimo cannibale.

Sopravvive, imperitura, la gloria solenne del liberatore, la cui grande effige marmorea campeggia all’interno del Campidoglio, nella capitale amministrativa dell’universo, per la suggestione notturna di tanti film d’avventura.

Perché la schiavitù è finita da tempo, è un doloroso capitolo chiuso per sempre, superato.

Eppure…..

Tutti i giorni attraversa a piedi la città del Golfo quasi per l’intera lunghezza, dalla piazzola sulla statale dove aspetta i suoi clienti fino all’appartamento rigorosamente affittato per il tempo entro il quale non scatta l’obbligo della segnalazione antiterrorismo. Ha lunghi capelli biondi ed è sicuramente molto bella. Si chiama Sonia, Tatiana, o qualcosa di simile e viene da uno dei tanti stati e staterelli dell’Europa orientale con nomi assurdi da operetta. Quella sua passeggiata vespertina è una pubblicità molto più efficace di un passaggio sui media o di uno degli innumerevoli A.A.A. Affettuosa…

Non si direbbe una schiava, non lo sembra, non lo è… forse.

Basta allora spostarsi alla stazione, magari un po’ più tardi, quando tutti i pendolari si imbrancano sulle tradotte locali. Non ci si può sbagliare, forse ha ragione De Gregori: “A giocare col nero, perdi sempre”. Sono ancora loro, i “negher” (sostantivo indeclinabile). Le negrette, al ritorno dalle loro piazzole, loro forse non sono così belle come Sonia (questione di gusto), sono più pittoresche, volgari, “negher”. Quello che colpisce sono gli occhi, gli sguardi degli altri, degli uomini di colore. Sarà ipocrisia, sarà quello che si vuole, sarà che sono “negher”, ma quelle donne riescono a passare inosservate, diventano trasparenti, inguardabili in pubblico agli occhi degli uomini del loro continente, del loro paese. 

Basta leggere la cronaca nera dei trafiletti sugli sconosciuti caduti dalle   impalcature di edifici dove si trovavano a passare per caso e del tutto abusivamente, perché nessuno li aveva chiamati, assunti o, solamente, mai visti.

Basta guardarsi intorno, rendersi un pochino conto, evitare di scansarsi sempre, riflettere anche solo un istante sul probabile piccolo cucitore del pallone di cuoio che esalta i nostri gesti atletici.

Non è, per caso, che qualche schiavo, anzi, più di uno sono proprio fra noi, come un’ armata aliena, malamente mimetizzata, più che altro per mancanza di confini, di linee certe che separano chi può dirsi praticamente schiavo dall’uomo libero? Di sicuro sono troppi coloro che vivono qui vicino, per non andare a cercare più lontano situazioni ancor più scandalose, nella cui esistenza si configura una relazione di dipendenza da altri che ha tutti i connotati della schiavitù. Magari sarà una forma atipica, qualcosa di molto moderno, flessibile.

In fondo esiste tuttora un reato che si chiama di “riduzione in schiavitù”.

Ci possiamo chiedere se la stessa fine della schiavitù del mondo antico sia dovuta ad un’ autentica evoluzione del pensiero e dei costumi, qualcosa che va da Seneca al cristianesimo, non per nulla definito da Nietsche una “religione da schiavi”, oppure se si sia trattato anche di una trasformazione determinata dalla inattualità di quel tipo di rapporto servile che era stato per molto tempo alimentato dalla espansione dell’impero romano ed era una delle architravi portanti del suo edificio.

Da un certo punto di vista uno schiavo rappresentava non solo una risorsa per il suo proprietario, ma anche un onere, un peso, un investimento soggetto a deperimento, invecchiamento, malattia, in altre parole un rischio ed una fonte di spese. Da questo stesso punto di vista il servo della gleba connotava una società, che definiamo medievale, nella quale la scarsità dei mezzi era tale da rendere la schiavitù un lusso insostenibile, perché risultava in fin dei conti più vantaggioso scaricare proprio sul servo della gleba quei costi che il proprietario si accollava per lo schiavo.

La formazione di istituzioni benefiche chiudeva il cerchio del trasferimento dei costi sociali altrove, unito alla presenza di masse di miseri “vagantes”, che potevano essere utilizzati e scacciati all’occorrenza: come dire “niente di nuovo sotto il sole”

Ovviamente questa è un argomentazione sommaria, che utilizza il limite del paradosso come fosse un evidenziatore. Sarebbe assurdo negare lo sviluppo dei costumi, della coscienza, la storia stessa. Ugualmente è impossibile liquidare semplicisticamente l’esercizio della virtù teologale della carità.

E’, al contrario, proprio in nome dei migliori valori della nostra umanità che occorre delineare quelle contraddizioni che la recente evoluzione in senso “globale” della nostra storia rende più stridenti ed insostenibili.

Per tornare all’episodio che segna, nel nostro immaginario, la liquidazione della schiavitù, quella Guerra Civile americana che ha prodotto più morti di ogni altro conflitto che gli Stati Uniti abbiano mai affrontato, osserviamo una replica, mutatis mutandis, di quanto osservato al tramonto dell’Impero romano. L’inarrestabile sviluppo dell’industria manifatturiera del nord trovava nell’operaio uno strumento indispensabile, sia come forza-lavoro elasticamente manovrabile, ma anche come risorsa ulteriore, in grado di innescare e sostenere, col consumo dei beni prodotti, altro sviluppo.

Il mondo del sud, cristallizzato nel latifondismo delle piantagioni, incardinato nello strumento dello schiavo, venne spazzato via nello scontro, determinando anche l’inizio di un faticoso processo di democratizzazione e di allargamento dei diritti agli ex schiavi.

In questo senso potremmo davvero parlare di “mano invisibile” della storia, di “parto” doloroso, senza dimenticare le provvide levatrici che combattevano da tempo, in tutti gli Stati Uniti, contro la schiavitù, favorendo le fughe, accogliendo i fuggiaschi, riscattando gli schiavi stessi, sotto la spinta di convinzioni morali, religiose.

E la statua di quell’Abe Lincoln, nume tutelare della libertà, santo laico e padre della patria, rimane, con la sua candida ambiguità, pietrificata nel sancta sanctorum del mausoleo, al centro del mondo.

                                 Marco  Poli

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