LE AVVENTURE DI PIONOCCHIO

LE AVVENTURE DI PIONOCCHIO

Ermando Danese

 

Studiando questa scienza incognita, l’artista può penetrare in un ambito inesplorato, ricco di cose da scoprire, abbondante di rivelazioni, prodigo di meraviglie, e ricevere, infine, l’inestimabile Dono che Dio riserva alle anime elette: la Luce della Saggezza.

Con queste testuali parole del Maestro Fulcanelli iniziamo lo studio esoterico della bella favola di Pinocchio.

«Nelle Avventure di Pinocchio» scrive Giorgio De Rienzo «bisogna entrare discreti: leggendo con grande attenzione. Nel leggere è bene abbandonarsi con naturalezza al racconto, è bene starsene come in disparte, attenti e curiosi, certamente, riflessivi, ma non invadenti, tanto meno impertinenti».

«C’era una volta…

Un re — diranno subito i miei piccoli lettori.

— No ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo di catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze».

All’inizio della fiaba si mette in evidenza l’universalità del soggetto dei saggi, così comune che si trova presso qualsiasi persona.

Fulcanelli scrive che «al primo piano del maniero di Lisieux c’è, scolpito sul pilastro sinistro della facciata, un uomo primitivo che solleva e sembra si voglia portar via un albero mal tagliato.

Questo simbolo, che pare assai oscuro, nasconde tuttavia il più importante degli arcani secondari. Si tratta proprio del nostro albero secco».

Questo tronco può e dev’essere rivitalizzato. Il compito è affidato all’uomo d’aspetto primitivo e selvaggio. Nella scienza ermetica esiste la famosa leggenda allegorica dell’Uomo dei Boschi, un essere che vive in una sorta di selvatichezza e ricorre in molte leggende popolari. In questo modo i Saggi hanno raffigurato l’individuo che vive fuori del condizionamento di qualsiasi tempo e civiltà.

Da questo tronco dovrà venir fuori il bambino ermetico e variante mistica del Bambinello di Natale.

«Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura».

Il naso che si eleva dal volto (terra filosofale o mercurio filosofico) è una variante del menhir, e la sua punta rossa — che ricorda il cappuccetto rosso indossato da una graziosa bambina di un’altra meravigliosa favola — indica l’esaltazione e il predominio dello spirito sulla materia.

«Appena maestro ciliegia ebbe visto quel pezzo di legna, si rallegrò tutto, e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:

— Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino.

Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:

— Non mi picchiar tanto forte!

Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia».

Appena visto il pezzo di legno a tempo opportuno, cioè appena scoperto la natura del soggetto dei saggi — lo spirito o psiche comune a tutti gli uomini — se ne rallegrò e iniziò a digrossarlo.

Ma oltre all’artista egli interpreta il vegliardo ermetico, simbolo d’illuminazione e, per estensione, di tutta la scienza nascosta.

Punto fondamentale della favola, vi si rispecchia la filosofia naturale che non chiede nulla di più dalle forze di un individuo, infatti il “neofita” stesso assicura che non sarà picchiato tanto forte. Tuttavia, si evidenzia la necessità della rivelazione e l’inevitabile impatto sulla psiche.

«E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno».

L’ascia mistica è un simbolo molto antico. Si ritrovano asce di pietre nelle antiche sepolture. Françoise D’Eaubonne spiega che «queste asce sono chiamate pietre da fulmini».

Fulcanelli rivela che «Basilio Valentino ha chiamato la prima sostanza dell’Opera, pietra di fuoco. È il segno dello Spirito Divino immortale e puro, simbolo della vita e del fuoco».

Ricordiamo che Ulisse si servì di dodici scure per la prova con l’arco. Questo particolare insegna al ricercatore di centrare tutti i simbolismi. Infatti, Ulisse, tendendo magistralmente il proprio arco, scocca la freccia centrando il primo foro (lo spirito) e, di conseguenza, centra tutti gli altri fori delle restanti scuri, cioè gli altri arcani della filosofia segreta che sono, per analogismo, collegati fra loro.

Fulcanelli rivela che «lo spirito è il punto oscuro, vero e proprio asse intorno al quale ruotano tutte le combinazioni simboliche».

Arriviamo, così, all’incontro tra i due vegliardi, i due vecchi falegnami, compar Geppetto e mastr’Antonio.

«— Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?

— Le gambe — ».

È il pellegrino ermetico che ha camminato da solo, con le proprie gambe, nell’autoconoscenza.

L’anonimo Adepto di Dampierre ha riproposto la stessa scena — decorando il cassettone numero cinque della terza serie della galleria alta del suo castello — indirizzandolo, però, a un vecchio religioso che ha dedicato inutilmente l’esistenza all’Illuminazione spirituale e che scopre la verità soltanto al tramonto della sua vita. Fulcanelli così riporta:

«Due pellegrini, provvisti ciascuno del proprio rosario, s’incontrano in prossimità d’un edificio. — chiesa o cappella che distinguiamo sullo sfondo — Uno di questi due uomini, assai vecchi, calvi, con la barba lunga, vestiti allo stesso modo, sostiene il suo passo con l’aiuto di un bastone, l’altro che ha la testa protetta da uno spesso cappuccio, sembra provare una viva sorpresa dell’avventura, ed esclama:

.TROPT. TART. COGNEV. TROPT. TOST. LAISSÉ.

Troppo tardi conosciuto, troppo presto lasciato.

Si comprende perché lo sfortunato artista è dispiaciuto per la sua ignoranza di una sostanza comune, che aveva a portata di mano, senza aver mai pensato che essa potesse procurargli l’acqua misteriosa, invano cercata altrove e tanto ardentemente desiderata, ma desolato d’aver perso, in lavori inutili, il vigore fisico, indispensabile alla realizzazione dell’Opera con questo compagno migliore».

Tuttavia, l’Iniziato Collodi, nel vecchio Geppetto, non ha voluto simboleggiarvi l’uomo arrivato inutilmente al tramonto della vita, ma l’antichità del soggetto dei saggi.

Infatti, ben presto i due vegliardi vennero alle mani. È l’immagine del combattimento primitivo delle due nature contrarie (psiche illuminazione).

«E riscaldandosi sempre di più, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono.

Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si accorse di avere in bocca la parrucca brizzolata del falegname.

— Rendimi la mia parrucca! — gridò mastr’Antonio.

— E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace. —

I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita».

Le parrucche simboleggiano le proprietà delle due nature. Nella psiche la superficiale grossolanità che sarà “catturata” e distrutta dal solvente universale, e nell’illuminazione la parte che sarà assimilata dallo spirito, secondo il loro scambio.

Cioè, secondo il principio ermetico, il volatile diventa fisso e il fisso diventa volatile. Il materiale diventa spirituale (spiritualizzato) e lo spirituale diventa materiale (assimilato).

Fulcanelli spiega che le due nature primitive (acqua viva e mercurio) dopo il combattimento, «l’acqua diventata terra e il mercurio zolfo. Il mercurio comune cambia di nome, col cambiare di qualità, e diventa il mercurio dei saggi, l’umido radicale metallico, il sale celeste o sale fiorito».

A questo punto avviene il secondo combattimento, variante della seconda opera filosofale.

«Geppetto perse il lume degli occhi, si avventò sul falegname; e lì se ne dettero un sacco e una sporta».

Perdere la luce degli occhi significa che l’illuminazione è stata assimilata. L’accecamento di certi personaggi mitici non possiede altro significato.

È l’occhio del ciclope Polifemo accecato da Ulisse.

Nella mitologia celtica, John Sharkey segnala che «in una battaglia, Lugh sfracella l’unico occhio del re dei Fomori con una pietra lanciata dalla fionda».

Si tratta di una variante allegorica del gesto compiuto da Davide colpendo con una fiondata il gigante dei filistei Golia (primo Libro di Samuele, XVII, 49), e la «pietra si fissò nella fronte di lui».

Nella mitologia greca si dice che l’indovino Tiresia avesse perso la vista per aver svelato ai mortali i segreti dell’Olimpo.

Anche Omero, l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, si dice fosse cieco, ossia, tradizionalmente, per aver composto gli antichi poemi esoterici.

«A battaglia finita, mastr’Antonio si trovò due graffi di più sul naso, e quell’altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita».

In questo secondo combattimento si evidenziano i due segni (le due operazioni) che il naso ha acquisito grazie all’illuminazione che ha perduto mortificandosi (conti pari). La pace dei due elementi consacra la realizzazione del mercurio filosofico.

«Intanto Geppetto prese con sé il suo bravo pezzo di legno, e ringraziato mastr’Antonio, se ne tornò zoppicando a casa».

Il pellegrino ermetico, ricevuta l’illuminazione, riparte zoppicando verso casa.

La ferita nella parte bassa del corpo ricorre in diverse allegorie sacre e leggende profane.

Nella Bibbia (Genesi, XXXII), Giacobbe fu ferito alla coscia da un angelo e vi lottò per tutta la notte (ermetica). Venne in seguito chiamato Israele, che significa «lottare con Dio».

Evola scrive che «lo stesso re del Graal, che attende la guarigione, zoppica o è ferito alla coscia. Egli, dopo essere stato ferito, non ha altra occupazione possibile oltre il pescare, poiché ha costatato la propria impotenza per altre attività. Nel Percival li Gallois, l’amo con cui egli pesca è d’oro. Ma è anche detto che ciò che egli pesca, quando i dolori lo tormentano non basta al suo bisogno».

L’allegoria insegna che le illuminazioni catturate dall’oro filosofico, non sono sufficienti per lo scotto che bisogna pagare per la nostra purificazione ed elevazione spirituale.

Il re, ormai ferito dall’illuminazione, è impossibilitato nelle altre occupazioni mondane, e si dedica soltanto al compimento della Grande Opera.

Fulcanelli scrive che «ora, la gioia dell’artista risiede nella sua occupazione. In greco la parola khará, gioia, deriva da khairo, rallegrarsi, godere di, compiacersi con, e significa anche amare. E il lavoro dell’Opera rappresenta la sua più cara occupazione».

Sempre nei cicli del Graal, scrive Evola, l’artista che si trova in questo stato è definito «“vivo e non vivo”; “vive e non vive”: il re che è morto benché appaia vivo, ed è vivo benché appaia morto».

«La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice; una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si poteva vedere un caminetto di fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto e accanto al fuoco c’era dipinto una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero».

La luce che solitamente prende la psiche grezza è quella che passa sotto la scala filosofica. Essa è sempre seduta su una cattiva abitudine e riposa ugualmente su una poca buona educazione, e si appaga d’insignificanti attrazioni mondane. Per questo, sebbene tutti tentano di apparire una persona civile, cioè avere un comportamento (fumo) corretto e virtuoso, in realtà la pentola filosofica è falsa come lo stesso fuoco.

«Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino.

— Che nome gli metterò? — disse fra sé e sé. — Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina».

Fulcanelli ci spiega che si tratta della «sostanza miserabile appena materializzata, ma che lo contiene in abbondanza».

È la primitiva illuminazione appena materializzata.

Ricordiamo che anche il “vecchio” San Giuseppe, tradizionalmente, si dice che facesse il falegname. È l’immagine del mercurio comune che realizza il bambino Divino dal legno mistico.

La parola Pinocchio è sinonimo di pinolo, il seme proprio del pino. La scelta di questo nome dipende dal fatto che questa pianta è sempre verde.

Fulcanelli scrive che «la nostra acqua, dice Mastro Arnauld de Villeneuve, prende il nome dalle foglie di tutti gli alberi, degli alberi stessi e di tutto ciò che ha un colore verde, per ingannare gli insensati».

Nella Genesi (I, 30) leggiamo: «A tutti gli esseri, nei quali vi è l’alito di vita, Io do come nutrimento l’erba verde».

Appena terminato il burattino «Geppetto sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso.

— Me lo merito! Dovevo pensarci prima! Ormai è tardi! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!…».

Quando l’illuminazione colpisce la materia filosofale (naso), il neofita si avvede degli errori commessi.

Krishnamurti ricorda che «negare ogni morale è essere morali, perché la morale accettata è la morale della rispettabilità, e ho paura che tutti noi desideriamo essere rispettati, che poi è essere riconosciuti come bravi cittadini in una società marcia».

Si evidenzia la preoccupazione (charis) di ogni Iniziatore, nel guidare i neofiti a superare il brutto periodo della seconda operazione:

«Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro».

Come tutti sanno, Geppetto dopo finisce in galera, cioè scompare dalla scena, e Pinocchio resta da solo in casa.

La prigione dell’Opera è una variante del vaso filosofico o vergine madre.

Questa importante allegoria è spiegata assai chiaramente da Fulcanelli:

«Generalmente si raccomanda d’unire “un vegliardo sano e vigoroso con una vergine giovane e bella”. Da queste nozze deve nascere un bambino. Uno di questi genitori, poi, resta sempre lo stesso, ed è la vergine madre; il vegliardo, invece, deve, compiuto il suo ruolo, cedere il posto a un altro più giovane di lui».

Ricordiamo che la materia vergine simboleggia la psiche non ancora illuminata. Dopo aver ricevuto i «raggi del sole», diventa la vergine madre o incinta.

A questo punto Collodi fa interpretare assai bene a Pinocchio il neofita che al principio, ricevuta l’iniziazione, o la rivelazione, stende ad accettarla “provando” a sfuggirla chiudendosi in se stesso.

«Giunto dinanzi casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.

Ma quella contentezza durò poco, perché sentì nella stanza qualcuno che fece:

— Cri-cri-cri!».

Giorgio De Rienzo coglie assai bene il senso nascosto in questa allegoria tradizionale. Infatti, scrive che «Pinocchio all’inizio è tutta una voglia di sgarbi. I suoi primi atti di vita sono anarchici, ribelli. Come se il burattino ci tenesse a mettere in chiaro le cose: i suoi gesti di sfida, che prevengono a priori qualsiasi ipotesi o progetto d’educazione, sono gesti che affermano soltanto un disegno insolente e caparbio di totale libertà».

Sono i vari tentativi svolti da qualsiasi iniziato per sottrarsi alla visione della verità, perciò si cerca di sbrancare l’uscio durante la prima e delicatissima fase della seconda operazione filosofale.

«Noi siamo spaventati» diceva Krishnamurti «noi resistiamo, noi siamo isolati dentro le nostre ideuzze, i nostri bisogni e i nostri desideri, ovviamente.

Libertà significa libertà dalla paura. Significa libertà da ogni forma di resistenza. Libertà significa un movimento non isolato. Allora si può essere liberi, allora si è naturali».

Però, ormai, il seme di verità è stato seminato sulla terra filosofale e, così, s’incomincia a fare i conti con la “voce” della coscienza e «vide un grosso grillo che saliva lentamente su per il muro.

— Io sono il grillo parlante, e abito in questa stanza da più di cent’anni. Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…

— Perché ti faccio compassione?

— Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno —

A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno lo scagliò contro il grillo parlante. Il povero grillo ebbe appena il fiato di fare cri-cri-cri, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete».

«Pinocchio è un mutamento continuo di umori» aggiunge De Rienzo «che è tutto nel suo proprio parlare sempre variato di toni: un dire “impaurito” prima, un gridare bizzoso poi, e ancora un replicare spazientito e, alla fine, uno sbottare saltando “tutt’infuriato”».

Non si poteva meglio esprimere lo stato psichico dell’individuo nelle sue caratteristiche reazioni durante il caos bianco, mentre continua ancora la tempesta ermetica prodotta dallo scontro delle due nature nella congiunzione primaria, fino alla pace del mercurio filosofico — che si realizza lentamente — e che Pinocchio compie uccidendo il grillo con una martellata o mazzuola degli antichi massoni.

«Intanto incominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.

Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e di fatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello».

Le luci della mondanità cominciano a declinare e incomincia la lunga notte ermetica. Il neofita non riesce ancora a distinguere bene, sta ancora tra il vedere e il non vedere, tuttavia inizia ad avere maggiore fame di conoscenza, di sapere.

La favola continua che Pinocchio si dette da fare per trovare «qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla».

Questo nulla è di un’importanza estrema per la pratica dell’Opera.

«Il mercurio filosofico» spiega Fulcanelli «unica sostanza del Magistero, non può mai produrre il nulla se non muore, se non fermenta e non va in putrefazione alla fine del primo stadio dell’Opera.

Estratto dal nulla, ne porta l’impronta e ne subisce il nome: niente. Ma i Filosofi hanno scoperto che nella sua natura elementare e disordinata, fatta di tenebre e di luce, di cattivo e di buono riuniti nella peggior confusione, questo niente conteneva Tutto ciò ch’essi potevano desiderare».

Lo stesso Polifemo, nell’Odissea (IX, 460), dice che un “niente” lo ha accecato, uno con il nome di “Nessuno”.

Questo nulla è quello che Krishnamurti definisce «il vuoto entro cui si attua il vedere. Bisogna avere questa qualità meditativa della mente non solo occasionalmente, ma per tutto il giorno. E il Sacro influirà sulle nostre vite non solo durante le ore di veglia ma anche durante il sonno».

«Per l’appunto era una nottataccia d’inverno.

Tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna».

Nonostante questo tempo, Pinocchio si recò in paese, «ma trovò tutto buio e deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa chiuse; le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti».

Pinocchio bussò ad una porta per un po’ di pane e un vecchio, affacciatosi da una finestra, gli disse:

«— Fatti sotto e para il cappello. —

Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l’atto di pararlo, sentì pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio appassito».

A parte i fulmini, simboli d’illuminazione durante la notte ermetica. La soluzione di questa parabola appare luminosa nelle parole di Fulcanelli:

«È l’inizio attivo e dolce del fuoco di ruota, simbolizzato dal freddo e dall’inverno, periodo embrionale, nel quale i semi, chiusi nel seno della terra filosofale, subiscono l’influenza fermentatrice dell’umidità. Sta per cominciare il regno di Saturno, emblema della radicale dissoluzione, della decomposizione e del color nero».

«Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame: e perché non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa.

E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere.

E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli di un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta.

— Chi è — domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.

— Sono io — rispose una voce.

Quella voce era la voce di Geppetto».

In questa favola, in cui l’Autore pare non voglia tralasciar nulla, troviamo pure l’inspiegabile paura di camminare con le proprie gambe, bruciandocele nel crogiolo dell’indolenza, accordando agli altri il compito di guidarci.

Krishnamurti consiglia:

«Voi dovete camminare con le vostre gambe, dovete fare il viaggio da solo, e in quel viaggio dovete essere il vostro maestro, non c’è nessuno che vi dica cosa fare.

Abbiamo bisogno dell’aiuto di qualcuno per essere liberi dalla paura? Degli psicologi, degli psicoterapeuti, degli psichiatri, o del prete, o del guru che dice: “Abbandonate tutto a me, compreso il vostro denaro e starete perfettamente bene”. Voi avete decine di aiutanti, dai grandi capi religiosi — Dio ce ne guardi! — giù fino al povero psicologo dietro l’angolo».

Ma sul far del giorno — all’alba ermetica — Pinocchio fu svegliato dalla voce del vegliardo Geppetto.

Il vecchio falegname gli dette da mangiare tre frutti mistici — tre pere — immagini dell’intera Opera o della rivelazione totale, e Pinocchio, «quand’ebbe finito di mangiare, si batté tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:
— Ora sì che sto bene!».

Geppetto fu costretto a rifargli i piedi, e Pinocchio gli promise che sarebbe andato a scuola.

«— Per andare a scuola mi manca sempre qualcosa: anzi mi manca il più e il meglio.

— Cioè?

— Mi manca l’Abbecedario».

Lo studio della scienza sublime — il più e il meglio — è presentato sotto l’aspetto di un abbecedario, e certo non poteva essere più espressivo di un libro preparatorio allo studio quello di un libro iniziatico.

Per acquistare quest’abbecedario, Geppetto «dové vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga».

Ancora una volta si evidenzia la vecchia personalità, misera e contraddittoria, che bisogna barattare per avere tra le mani la scienza semplice e naturale.

Però, come scrive Fulcanelli, questa scienza «all’inizio si cerca soltanto di evitarla e la si disprezza senza ragione». E, infatti, Pinocchio cedette l’abbecedario per soli quattro soldi.

Un’altra bella immagine, che contempla pure questa fiaba, è quella dell’uomo che ama soprattutto le scappatoie della vita, come le definiva Krishnamurti: giochi, intrattenimenti, ecc.

Infatti, Pinocchio, mentre si recava a scuola, «gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di gran cassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum, zum, zum, zum.

Si fermò e stette in ascolto.

— Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no…

E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione; o a scuola, o a sentire i pifferi.

— Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo, — disse finalmente quel monello facendo una spallucciata».

Il fatto è, costatava Krishnamurti, «che la gente non è seria. Giocano con le cose nuove, si divertono a passare da una cosa all’altra. Credono che questo sia cercare, indagare, ma restano intrappolati nelle cose e alla fine non ottengono che ceneri. Diventa sempre più difficile per gli uomini essere seri, ascoltare, vedere ciò che sono, e non ciò che dovrebbero essere. La maggior parte della gente dice: “Per l’amor di Dio, lasciatemi in pace! Ho la mia casa, mia moglie, la mia macchina, la mia barca, e tutto il resto. Per l’amor di Dio, non cambiate niente finché sarò vivo”.

Personalmente avverto un senso d’urgenza, perché ovunque, in India, in Europa e in America, vedo inerzia, disperazione, il senso che non vi sia speranza.

Il rapporto è di estrema importanza. Se nel rapporto c’è conflitto, creiamo una società che ampli quel conflitto attraverso l’educazione, attraverso i nazionalismi e tutto il resto. Una persona seria, seria nel senso che si preoccupa e si impegna realmente, deve dare tutta la sua attenzione al problema del rapporto, della libertà e della conoscenza».

Come arrivare a questa serietà collettiva? A questo compito fondamentale? La soluzione lo indica l’Adepto Collodi che, in questo punto della favola, passa alla tradizione millenaristica, la cui chiave fondamentale sta nell’arrivo di Pinocchio nel gran teatro dei burattini..

«Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò una mezza rivoluzione.

Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.

Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.

La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano di ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo.

Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in modo drammatico:

— Numi del firmamento! Sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!…

— È Pinocchio davvero — grida Pulcinella.

— È proprio lui — strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.

— È Pinocchio! È Pinocchio! — urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. — È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!…

— Pinocchio, vieni quassù da me, — grida Arlecchino, — vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! —.

A quest’affettuoso invito Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico.

È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffio dagli attori e dalle attrici. I burattini, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta e, accesi i lumi e i lampadari, come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba, e ballavano sempre».

Bellissima immagine del teatro mondiale dove gli uomini-burattini si trovano, da un momento all’altro, pronti a scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate. Ma all’alba della Nuova Era, o Età dell’Oro, riconosciuto Pinocchio portatore della Verità, smettono di recitare il solito dramma della vita e ballano ormai nella danza mistica della Grande Opera.

Questa umanità, l’Iniziato Charles Perrault, la fa interpretare dalla Bella Addormentata:

«Poiché la fine dell’incantesimo era arrivata, la principessa si svegliò e guardandolo con occhi teneri:

“Siete voi mio principe?” Gli chiese. “Vi siete fatto molto aspettare!”».

«Chi starà attento al minimo di queste cose» scrive Jean Cocteau «allora questi si sentirà dire:

“Ben arrivato! Da quanto tempo ti aspettammo!”».

Anche Canseliet attendeva impaziente:

«Da dove verrà, sul suo grande cavallo bianco, l’inflessibile cavaliere della giustizia?

È davvero un danno enorme, per l’insieme degli uomini, che non sia stato pubblicato il terzo libro di Fulcanelli, che dipingeva la fine della gloria del mondo conformemente al suo titolo latino:

FINIS GLORIAE MUNDI»

Nel Libro dei Morti (LXIV), il cavaliere atteso precisa la sua venuta:

«Calcolando e tenendo in debito conto i giorni e le ore propizie delle stelle di Orione e delle dodici divinità che le reggono, ecco che esse congiungono le mani palmo a palmo, ma la sesta fra esse pende sull’orlo dell’Abisso. Nell’ora della disfatta del demonio ecco che io giungo quale trionfatore».

Lo stesso senso leggiamo nell’Apocalisse (X, 5 e segg.):

«Allora l’angelo alzò la destra verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli: “Non vi sarà più dilazione di tempo! Ma quando il settimo angelo farà udire il suono della sua tromba, allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato ai suoi servi, i profeti”».

La chiave di lettura è data dalla precessione degli equinozi. Alfredo Cattabiani ricorda che «il nostro pianeta, il cui asse è inclinato rispetto all’attrazione solare, si comporta come un giroscopio gigantesco che compia una rivoluzione ogni 25.920 anni.

L’inclinazione provoca un continuo spostamento dell’equatore celeste che interseca il cerchio inclinato dell’eclittica lungo una serie regolare di punti con moto uniforme da est a ovest. I punti dove i due cerchi s’intersecano, sono i punti equinoziali. Il sole, pertanto, percorrendo l’eclittica nel corso dell’anno, incontra l’equatore in un punto che, col passare degli anni, si sposta lungo la fascia dei segni zodiacali. Questo è quanto s’intende per precessione degli equinozi: essi “precedono” perché si muovono in senso contrario a quello dell’ordine progressivo dei segni zodiacali che il sole stabilisce nel suo percorso annuale. Il punto vernale, che indica per tradizione l’inizio della primavera e dell’anno, si verificherà via via in un segno dopo l’altro. Il che significa che il sole sorge assieme alla costellazione rendendola invisibile. Da circa duemila anni si dice — per comodità — che il sole equinoziale sorge nell’Ariete; ma è una convenzione perché in realtà oggi il sole sorge nei Pesci e in futuro sarà nell’Acquario».

Ora, Giorgio Terzoli, grazie alla sua importante scoperta, ci fa comprendere i passi profetici.

«La Sfinge, la famosa statua del leone dal volto umano, si trova accovacciata ai piedi della rampa precessionale di Chefren. Essa è perfettamente allineata all’est vero, dove il sole sorge nei due giorni equinoziali e fissava direttamente il suo corrispettivo celeste, cioè la levata del sole equinoziale nella costellazione del Leone nell’anno 10450 a.C.[1][1] ed in quella precisa data, della costellazione del Leone si vedeva solo la testa, il dorso e le spalle. Le stesse che appaiono guardando la Sfinge dal suo profilo da sud.

In quella data si verificò una congiunzione particolarmente spettacolare, una congiunzione che coinvolgeva il momento del sorgere del sole, la costellazione del Leone e il punto di transito sul meridiano delle 3 stelle della cintura di Orione.

La Sfinge e le 3 piramidi di Giza rappresentano questa congiunzione celeste unica che segnala l’inizio dell’era precesssionale del Leone e l’inizio del ciclo precessionale ascendente delle 3 stelle della cintura di Orione.

Quindi la Sfinge segnala l’ora precessionale e le 3 stelle della cintura di Orione ci segnalano i minuti precessionali.

Le due lancette fermano l’ora di partenza del messaggio il 10450 a.C. La partenza del messaggio era fissata in maniera unica ed irripetibile dall’evento astronomico sopraccitato».

Chiarito questo importante punto, Terzoli passa a spiegare il passo profetico del Libro dei Morti:

«Le 12 divinità che reggono le stelle di Orione non sono altro che le 12 costellazioni che incontriamo per effetto della precessione.

“Ecco che esse congiungono le mani palmo a palmo”, con il simbolismo questa immagine poetica ribadisce il lento incedere della precessione. “Ma la Sesta fra esse pende sull’orlo dell’Abisso”.

Quindi partendo dalla data di partenza segnalataci dalla Sfinge e dalle tre stelle della cintura di Orione, possiamo contare che ora precessionale ci viene segnalata: la sesta. Partendo ovviamente dall’era del Leone che è la prima, Cancro la seconda, Gemelli la terza, Toro la quarta, Ariete la quinta e infine Pesci la sesta, ora precessionale partendo dall’era del Leone. Quindi, l’orlo dell’abisso è alla fine della sesta ora precessionale, partendo dall’era del Leone, quindi la fine dell’era dei Pesci, il nostro tempo».

È così chiarito l’enigma della grande attesa della Sfinge. Lei ha atteso per millenni l’equinozio di primavera dell’era dell’Acquario. Così, nella nostra epoca, all’equinozio di primavera, fissando la costellazione dell’Acquario, torna allegoricamente a guardare se stessa, poiché riguarda l’era della sua rivelazione, come conferma San Matteo (XXIV, 14):

«Quando questo Vangelo del Regno sarà predicato in tutta la Terra abitata, come testimonianza a tutte le genti, allora verrà la fine».

«La Sfinge protegge e domina la Scienza», si legge all’inizio de Il mistero delle cattedrali di Fulcanelli.

Terzoli ci segnala, inoltre, che il messaggio delle piramidi e della Sfinge si ritrova, pressoché identico, nei templi di Angkor in Cambogia.

«Mentre le tre stelle della cintura di Orione sono state riprodotte sul terreno della piana di Giza, in Egitto nel punto più basso di culminazione, il Nadir, le stelle della costellazione del Drago, sono state riprodotte sulla terra con i templi di Angkor allo zenit, nel punto di culminazione più alto, esattamente come esse si trovavano per effetto della precessione degli equinozi nel 10450 a.C.

Lo stesso messaggio, gli stessi strumenti, la stessa data di partenza (il 10450 a.C. o l’era del Leone), la stessa data di arrivo (fra la fine dell’era dei Pesci e l’inizio di quella dell’Acquario), le stesse similitudini, gli stessi numeri per calcolare il fenomeno precessionale, gli stessi miti e la stessa identica maniera di esprimersi tra due popolazioni, che secondo la scienza ufficiale non hanno avuto nessun tipo di contatto.

Tutti gli autori, sia antichi sia moderni, che trattano dell’argomento, non l’anno fatto se non sotto il velo dei geroglifici, degli enigmi, delle allegorie e delle favole».

Infatti, Terzoli fa notare che il messaggio è continuato nel tempo tra tutte le civiltà. Ecco due punti fondamentali:

«I Sumeri si stabilirono in Mesopotamia nel 4000 a.C., cioè all’inizio dell’era precessionale del Toro.

In una loro raffigurazione troviamo il dio solare Tesup, che indossa un copricapo con corna e sta in piedi davanti ad un toro.

Il carattere solare della divinità è ribadito dai disegni del vestito e del copricapo, interamente cosparsi di simboli solari.

La posizione precessionale del sole è indicata dal simbolo del toro, che indica l’era precessionale del Toro. Per precisione i Sumeri ci segnalano che il sole si trovava all’inizio dell’era precessionale del Toro, (4320 a.C.) infatti, la divinità è sulla parte iniziale della costellazione del toro, cioè le corna, indicandone così l’inizio.

La mano destra della divinità indica che sono già passate tre ere precessionali (Leone, Cancro e Gemelli) e tre ne mancano alla fine del messaggio (Toro, Ariete e Pesci).

Praticamente i Sumeri ci segnalano che la loro era precessionale (inizio dell’era astronomica del Toro), è esattamente alla metà del lungo messaggio che contempla ben sei ere precessionali.

Vediamo ora il messaggio aggiornato alla metà dell’era astronomica dei Pesci. In una miniatura che si trova nella cattedrale di Burgo de Osma (Soria, Spagna), realizzata attorno all’anno 1000 d.C.

Il soggetto della miniatura spagnola è quello dell’Apocalisse di San Giovanni, infatti ritroviamo la bestia con le 7 teste, indicante le 7 ere precessionali che il Sole deve attraversare per giungere dall’era astronomica del Leone, all’inizio dell’era dell’Acquario. (Tutte le teste della bestia hanno come diadema il simbolo solare.)

I 6 pesci sotto la bestia nera indicano il lento incedere precessionale che il sole deve attraversare prima di arrivare all’abisso, in cui è atteso dal grande serpente o Dragone, alla fine dell’era precessionale dei Pesci (il settimo sigillo).

Il pesce nero, dove la bestia sta cavalcando, indica chiaramente che nell’anno 1000 d.C. (epoca in cui è stata eseguita la miniatura) il sole era all’incirca alla metà della costellazione dei Pesci. Gli autori della miniatura sono perfettamente a conoscenza del messaggio astronomico, infatti l’era astronomica precessionale, la metà della costellazione dei Pesci è perfettamente in sintonia con la posizione del sole, quando la miniatura è stata eseguita (il 1000 d.C.).

Le sette teste della bestia, con i simboli solari, indicano la partenza del messaggio dall’era precessionale del Leone».

Collodi, lo spauracchio della “fine del mondo”, lo fa interpretare da Mangiafuoco.

«All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano come tante foglie. Il burattinaio era un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava con i piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso col lume acceso di dietro, e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme».

Spesso la scienza ermetica è personificata in modo brutto e spaventoso, perché reca la morte mistica. Ricordiamo la brutta strega che donò la mela — simbolo di conoscenza — a Biancaneve, interprete dell’umanità. La stessa popolare Befana non è meno brutta, anche se benevole perché reca i doni… Fulcanelli ci insegna che si tratta della Madre pazza, «una vecchia incappucciata e assai brutta. Ora la madre dei pazzi, la Madre pazza, non è altro che la nostra scienza ermetica, considerata in tutta l’estensione del suo insegnamento».

L’aspetto di Mangiafuoco ricorda quello del Baphomet dei templari.

Fulcanelli segnala che anche l’anonimo Adepto di Lisieux aveva scolpito, sul pilastro centrale del primo piano della sua abitazione, «un’enorme testa che fa una smorfia, provvista d’una barba a punta. Le gote, le orecchie, la fronte sono stirate fino a prendere l’aspetto d’estensioni infiammate. Questa maschera fiammeggiante, dal ghigno poco simpatico, appare incoronata e provvista di appendici a forma di corna infiocchettate. Con le sue corna e la sua corona, il simbolo solare assume il significato di vero e proprio Baphomet. Figura parlante, gravida d’insegnamento, nonostante la sua estetica rozza e primitiva. Se per prima cosa si ritrova la fusione mistica delle nature dell’Opera, non si è meno sorpresi dall’espressione strana, che rispecchia un ardore struggente, espressa da questo viso inumano, spettro del giudizio universale. E perfino la barba, geroglifico del fascio luminoso e igneo proiettato verso terra, esprime sino a che punto il nostro Sapiente possedesse la conoscenza esatta del nostro destino…

La teoria ciclica, parallelamente alla teoria di Ermes, vi è esposta tanto chiaramente che, a meno d’essere ignoranti e in malafede, non si potrebbe mettere in dubbio la scienza del nostro Adepto».

«Il burattinaio Mangiafoco che (questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella barbaccia nera che, a uso di grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo, poi, non era un cattiv’uomo…

A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventò, tutt’a un tratto, più umano e più trattabile».

Bisogna accettare l’irrefutabile verità, l’eccellenza della scienza di Ermes. Come insegna il Baphomet, questa scienza ha posseduto sempre una doppia conoscenza esoterica, quella dell’insegnamento filosofico per la realizzazione della Grande Opera, e quella profetica riguardante l’Età dell’Oro.

Fulcanelli fa notare pure che le opere di Perrault, «I racconti di mia madre l’Oca, sono delle favole ermetiche nelle quali la verità esoterica si mescola allo sfondo dei Saturnales, del Paradiso e dell’Età dell’Oro.

Nell’Età dell’Oro, l’uomo rinnovato, ignora qualsiasi religione, rende solo grazie al Creatore, il cui Sole, la sua più sublime creazione, gli sembra che ne rifletta l’immagine ardente, luminosa e dispensatrice di bene. Rappresentante visibile dell’Eterno, il Sole è anche la testimonianza visibile della sua grandezza e della sua bontà. In seno all’irraggiamento dell’astro, l’uomo ammira le opere Divine, senza manifestazioni esteriori, senza riti e senza veli[1][2]».

Quindi, Mangiafuoco, interpreta pure il soggetto dei saggi. In questo modo, la barba che giunge fino a terra, è simbolo d’illuminazione che si condensa, che si assimila. È nera per indicare la sua mortificazione, la sua uccisione. È anche a guisa di grembiale, altro importante punto della pratica, il senale, il seno che porta il bambino. Quella barba Mangiafuoco se la calpestava coi piedi, emblemi dell’inferiorità.

La sua bocca larga come un forno, attrezzo indispensabile nel lavoro alchemico. Gli occhi di vetro rosso. Fulcanelli scrive che «la sibilla, interrogata sulla definizione di filosofo, rispose: “È colui che sa fare il vetro”». Il colore rosso simbolo del fuoco e dello spirito che ritroviamo fino alla sazietà, e la luce accesa di dietro, cioè quella interna o interiore che è stata accesa.

La terribile frusta, che aveva in mano, è una magnifica traduzione del caduceo, in cui i serpenti (volatile) e le code (fisso) ripetono le trasformazioni delle due nature primitive.

Così, nel ruolo del soggetto dei saggi, Mangiafuoco, «dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté più e lasciò andare un sonorosissimo starnuto. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le braccia a Pinocchio:

— Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qui da me e dammi un bacio. —

Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso».

È locuzione corrente augurare salute a chi starnutisce, oppure, è usanza chiedere: «Hai guadagnato molti soldi?». Ai bambini, invece, si augura loro di «crescere santi».

Il bacio sulla punta del naso si tratta, senz’altro, di un capriccio del nostro Adepto e variante singolare del mistico bacio del principe azzurro alla principessa.

Mangiafuoco che, come vuole il suo nome, è il divoratore del fuoco solare — espressione ermetica dello Spirito Universale — fece dono a Pinocchio di cinque monete d’oro, simboli di quintessenza, e questi, lasciato la compagnia dei burattini «si mise in viaggio per tornarsene a casa sua.

Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di avventura. La Volpe, che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe».

Il gatto e la volpe sono gli emblemi dei nostri due principii: il fisso è interpretato dalla volpe, come insegna il duello esoterico contro il gallo che si può osservare nella cattedrale di Parigi, e riportato pure da Basilio Valentino, mentre, spiega Fulcanelli, che «sono i baffi del gatto che hanno fatto dare questo nome al piccolo felino; non ci si sogna neanche che essi nascondono un altro punto della scienza, e che questa segreta ragione valse al grazioso animale, l’onore di essere elevato al rango delle divinità egiziane».

L’identificazione più lampante ci è data dal fatto che la volpe zoppica e il gatto è cieco. Il nostro Adepto fa comprendere chiaramente che la causa è stata lo studio della scienza sublime.

«— Guarda me! — disse la Volpe. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.

— Guarda me! — disse il Gatto. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi».

Tuttavia, nella tradizione del Chiliasmo, si sottolinea la situazione del mondo, dove i “furbi” cercano sempre di turlupinare gli “ingenui”. Così, quando Pinocchio tirò fuori le monete d’oro, «al simpatico suono di quelle monete, la volpe, per un moto involontario, allungò la gamba che pareva rattrappita, e il gatto spalancò tutti e due gli occhi, ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non s’accorse di nulla…

La Volpe di punto in bianco disse al burattino:

— Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?

— Cioè?

— Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila? Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.

— Alla fortuna! — ripeté il Gatto.

— I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.

— Duemila! — ripeté il Gatto.

— C’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei Miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.

— Sicché dunque — disse Pinocchio sempre più sbalordito — se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverai?

— È un conto facilissimo — rispose la Volpe — un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque e la mattina ti trovi in tasca duemila cinquecento zecchini lampanti e sonanti.

— Oh che bella cosa! Gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. — Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri due.

— Un regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. — Dio te ne liberi!

— Te ne liberi! — ripeté il Gatto.

— Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.

— Gli altri! — ripeté il Gatto».

Le ripetizioni del gatto insegnano che le illuminazioni devono ripetersi frequentemente all’inizio della pratica. Ricordiamo che soltanto queste aiutano la mente a stabilizzarsi nella verità, nella pace dei due elementi.

Il Campo dei Miracoli non è altro che «il campo del Signore che dà frutti immortali» del quale parla il cardinale Cusano.

La moltiplicazione degli zecchini equivale ad un’altra allegoria ermetica. Fulcanelli ci dice che «la moltiplicazione può essere realizzata grazie all’aiuto del mercurio, che nell’Opera ha il ruolo di paziente. Mediante cotture e fissazioni successive. Il paziente funge da ricettacolo e da vaso all’energia contraria della natura avversa».

Infine, la solidarietà e la bontà del gatto e della volpe, possiedono la variante ermetica negli gnomi che, ricorda Fulcanelli, «preposti alla guardia dei tesori minerali, vegliano senza sosta sulle miniere d’oro e d’argento, sui giacimenti di pietre preziose. Il loro carattere è benevole, le relazioni con loro estremamente favorevoli. Sotto questo aspetto si comprende facilmente la ragione occulta dei racconti e delle leggende, nelle quali l’amicizia di uno gnomo spalanca le porte delle ricchezze terrestri».

«Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso».

Fulcanelli insegna che «la seconda operazione è assolutamente simile alla prima, e la terza operazione, eseguita come le altre due, ci dà la Pietra Filosofale».

Così, i tre principii (gatto, volpe e Pinocchio), dopo aver camminato per tre volte durante la giornata filosofica, arrivarono alla sera dell’Opera alla realizzazione finale (stanchi morti): il Gambero Rosso, con il colore proprio della Pietra Filosofale.

Mentre Pinocchio dormiva all’osteria, «si trovò svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta della camera. Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era suonata».

A questo brusco risveglio iniziatico nessuno neofita si è potuto sottrarre.

A mezzanotte nasce il Bambinello, la luce manifestata nella materia. La tradizione popolare insegna che i fantasmi sorgono a mezzanotte. I fantasmi simboleggiano coloro che “tornano” sempre, cioè che si reincarnano.

Friedrich Heiler cita un illuminante verso delle Upanishad:

«Anche chi è stanco del mondo dovrà tornarvi sempre di nuovo».
Friedrich Nietzsche aggiunge:

«Ahimè, l’uomo eternamente ritorna! L’uomo più vile ritorna eternamente».

Dante Alighieri[1][3] per bocca di Virgilio, chiede:

«Ma tu perché ritorni a tanta noia? Perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?».

«Soltanto grazie alla Grande Opera» conferma Canseliet «è possibile sfuggire, quaggiù, al tracciato inesorabile della curva fatale, dapprima ascendente, poi discendente e regressivo, e sottrarsi al processo inevitabile della nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia, concluso dalla decrepitezza e dalla morte».

La soluzione, quindi, è il risveglio iniziatico, o dell’intelligenza.

Così, aggiunge Dante[1][4] che «nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura».

È la stessa cosa accadde a Pinocchio, una volta fuori dell’osteria trovò il buio assoluto.

«Si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio così buio che non si vedeva da qui a lì».

Questo passo ricorda, come scrive Canseliet, «l’ingegnoso Hidalgo della Mancia — el ingenioso Hidalgo de la Mancha — La storia di Don Quijote ci racconta per trasparenza quella del mercurio dei saggi, il cui inizio si delinea molto singolarmente sin dal capitolo IV in cui Miguel Cervantes ci parla “di ciò che avveniva al nostro cavaliere quando uscì dall’albergo”.

Ciò che colpisce innanzitutto, in questa prima impresa del cavaliere appena armato tale, sta in ciò che precisano le due subordinate poste tra parentesi dall’autore: (perché vi era anche una lancia appoggiata contro la quercia cui era attaccata la giumenta)».

L’osteria simboleggia il luogo di ogni appagamento psicologico che il neofita abbandona per atto d’intelligenza.

Quindi, fuori dall’albergo al neofita lo attende la giumenta e la lancia. Nel medioevo, scrive Fulcanelli, per «accedere alla pienezza del sapere, si inforcava metaforicamente la cavale, veicolo spirituale, la cui immagine tipo è il Pegaso alato dei poeti ellenici».

La lancia, invece, gli serve per combattere contro la rozza materia.

«Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale facendo un salto indietro per la paura, gridava: — Chi va là? — e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza — Chi va là? Chi va là? Chi va là —

Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente

— Chi sei? — gli domandò Pinocchio.

— Sono l’ombra del grillo parlante — rispose l’animaletto, con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là».

Gli uccelli notturni rappresentano il volatile che si ripetono sul naso (fisso) di Pinocchio. Queste necessarie ripetizioni durante la seconda operazione filosofale, le ritroviamo pure nell’eco, fenomeno utilizzato sin dall’antichità.

Si narra che Narciso, non ricambiando l’amore della ninfa Eco, costei si strusse d’amore per lui fino alla morte; allora Nemesi, la dea della vendetta, fece innamorare Narciso della propria immagine riflessa in una pozza d’acqua di sorgente dove anche lui trovò la morte.

Il significato è che Eco, la psiche, rispondendo, trova la propria morte come la stessa illuminazione.

Fulcanelli insegna, pure, che «la materia prima, quella che serve a preparare l’Opera, è chiamata specchio dell’arte».

Bella pure la simbologia della lampada trasparente.

Fulcanelli segnala che «Senior Zadhit rinchiude, dentro una sfera trasparente, un agonizzante magrissimo. Henri de Linthaut disegna su di un foglio del manoscritto l’Auror, il corpo inanimato d’un re incoronato, steso sulla pietra tombale, mentre il suo spirito, sotto l’aspetto di un angelo, s’innalza verso una lanterna perduta tra le nubi. Ed anche noi, seguendo questi grandi Maestri, abbiamo sfruttato lo stesso tema nel frontespizio del Mistero delle Cattedrali».

Spicca, per la sua forza espressiva, il disegno di Henri de Linthaut. Qui si vede, infatti, la psiche rinnovata — perciò reso angelo — che tende verso la Lanterna o l’Illuminazione che, perduta tra le nubi, risulta totalmente e assolutamente lontana da qualsiasi azione terrena che voglia raggiungerla.

È lo stesso simbolismo che si ritrova nelle Cattedrali. Fulcanelli spiega che queste «presentano, all’interno, quelle ardite volte incrociate a sesto acuto, la cui invenzione appartiene totalmente ai Frimasons, gli Illuminati costruttori del medioevo. In tal modo i fedeli, nei templi medioevali, si trovavano posti tra due croci, l’una inferiore e terrestre, sulla quale camminano — immagine del loro calvario quotidiano — l’altra superiore e celeste, verso la quale aspirano, ma che possono raggiungere soltanto con lo sguardo».

Questa croce terrestre — risultato delle nostre passate azioni — scemerà man mano che si procede durante l’elaborazione dell’Opera.

Infatti, la Scienza antica rivela che sebbene abbiamo tutti il nostro scotto da pagare nel nostro Purgatorio, «dove l’umano spirito si purga e di salire al Cielo diventa degno», come scrive Dante (I, 5-6), tuttavia questo Iniziato ci assicura che le scale scavate nel sasso (XII, 97) diventano meno faticose quanto più si avanza verso l’alto (XII, 121 e segg.).

Arriviamo al punto in cui Pinocchio s’imbatte coi briganti, o assassini.

«Si voltò a guardare e vide nel buio due figuracce nere tutte imbacuccate in due sacchi di carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi».

Gli assassini inseguirono Pinocchio per lungo tempo, «e gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.

Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre.

Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi a terra e di darsi per vinto, quando nel girare gli occhi all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la neve…

Si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:

— In questa casa non c’è più nessuno. Sono tutti morti.

— Aprimi almeno tu! — gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.

— Sono morta anch’io.

— Morta? E allora cosa fai costì alla finestra?

—Aspetto la bara che venga a portarmi via —

Appena detta così, la bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore».

Come si sa, Pinocchio fu raggiunto dal gatto e dalla volpe che, catturatolo, non riuscirono a rubargli le monete d’oro che si era messo in bocca. Allora «gli legarono le mani dietro le spalle e, passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande… e gli dissero sghignazzando:

— Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata».

«È il caso qui — scrive Canseliet — di avvicinare cabalisticamente la parola francese chêne (quercia) non sibilato in lingua d’öil, il termine greco chen, che indica l’oca e il cui radicale, chainô, significa aprirsi, schiudersi (la vecchia quercia cava di Nicolò Flamel) essere spalancato, avere la bocca spalancata».

Fulcanelli aggiunge che «la quercia è sempre stata scelta, dagli autori Antichi, per indicare il nome volgare del soggetto iniziale, come lo si trova in miniera».

Ricordiamo che pure il Vello d’Oro era appeso alla quercia ermetica. La quercia cava è una variante esoterica del vaso dei filosofi. Quindi, la bocca spalancata si traduce in mente aperta, intelligenza risvegliata.

Bella pure l’allegoria di Pinocchio che fugge inseguito da due figuracce nere. Egli interpreta il servus fugitivus dell’Opera, mentre le due nature primitive (nere o assimilate) sono intende sempre a catturarlo instancabilmente per tutto il lavoro del Magistero.

All’interno del bosco ermetico si trova la casina bianca. La fantasia del nostro Adepto è encomiabile. Il soggetto che ci interessa è puro e si trova in mezzo al “verde cupo”.

Fulcanelli, ricordandoci la purezza della donna dell’Opera, scrive che «il mercurio filosofico nasce solo da una sostanza pura, e Gesù nasce da una madre senza macchia».

E per essere più precisi, Fulcanelli spiega pure che il mercurio filosofico, il nostro bambino ermetico, «è proprio lui che occupa il ruolo della femmina nel lavoro». Infatti, è proprio questa sua natura che le permette di catturare il fuoco solare.

Il nostro Adepto, puntuale, ci dice che si tratta di una bella bambina dai capelli turchini o bluastri, geroglifici dei raggi solari condensati. Ella si trova nella sua morte mistica con le mani incrociate nel segno dell’illuminazione.

Tramite la bambina ermetica esiste una tradizione piuttosto curiosa legata alle capigliature delle nostre bambine. È, infatti, usanza farle un paio di trecce che ricordano il doppio mercurio dei saggi, ma il recondito significato sta nelle trecce.

Fulcanelli insegna che «le trecce della capigliatura è il geroglifico dell’irraggiamento solare, e indicano che l’Opera, sottomessa all’influenza dell’astro, non può venir eseguita senza la collaborazione dinamica del Sole. La treccia, chiamata in greco seirá, è adottata per raffigurare l’energia vibratoria, perché presso gli antichi popoli ellenici il sole si chiamava Seír».

Torniamo a Pinocchio appeso alla Quercia grande. San Paolo (Galati III, 13) scrive: «Maledetto chi pende dal legno».

Canseliet aggiunge: «Totus mundus in maligno (mali ligno) positus est; tutto il mondo è basato sul diavolo (sull’albero del male)».

La quercia è stato introdotto con diritto di cittadinanza fra le figure dell’iconografia ermetica per la durezza del suo legno, che traduce la durezza di comprendonio, infatti, la scure (simbolo d’illuminazione) spesso vi rimbalza.

Essere appeso, cioè essere sollevato da terra, indica il distacco dalle cose terrene. Nel rituale dei fuochi di san Giovanni, i rami che erano stati passati sul fuoco (illuminazione) venivano appesi alle travi perché dovevano, in conseguenza di questo fatto, senza terra, senza acqua, sospesi nell’aria, crescere, fiorire e fruttificare.

La corda dell’impiccagione è anche la cintura d’iride che separa la testa (emblema del mercurio filosofico) dal resto del corpo inferiore (grossolanità).

«In quel mentre che il povero Pinocchio impiccato dagli assassini a un ramo della Quercia grande, pareva ormai più morto che vivo, la bella Bambina dai capelli turchini si affacciò daccapo alla finestra, e impietositosi alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava il trescone alle ventate di tramontana, batté per tre volte le mani insieme, e fece tre piccoli colpi.

A questo segnale si sentì un gran rumore di ali che volavano con foga precipitosa, e un grosso falco venne a posarsi sul davanzale della finestra.

— Che cosa comandate, mia graziosa fata? — disse il Falco abbassando il becco in atto di riverenza: (perché bisogna sapere che la Bambina dai capelli turchini non era altro in fin dei conti che una bonissima Fata che da più di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco).

Abbiamo visto che il grillo-parlante abitava da cent’anni nella casa, ora la fata da mill’anni. Questi numeri appartengono alla tradizione millenaristica. È un invito dell’Adepto a ciò che si osservi la favola soprattutto sotto questo insegnamento.

La fata ricorre in molte favole e leggende popolari.

Giovanni Pansa scrive che «una grotta che si trova tra le montagne gemelle di Campli e Civitella del Tronto (TE), è chiusa da un macigno chiamato “Porta di Ferro”. All’interno si trova una fata intenta a filare notte e giorno, e nello stesso tempo è posto a guardia di tre grossi mucchi di prezioso metallo: uno di rame, l’altro d’argento e il terzo d’oro.

Bisogna penetrare in questa grotta durante la notte profonda. Ogni tre anni. Nel primo anno prendi a tuo piacimento le monete di rame, nel secondo le monete d’argento e nel terzo quelle d’oro».

La fata, quindi, fila per tutte e tre le operazioni della Grande Opera.

 

La fata di Pinocchio ordinò al falco di togliere il burattino dalla quercia. Dopo che il falco ebbe eseguito il compito, «allora la Fata, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un magnifico Can-barbone».

Questo cane ebbe il compito di andare a prendere il burattino con una carrozza e lo trasportò dalla «Fata che stava aspettando sull’uscio di casa, prese in collo il povero burattino, e portatolo in una cameretta che aveva le parete di madreperla, mandò subito a chiamare i medici più famosi del vicinato.

E i medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante».

«La civetta» spiega Canseliet «è l’emblema della saggezza e del suo fuoco segreto. L’uccello notturno fu consacrato a Minerva, perché vede nelle tenebre. Straordinaria similitudine dovuta non alla vista, ma al sesto senso che l’uomo non possiede, se non per mezzo dello specchio della Natura».

Qui si trova il motivo nascosto perché popolarmente si dà il nome di civetta alle donne che amano attirare l’attenzione degli uomini. È il principio femminile che attrae quello maschile.

Il corvo fece la sua diagnosi:

«A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!».

Ritroviamo lo stesso tema del vive e non vive dei cicli del Graal.

Si noti pure la barba del cane, geroglifico d’illuminazione proiettato verso terra.

Fulcanelli ci fa comprendere la similitudine tra il cane e il corvo, scrivendo che «il Filosofo Artephius parla, infatti, del cane di Khorassan e della cagna di Armenia, emblemi dello zolfo e del mercurio genitori della pietra. Ma mentre la parola Armenos, che significa ciò di cui si ha bisogno, ciò che è preparato e convenientemente disposto, indica il principio passivo e femminile, il cane di Khorassan, o zolfo, ricava il suo appellativo dalla parola greca kórax, equivalente al nostro corvo».

Come abbiamo detto, questi particolari sono sufficienti per dimostrare sia l’alta istruzione nei misteri dell’Arte sacra posseduta dal nostro Adepto, sia la stessa conoscenza dei diversi geroglifici adottati dai suoi predecessori. È quanto insegna il Vangelo di Matteo (XIII, 52):

«Per questo ogni scriba divenuto discepolo del Regno dei Cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Eliphas Levi scrive che «in Oriente, una setta di cristiani gioanniti, pretendevano che i fatti narrati nei Vangeli non fossero che delle allegorie di cui Giovanni (XXI, 25) dà la chiave dicendo che “si potrebbe riempire il mondo di libri, se si scrivessero le parole e gli atti di Gesù Cristo”; parole che, secondo essi, non sarebbero che una ridicola esagerazione, se non si trattasse, infatti, d’una allegoria che si può variare all’infinito».

«Appena i tre medici furono usciti dalla camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone che non so dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:

— Bevila e in pochi giorni sarai guarito —

Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi dimandò con voce di piagnisteo:

— È dolce o amara?

— È amara, ma ti farà bene.

— Se è amara non la voglio.

— Da retta a me: bevila…

Pinocchio prese di malavoglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:

— È troppo amara! Troppo amara! Io non la posso bere.

— Come fai a dirlo, se non l’hai nemmeno assaggiata?».

Anche Dante[1][5] esclama: «Tanto è amara, che poco è più morte».

Questo è precisamente il libro dell’angelo dell’Apocalisse (X, 9) che tiene il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra, e che invita a mangiarlo:

«Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele».

«Noi sappiamo quanto costa barattare i diplomi, i sigilli e le pergamene, in cambio dell’umile mantello del filosofo». Confida pure Fulcanelli «A ventiquattr’anni, abbiamo dovuto bere fino all’ultima goccia questo calice amaro. Col cuore in pena, vergognandoci degli errori commessi nei nostri anni giovanili, abbiamo dovuto bruciare libri e quaderni, confessare la nostra ignoranza e, modesti neofiti, abbiamo decifrato un’altra scienza sui banchi di un’altra scuola».

Siccome questa scienza in bocca è dolce come il miele, anche Pinocchio ricevette dalla fata una «pallina di zucchero», e dopo che ebbe bevuta la medicina, e rimessosi, «la Fata gli disse:

— Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?

— Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!…

— E allora come mai ti sei fatto tanto pregare per berla?

— Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male».

Dopo, a ogni domanda della fata, Pinocchio iniziò a rispondere con una bugia, e ad ogni bugia il suo naso, che ha reso famoso il burattino, si allungava sempre di più.

È l’immagine dell’egoismo esaltato dalla falsità. Collodi l’aveva già fatto notare da quando Geppetto, rappresentante dell’uomo comune, “costruiva il suo burattino per bene”.

«Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo».

«Saper di aver mentito e non giustificarsi, ma vedere la realtà del fatto, questo è onestà» spiega Krishnamurti «e in questa onestà c’è grande bellezza. La bellezza non urta nessuno. Dire di essere bugiardo è un riconoscimento della realtà; è riconoscere un errore come tale. Ma trovare ragioni, scuse o giustificazioni alla cosa è disonestà, e in questo c’è autocommiserazione. L’autocommiserazione è la tenebra della disonestà.

Uno dice una cosa che non pensa, forse per dare una parvenza di sicurezza, o perché è nervoso, timido, o si vergogna di dire una cosa che realmente è. Così l’apprensione nervosa e la paura ci fanno disonesti.

L’onestà non è l’opposto della disonestà. L’onestà non è un principio. Non è conformarsi, ma piuttosto la percezione totale di ciò che è. E la meditazione è il movimento di questa onestà nel silenzio».

 

Dopo che la fata ebbe fatto tornare il naso a dimensioni normali con l’aiuto degli uccelli — volatili — Pinocchio chiede di poter rivedere suo padre — il Padre Celeste — e la fata gli assicura che «prima che faccia notte sarà qui», alludendo alla sera dell’Opera, e per incontrarlo gli consigliò di non perdersi: «Prendi la via del bosco e sono sicura che lo incontrerai».

Durante il cammino nel bosco tornò a incontrare il gatto e la volpe, questa volta non mascherati, e gli raccontò come degli assassini l’avevano inseguito e impiccato.

«E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì a due passi.

— Si può sentir di peggio? — disse la Volpe. — In che mondo siamo condannati a vivere? Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini?».

Questo rifugio indica la zona di salvezza o di misericordia del millenarismo che, come abbiamo visto, è ormai alle porte; e l’Adepto ha cura di dire che la Quercia era lì a due passi…

Fulcanelli, descrivendo l’obelisco di Dammartin-sous-Tigeaux (Seine et Marne) scrive che «dalla parte meridionale si può vedere l’immagine d’una vecchia quercia scolpita in bassorilievo.

Se interroghiamo la quercia di pietra, ci può rispondere che i tempi sono vicini, perché essa ne è il presagio figurato. E l’Iniziato al quale dobbiamo l’obelisco, ebbe cura di scegliere la quercia come frontespizio della sua Opera, come prologo cabalistico di puntualizzare nel tempo l’epoca nefasta della fine del mondo».

Giorgo De Rienzo scrive che «a Pinocchio l’esperienza è negata, la capacità di collegare tra loro dati e indizi non è concessa».

La conseguente situazione di una mente simile è che può essere preda d’individui più scaltri. Infatti, il burattino si lasciò abbindolato dal gatto e dalla volpe che tornarono a consigliargli di seminare le monete d’oro. Ma Collodi ci fornisce pure un generale quadro di quanto avviene nel mondo.

«Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome “Acchiappacitrulli”. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati che sbadigliavano dall’appetito, e di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza creste e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina di un chicco di granoturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorate, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti, cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, ormai perdute per sempre.

In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio da rapina».

Ritroviamo, in quest’allegorico e parlante quadro, l’immagine della situazione del mondo.

Krishnamurti afferma, al riguardo, che «voi siete il mondo, il mondo che voi avete creato con la vostra ambizione, con la vostra cupidigia, con i vostri interessi economici, con le vostre guerre. Suppliziare gli animali per procurarvi il cibo. Voi l’avete costruito questo mondo, fa parte di voi. Così voi siete il mondo e il mondo è voi; non c’è nessuna divisione fra voi e il mondo.

Nel momento in cui ci sarà un cambiamento radicale in ciò che siamo, porteremo la pace nel mondo. Vivremo liberamente — non licenziosamente — ma felicemente, gioiosamente. Vivremmo tutti perfettamente al sicuro. Saremmo tutti protetti, tutti avremmo cibi e case. Non vi sarebbero guerre, saremmo tutti una cosa sola. Lui è mio fratello, io sono lui. Lui è me».

Nella città simbolica, dunque, vivono gli accattoni, cioè quelli poveri di alta scienza. Qui troviamo i cani, rappresentanti delle forze dell’ordine e sempre pronti a difendere qualsiasi ordine costituito.

Poi vi sono le pecore, simboli del popolo laborioso e sempre tosato, sia che viva sotto un regime cosiddetto democratico sia totalitario. Le stesse galline starnazzanti, rappresentanti di quella parte del popolo impegnata socialmente e politicamente, sono abilmente raggirate — private di creste e di bargigli — da qualche uccellaccio da rapina.

Seguono gli artisti, simboleggiati dalle belle farfalle, costretti, però, a vendere i loro talenti e adattarsi alla forma di mercato corrente. Arrivano, poi, i cosiddetti nobili pavoni dell’aristocrazia, anch’essi, comunque, scodati da qualche signorile volpe.

La classe dominante, dunque, e, per estensione, la classe politica, è magistralmente indicata dalle perfide figure che occupano le carrozze signorili. Il direttore di un settimanale scrive a proposito di tutta la classe politica:

«Vogliono il potere, solo il potere. E per averlo sono tutti in gara, dal più piccolo partito al più grande, pronti a scannare la propria madre, a dire più bugie di Pinocchio e a tradire amici e parenti.

La politica, come la vediamo noi sudditi, è davvero troppo sporca».

«In questo mondo c’è grande tormento» conferma Krishnamurti «immenso dolore, guerra, brutalità, violenza; c’è la fame, di cui non sapete nulla. L’uomo non ha ordine dentro di sé e quindi ciò che tocca diventa sporco e caotico. La sua politica è diventata una raffinata associazione per delinquere per il potere, una truffa individuale o nazionale, un gruppo contro l’altro. La sua economia è immorale, nella libertà e nella tirannia.

L’uomo d’affari, il politicante e quasi ogni essere umano, segue, sotto la maschera della rispettabilità, i propri desideri e appetiti nascosti.

Quello che la maggior parte della gente chiama intelligenza, è semplicemente abilità in qualche attività tecnica, o furberia in affari o inganno in politica.

Gli sconsiderati e gli stolti sono sempre accecati dalle loro promesse e dalle loro speranze.
Abbiamo avuto capi in abbondanza, politici, economici, religiosi, settari, e sono stati completamente impotenti, capi che hanno le proprie teorie, i propri metodi, e ci sono migliaia di persone che li seguono, in tutto il mondo. Essi possiedono veramente un’enorme ricchezza: non solo la chiesa cattolica romana è ricca, ma anche i guru. Tutto si risolve in denaro.

Se i calcolatori, senza gli uomini politici, fossero messi nelle mani di uomini buoni, potrebbero mutare l’intera struttura del mondo. Tutti parlano di pace, ma la negano, perché ci può essere la pace, la realtà, l’amore, solo quando non c’è alcuna divisione».

«Amore e verità, armonia e bellezza» scrive Canseliet «ecco, riuniti in coppia, i quattro sostantivi che potrebbero servire da divisa all’antica Alchimia, nel suo unico scopo di pace totale e di misericordia infinita».

Nella città di Acchiappacitrulli non potevano mancare i rappresentanti di quella parte del mondo cosiddetta religiosa, in cui la bontà e la compassione, sentita da principio dai vari protagonisti, e simboleggiati dal colore d’oro e d’argento delle penne dei fagiani, vengono perduti, irrimediabilmente, nel cinismo e l’amarezza, accompagnati anche da brutti rospi che sovente queste persone debbono ingoiare, e dei quali devono tacere per non buttare discredito sull’ordine di appartenenza, e proseguendo, quindi, cheti, cheti.

Particolare curioso, le figure che occupano le carrozze signorili, nel loro lustro superficiale, cercano sempre di mostrarsi gentili e garbati con il loro prossimo in una forma d’ipocrisia.

Krishnamurti afferma che «quelli che sono vanitosi, presuntuosi, arroganti che si considerano tanto importanti, e si sentono soddisfatti della loro conoscenza, o di quel che possiedono, hanno una mente che cerca di coltivare l’umiltà. Non so se ve ne siete accorti.

Ma una mente piena di vanità, tesa a inseguire il successo, perché è dal successo che trae la propria importanza e presunzione, sia che si muova in campo scientifico, o religioso, o politico, non potrà mai capire che esiste una qualità che è assenza completa di vanità».

Il gatto e la volpe convinsero Pinocchio a seminare le sue monete d’oro, dopo andarono via e, prima di separarsi, la volpe gli ricordò di tornare entro una ventina di minuti per trovare l’albero carico di monete d’oro.

Fu proprio nella città di “Acchiappacitrulli”, quindi, che Pinocchio si trovò turlupinato dal gatto e dalla volpe. Questi personaggi, inventati dal nostro Adepto, sono diventati proverbiali. È lampante il ruolo ch’essi interpretano in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo della Terra: quella parte di persone impegnate con ogni mezzo possibile, senza la minima ombra di scrupoli, e con più falsità, recitazioni e moine possibili, per cerca di carpire la buona fede del loro prossimo.

Tutta questa umanità raggirata, poi, è magistralmente incarnata da un pappagallo, anch’esso descritto con «poche penne addosso».

Si sa che con l’epiteto “pappagallo”, popolarmente, s’intende le persone che imitano le idee degli altri, ma nell’espressione del nostro Iniziatore è ancora più profondo, indica il conformismo, il condizionamento culturale in qualsiasi parte del mondo si nasca.

Tuttavia, Collodi lo pone all’esterno della città, evidenziando, in questo modo, la figura di un “ricreduto” e lui ride, ormai, sulla propria e l’altrui sorte. Pertanto, egli si rivolge con queste parole a Pinocchio:

«Rido di quei barbagianni che credono a tutte le sciocchezze e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.

— Parli forse di me?
— Sì, parlo di te, povero Pinocchio, di te che sei così dolce di sale, da credere che i denari si possono seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagioli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene».

Pinocchio, vistosi raggirato dal gatto e dalla volpe, «preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò defilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini che lo avevano derubato.

Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo d’una flussione d’occhi che lo tormentava da parecchi anni.

Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.

Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.

Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:

— Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. —

Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia».

Non poteva mancare, nella città di “Acchiappacitrulli”, pure il senso della giustizia umana, che il nostro Adepto ha puntualmente riportato. Quante persone, in tutto il mondo, si riconoscono in Pinocchio per aver subito piccoli o grandi ingiustizie dovute a discutibili leggi.

Tutto dipende dalla malattia del giudice, che è antica quanto il soggetto dei saggi, e gli occhiali d’oro privi di vetri è la variante ermetica, scrive Canseliet, «della mancanza di occhiali, cioè di esperienza.

Experientia firmet lumina: che l’esperienza ti fortifichi gli occhi, consiglia Michele Maier».

Colui che segue la Natura, continua Canseliet, dev’essere «saggiamente munito di un bastone, di occhiali (perspicilia) e di una buona lanterna.

La Natura è la precettrice, più esattamente, l’iniziatrice del filosofo che, grazie a lei può liberarsi dall’errore».

Accadde, però, che per festeggiare una vittoria contro i suoi nemici, l’imperatore di “Acchiappacitrulli”, oltre ai festeggiamenti «volle che fossero aperte anche le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.

— Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io —, disse Pinocchio al carceriere.

— Voi no, — rispose il carceriere, — perché voi non siete del bel numero…

— Domando scusa, — replicò Pinocchio, — sono un malandrino anch’io.

— In questo caso avete mille ragioni — disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare».

Ognuno è libero di dare l’interpretazione che vuole a questo passo che dovrebbe riflettere la situazione del mondo.

Una volta tornato libero Pinocchio si rimise in cammino per tornare alla casa della fata, nella speranza di trovarvi pure il suo babbo, ma lungo la strada incontrò «un grosso serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntita, che gli fumava come una cappa di camino.

Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanandosi più di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi, aspettando che il serpente se ne andasse una buona volta per i fatti suoi e lasciasse libero il passo alla strada».

Dopodiché, nel superare il serpente, «cadde così male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria».

Il serpente fiabesco ricorda di più, per usare le parole di Fulcanelli, «l’athanor dal fumo leggero che si arrampica sulla volta ogivale», che il drago ermetico.

Al riguardo dei monticelli di sassi, invece, Giovanni Pansa spiega che «sono comunemente chiamati Galgal. In Francia li denominano castellets o Molin de Joie. Quest’ultimo nome si dà a quei monticelli di pietre formati dal getto costante dei pellegrini».

Lo si usava buttare pure nel luogo dove era morto qualcuno, oggi tale pratica è stato sostituito dai fiori, ma il simbolismo resta immutato. Le pietre, o i fiori, simboli d’illuminazioni rivelano la moltiplicazione ermetica.

Fulcanelli segnala che anche «tra le attribuzioni degli araldi rientrava quella di levare, in segno di vittoria o di avvenimenti fasti, delle specie di monumenti commemorativi chiamati Monts-Joie. Erano dei semplici monticelli o mucchi di pietre, dei monti di gioia».

Cadere a testa in giù, invece, ricorda la formula solve et coagula, attribuito al demonio o a Lucifero (portatore di luce) che è l’immagine dello spirito caduto o precipitato nella materia, perché la sua luce ne venga fuori è necessario la precipitazione della grossolanità. Fulcanelli precisa che «lo spirito si eleva e la materia precipita». Ed aggiunge che è la stessa figura «di San Pietro, pietra vera e fluente sulla quale riposa l’edificio cristiano. Perché è proprio lui, il primo apostolo, che detiene le due chiavi incrociate della soluzione e della coagulazione; è lui il simbolo della pietra volatile, resa fissa e densa dal fuoco, che la fa precipitare. San Pietro, nessuno l’ignora, fu crocifisso a testa in giù…».

Sempre durante il ritorno a casa, Pinocchio, avendo fame, cercò di cogliere un paio di grappoli d’uva, ma fu preso in una tagliola messo da un contadino per catturare le faine che gli rubavano le galline.

Scoperto dal contadino, per punizione gli fece prendere il posto del vecchio cane da guardia.

«— Se questa notte — disse il contadino — cominciasse a piovere, tu puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattr’anni al mio povero cane. E se per disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi ritti e di abbaiare».

Questo semplice passo nasconde un’importanza straordinaria. Fulcanelli scrive che «è la chiave della Grande Opera. Noël, nel suo Dictionnaire de la fable, scrive che “il cane era consacrato a Mercurio perché era il più vigilante e il più astuto di tutti gli dei”. È la figura del cinocefalo (kinoképhalos), che ha una testa di cane, forma mistica assai venerata dagli egiziani, che la diedero ad alcune divinità superiori, ed in particolare a Tot, il quale, in seguito, diventò l’Ermes dei greci, il Trismegisto dei filosofi, il Mercurio dei latini».

Essere sempre vigili, consapevoli è, in effetti, la chiave del mistero. Evola, trattando sempre dei misteri del Graal, cita in proposito:

«Alano — nella Terre Faraine — in mezzo a una corrente travolgente ha fatto erigere un superbo castello per il Graal: Corbenic. Questo è il castello della veglia perenne e della prova del sonno. Nessuno vi deve dormire. Corbenic è “le palais aventureus” e ogni cavaliere che vi dormì fu trovato morto l’indomani».

Il contadino è colui che si occupa dell’agricoltura celeste, che lavora la terra filosofale, mentre il cane è il suo braccio destro, il suo fuoco segreto che lavora per lui. Fulcanelli insegna che «il fuoco è raffigurato tramite il braccio destro; e sappiamo abbastanza bene che la locuzione proverbiale “essere il braccio destro di qualcuno”, si riferisce sempre all’agente incaricato d’eseguire la volontà di un superiore, nel nostro caso il fuoco».

Collodi fa anche notare che il vecchio cane da “guardia” era in combutta con i ladri (faine), cioè, tradotto esotericamente, significa che la sua vecchia attenzione era più rivolta verso il piacere della materialità che la luce della saggezza.

Pinocchio catturò le faine imprigionandole nel pollaio, richiudendovi la porta, «il quale, non contento di averla richiusa, vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra, a guisa di puntello».

Si tratta dello stesso gesto che compì Polifemo nell’Odissea (IX, 240 e segg.), chiudendo l’antro con un grosso macigno, imprigionando Ulisse e compagni che apostrofò come predoni.

I predatori, simboli della grossolanità che porta via l’intelligenza (volatile), sono fermati dalla pietra ermetica, cioè quella prima pietra sulla quale riposa l’edificio cristiano: l’intelligenza.

Ricevuta la grazia della libertà per il compito svolto, Pinocchio tornò al bosco della Quercia grande, «ma, guarda di qui guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini…

La Casina bianca non c’era più. C’era, invece, una piccola pietra di marmo sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole:

QUI GIACE

LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI

MORTA DI DOLORE

PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO

FRATELLINO PINOCCHIO

 

Come rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dette in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano così strazianti e acuti, che tutte le colline all’intorno ne ripetevano l’eco».

Si tratta di una variante della Mater dolorosa ermetica. La materia grossolana che si strugge a beneficio della spiritualità, grazie alle necessarie ripetizioni (eco).

Anche l’anonimo Adepto di Dampierre ha voluto riportare questa tradizione decorando il cassettone numero sei della quinta serie. Fulcanelli così descrive l’emblema:

«Una donna inginocchiata ai piedi di una tomba sulla quale si legge questa parola bizzarra,

 

.TAIACIS.

 

mostra la più profonda disperazione.

Mostrando il suo dolore, con gesti disordinati, ella rappresenta la madre dello zolfo; a lei si riferisce lo stesso vocabolo inciso sulla pietra che ricopre il suo figliolo: Taiacis. Quella parola barocca, nata, senza dubbio, da un capriccio del nostro Adepto, non è, in realtà, che una frase latina dalle parole accostate tra loro e scritta al contrario, in modo che dev’essere letta cominciando dalla fine: Sic ai at, ahimé! In tal modo almeno… (potesse rinascere). Suprema speranza in fondo al supremo dolore. Lo stesso Gesù dovette soffrire nella carne, morire e restare per tre giorni nel sepolcro, per riscattare gli uomini e risuscitare, in seguito, nella gloria della sua incarnazione umana e al compimento della sua Divina missione».

Anticamente esisteva il rituale del pianto durante la veglia funebre, l’allegoria della materia che si strugge per la spiritualità uccisa, in questo caso indicato dal defunto, era tenuto da donne che s’incaricavano di eseguirlo. Giovanni Stano segnala che nell’antica Roma queste si chiamavano «prefiche: donne che, pagate, facevano il piagnisteo, si strappavano i capelli, e ripetevano le lodi del morto».

 

Tornando a Pinocchio, «mentre si disperava a questo modo, passò su per aria un grosso colombo, il quale soffermatosi, a ali stese, gli gridò da una grande altezza:

— Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiù?

— Non lo vedi? Piango! — disse Pinocchio alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta».

Anche nel battesimo di Gesù, ci dice San Marco (I, 10), che «Giovanni vide improvvisamente aprirsi i cieli e lo Spirito Santo discendere su di lui sotto forma di colomba».

«Lo Spirito Santo» spiega Fulcanelli «è sempre raffigurato da una colomba che sta volando, cioè in croce».

Ricordiamo che la croce è il simbolo per eccellenza dell’illuminazione.

Ma la concezione di Collodi è ancora più profonda, ed è la stessa degli Illuminati costruttori del medioevo: le due croci, una inferiore e terrestre, — immagine del nostro calvario quotidiano — l’altra superiore e celeste, verso la quale aspiriamo, ma che possiamo raggiungere soltanto con lo sguardo.

La colomba aveva incontrato Geppetto e poi era andata in cerca di Pinocchio.

«L’ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare. Si fabbricava da sé una piccola barchetta per traversare l’Oceano.

— Quanto c’è da qui alla spiaggia? — domandò Pinocchio con ansia affannosa.

— Più di mille chilometri.

Mille chilometri? O colombo mio, che bella cosa potessi avere le ali!…

— Se vuoi venire ti ci porto io.

— A cavallo sulla mia groppa. Sei peso di molto?

— Peso? Tutt’altro! Son leggero come una foglia

Il burattino, per evitare il pericolo di venir di sotto, si avviticchiò colle braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata cavalcatura».

È l’immagine delle due nature indissolubilmente avvinti, cioè che l’illuminazione ha fatto grande presa sulla psiche.

È quanto ci assicura San Matteo (XI, 28 e segg.) secondo le parole del Cristo-luce:

«Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio gioco sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e soave il mio peso».

Così, grazie alla comprensione, si pone fine agli interminabili conflitti psicologici.

Anche il Saggio di Dampierre dedicò un emblema a questo tema, dedicandogli il cassettone numero tre della quarta serie della galleria del suo castello, sempre descritto dal Maestro Fulcanelli:

«Uscendo da folte nuvole, una mano, il cui avambraccio è piegato, tiene un ramoscello d’olivo. Questo stemma, di carattere morbido, ha come insegna:

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                   .PRVDENTI. LINITVR. DOLOR.

 

Il saggio sa calmare il suo dolore. Il ramoscello d’olivo, simbolo della pace e della concordia, indica l’unione perfetta degli elementi generatori della Pietra Filosofale».

«Qual è la causa del conflitto?» Chiede Krishnamurti «Su questo argomento sono stati scritti volumi su volumi. Psicologi, psichiatri, terapeuti, e tutti gli altri hanno dato spiegazioni verbali; milioni di parole sono state profuse a questo riguardo, eppure noi, tutti, rimaniamo in preda al conflitto. Quando nella mente, nel cervello c’è disordine, che è l’essenza del conflitto, il cervello non può essere tranquillo, semplice, chiaro. Questo si può dare per scontato, è una legge, come la legge di gravità, la legge per cui il sole sorge a oriente e tramonta a occidente: se vi è un conflitto soggettivo o interiore deve esserci disordine. E il cervello continuamente cerca un ordine — continuamente — perché non può vivere nel disordine; quando c’è disordine non può funzionare con chiarezza, bellezza, acutezza, al massimo della sua capacità».

Arrivati in riva al mare, la colomba lasciò Pinocchio e se ne andò. I pescatori del luogo dissero che Geppetto era partito a sua volta con una barca, additando verso il mare. Si vedeva in lontananza una barchetta che, ben presto, una grossa ondata fece sparire. Il burattino si tuffò per correre in aiuto di Geppetto e si trovò travolto dai marosi.

«Pinocchio, animato dalla speranza di arrivare in tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta la notte.

E che orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente e con certi lampi, che pareva di giorno.

Sul far del mattino, gli riuscì di vedere poco distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare.

Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi se lo abballottavano tra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena del lido e si consolò col dire:

— Anche per questa volta l’ho scampata bella!

Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in tutto il suo splendore e il mare diventò tranquillissimo e buono come un olio…

Quest’idea di trovarsi solo, solo, solo, in mezzo a quel gran paese disabitato, gli messe addosso tanta malinconia che stava lì lì per piangere; quando tutt’a un tratto vide passare, a poca distanza dalla riva, un grosso pesce, con tutta la testa fuori dall’acqua; il quale era un delfino».

Ormai sappiamo che al nostro Adepto piace segnalare qualsiasi passaggio della via lunga: la sensazione che avverte Pinocchio di sentirsi estremamente solo, è quella provata da qualsiasi neofita, vedendo che il mondo che aveva prima conosciuto ha perso la sua importanza.

Krishnamurti conferma:

«Alla fine vi troverete soli, ma con la comprensione, la consapevolezza interiore, vedendo chiaramente che tutto ciò, in realtà, non ha senso. L’appartenere a qualcosa, a un gruppo, a una qualche setta, può causare una soddisfazione momentanea, ma poi diviene alquanto noioso, deprimente e sgradevole».

Ritroviamo, poi, la tempesta della prima congiunzione nel mare ermetico che si conclude con l’arrivo sull’isola, col sole del Magistero, con la calma propria del mercurio filosofico. Collodi fa notare che ciò non dipende dalla nostra volontà: tale realizzazione è compito della Natura.

Quest’ultima allegoria è strettamente corrispondente alla descrizione che fa Fulcanelli del bassorilievo che decora la fontana del Vertbois, a Parigi.

Così scopriamo che «l’isola non è nient’altro che un’altra figurazione del pesce ermetico, nato nel mare dei Saggi — il nostro mercurio che Ermes chiama mare patents — alcuni l’hanno chiamato delfino e con altrettanta ragione. Il delfino, del quale vediamo emergere la testa nel bassorilievo, possiede anch’esso un significato altrettanto positivo. Il suo nome greco delfis, indica la “matrice”, e nessuno ignora che il mercurio è chiamato, dai filosofi, ricettacolo e matrice della pietra.

Questo pesce misterioso è il pesce regale per eccellenza, perché, si diceva, che era riservato alla tavola del re. Ma, in verità, questa denominazione aveva soltanto carattere simbolico, perché il figlio maggiore del re, colui che doveva a sua volta cingere la corona, aveva il titolo di Delfino, che è il nome di un pesce e, ancor meglio, d’un pesce regale».

Con questa catena allegorica, scopriamo pure il motivo tradizionale per cui soltanto il figlio maggiore — il primo (prima chiave) — del re poteva cingere la corona.

Il delfino con la testa fuori dall’acqua è pure la variante allegorica di Gesù che cammina sulle acque, come scrive San Giovanni (VI, 17 e segg.):

«Saliti su una barca salparono verso Cafarnao, dall’altra parte del mare. Erano già calate le tenebre e Gesù non li aveva ancora raggiunti. Spirando un gran vento il mare era agitato. Dopo aver remato per venticinque trenta stadi, videro Gesù camminare sul mare e avvicinarsi alla barca e ebbero paura. Ma egli disse loro: “Sono io non temete!”. Vollero allora prenderlo nella barca, e la barca subito giunse al luogo dov’erano diretti».

Tutti i testi posti sotto l’egida dell’Arte sacra, ci ricorda Fulcanelli che «appartengono alle categorie dei libri chiusi, ermetici, fatti per l’insegnamento orale, e per la comprensione dei quali sono assolutamente necessarie delle notevoli conoscenze simboliche».

Abbiamo visto che la stessa isola rappresenta il pesce. Il pesce lo si ritrova di rigore pure nelle diete rituali: nelle vigilie, il venerdì, ecc.

«Facciamo notare» aggiunge Fulcanelli «che in alcune basiliche bizantine, il Cristo, talvolta, era rappresentato come le sirene con una coda di pesce».

Per quanto riguarda la sirena ricordiamo che originariamente era rappresentata in aspetto di donna giovane e bella nella parte superiore del corpo e di uccello nella parte inferiore, soltanto in questa era il simbolismo è stato modificato, ma il significato è rimasto immutato: la fanciulla è l’immagine della prima madre che genera il pesce.

Il pesce, dunque, non è stato soltanto un simbolo importante del cristianesimo, ma anche di altre forme tradizionali, sempre per segnalare la precessione degli equinozi con riferimento all’era dei Pesci.

«Come pesce Vishnu guida sulle acque l’arca contenente i germi del mondo futuro» scrive Julius Evola «e dopo il cataclisma rivela i Veda, i quali, attraverso la radice vid, sapere, indicano la scienza per eccellenza; allo stesso modo che, paramenti sotto forma di pesce, l’Oannes caldaico insegna agli uomini la dottrina primordiale».

Continuando con le sue avventure, Pinocchio «arrivò a un piccolo paese detto “il paese delle Api industriose”. Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualcosa da fare».

Giorgio De Rienzo nota «una forte solitudine sociale, un deserto di solidarietà o anche solo di amicizia fra gli uomini di questo mondo».

«Jonathan Swift» scrive Canseliet «nel soggiorno di Gulliver a Laputa, traccia un quadro lugubre della felicità atomica; cittadini cenciosi che camminano frettolosamente nelle strade, gli occhi fissi e il volto smarrito».

Si tratta sempre dello stesso quadro millenaristico o attuale. Gli uomini cenciosi significa che sono poveri di alta scienza.

Purtroppo, afferma Krishnamurti, «la maggior parte degli esseri umani è egoista. Sono inconsapevoli del proprio egoismo; è il loro sistema di vita. E se si è consapevoli di essere egoisti, lo si nasconde con grande cura e ci si conforma al modello della società che è essenzialmente egoista».

Tuttavia, in questo paese Pinocchio tornò a incontrare la fata non più bambina ma come donna.

«Ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma».

In questo modo assumono l’interpretazione della madre dell’Opera e del bambino ermetico.

Tuttavia, i simbolismi tornano subito a intrecciarsi e Pinocchio, riprendendo il ruolo dell’uomo comune, chiede alla fata di poter crescere.

«— Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.

— Perché?

— Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.

— Oh! Sono stufo di fare sempre il burattino! — gridò Pinocchio dandosi uno scappellotto — Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo…

— E lo diventerai se saprai meritartelo…

— La vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?

— Te l’ho promesso, e ora dipende da te!».

Per Collodi un vero uomo è soltanto la persona che possiede una mente aperta, gli altri o sono burattini o animali ragionevoli.

Pinocchio pone pure alla fata la domanda fondamentale, quella di poter incontrare suo “Padre”.

«— Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?

— Credo di sì: anzi ne sono sicura».

Anche il Buddha diceva che «il fratello che con ferma determinazione cammina nel nobile sentiero, è sicuro di venire alla Luce, sicuro di raggiungere la Sapienza superiore, sicuro di conseguire la suprema beatitudine dell’Illuminazione».

Krishnamurti era della medesima idea: «Una mente che cerca vi arriva inevitabilmente, una mente che sia conscia, che osserva ciò che è in se stessa, è autocomprensiva, autoconoscente».

Tuttavia, sappiamo il motivo per cui questi personaggi della via breve erano così ottimisti, ma la scienza ermetica dà garanzie precise sul suo risultato?

«Se cerchiamo il Grande Segreto» scrive Canseliet «è, certamente, nella speranza di trovarlo. Ma, ahimè! non è necessariamente nel nostro destino che si arrivi al fine supremo e che si acceda allo stato sublime…».

Mostrandoci, come esempio, quanto accaduto al Conte de Gabalis e a De Cyrano Bergerac:

«Quale sconcertante similitudine si è verificata nella vita di questi due autori, ambedue morti prematuramente e in modo tragico, uno a 35 anni, per una terribile ferita alla testa, causata da una trave lanciata da una finestra, l’altro a 38 anni, assassinato sulla strada di Lione».

Per ricevere l’inestimabile Dono dalle mani della Natura due fattori sono determinanti: la durata della vita dell’uomo e il suo stato di maturità.

In media la Grande Opera si compie oltre i 60 ai 70 anni, ma vi sono stati Adepti come Bernardo il Trevisano e lo stesso Canseliet, che hanno superato di molto quell’età.

«La nostra», dicono i Saggi, «si tratta di una professione di fede».

E la fede di Canseliet fu messa a dura prova, tanto che all’età di 73 anni, come Adepto esposto agli occhi del mondo, scriveva:

«Già molto avanti negli anni, immaginiamo facilmente la derisione nella disgraziata eventualità che ci sorprendesse la morte senza che fossimo giunti al termine dei nostri sforzi, cioè senza che avessimo ricevuto il Dono di Dio».

Si sa che la scienza prevede la realizzazione dell’Opera al tramonto della vita dell’individuo. A questo proposito un fatto curioso accadde a Krishnamurti, egli avendo ereditato il Donum Dei a 27 anni — per via Breve — se avesse compiuto il Magistero per via lunga, lo avrebbe realizzato a 66 anni.

Infatti, a quell’età (1961), mentre si trovava proprio in Italia soggiornando in una villa presso Firenze, di proprietà di Vanda Scaravelli, questo Illuminato ebbe un’ulteriore e più grandiosa esperienza, che non soltanto caratterizzò il resto della sua vita, ma lo spinse a scrivere il suo famoso Taccuino, dove vi annotò:

«È strano come sia lontano il mondo e in quali enormi profondità io sia penetrato».

A questo punto sorge un altro spinoso problema: l’iniziazione di un individuo che ha superato gli ’anta. Infatti, questa è un’età che, per la via lunga, è da considerarsi critica, dove, come afferma Fulcanelli, «il tempo da impiegare, già notevole, diventa ancora maggiore…».

Tuttavia, anche a costoro la scienza chiede il risveglio iniziatico o dell’intelligenza. Il cambiamento totale e profondo dell’individuo.

«Per cambiamento» sosteneva Krishnamurti «non intendo una modificazione superficiale, ma piuttosto una trasformazione, un mutamento nella struttura stessa della nostra coscienza. Questo è un argomento della massima serietà. Non è cosa con cui si possa scherzare . Deve essere la nostra vita, la nostra vocazione, la nostra occupazione. Ci stiamo occupando della rivoluzione fondamentale della mente, della struttura di noi stessi nella sua completezza, perché la mente riesca a liberarsi da ogni forma di contraddizione; in modo che noi si possa essere non solamente educati, ma anche esseri umani veri, maturi e profondi».

«Pinocchio diventò serio.

— Che cosa brontoli fra i denti? — domandò la Fata con accento risentito.

— Dicevo… — mugolò il burattino a mezza voce — che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi…

— Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi».

«Che si sia vecchi o giovani» insiste Krishnamurti «è adesso che il processo della vita dev’essere trasportata in un’altra dimensione».

Una volta andato a scuola, Pinocchio, fu attirato con un trucco da sette suoi compagni svogliati sulla riva del mare.

«Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio», c’informa Collodi per farci intendere di quale mare si tratta.

In breve, Pinocchio e i sette compagni passarono alle mani.

«Il più ardito dei monelli gli gridò:

— Prendi intanto questo acconto e serbalo per la cena di stasera.

E nel dir così gli appiccicò un pugno nel capo.

Ma fu come si suol dire, botta e risposta; perché il burattino, come c’era da aspettarselo, rispose subito con un altro pugno: e lì, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito».

Si tratta di una variante allegorica dei due bambini aggressivi e battaglieri raffigurati nella cattedrale di Parigi, ma con un arricchimento simbolico. Infatti, qui sono sette contro uno, e il nostro Adepto ha cura di farci sapere che «sono sette come i peccati mortali». È una parafrasi del drago a sette teste che è impossibile uccidere con una semplice spada ordinaria, ma soltanto con una spada magica (intelligenza). Infatti, ad ogni testa abbattuta con l’uso di una spada comune, ne sorgeva prontamente un’altra.

È ciò che la maggior parte della gente chiama cambiamento, ma che in realtà si tratta di modificazione di uno stato ad un altro stato (testa).

«Se il cambiamento ha motivazione, scopo, direzione» spiega Krishnamurti «di conseguenza è solo una continuazione modificata di ciò che è stato. Tale cambiamento è privo di senso».

“Allora i ragazzi, indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai proiettili, e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il pulcino della Baccini e altri libri scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva sempre civetta a tempo, sicché i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano tutti a cascare nel mare.

Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero buoni da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo aver abboccato qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito, facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: “Non è roba per noi: siamo avvezzi a cibarci molto meglio».

«Pare che Collodi non abbia un gran rispetto per i libri altrui» nota Giorgio De Rienzo «e neppure per i suoi, se è vero che tra gli altri mette anche i Giannettini ed i Minuzzoli che ha scritto proprio lui».

I pesci ermetici si cibano di ben altri “libri”.

Il cardinale Cusano scrive che «la scienza di questo mondo, in cui si pensa di superare gli altri, è stoltezza verso Dio e, perciò, rende superbi. La vera scienza, invece, rende umile. L’intelletto, costretto dall’autorità degli scrittori, si pasce di un cibo non adatto e non naturale. Tutti coloro che per primi si dedicarono a scrivere sulla sapienza, non crebbero per il numero dei libri che allora non c’erano, ma divennero uomini perfetti per un alimento naturale. E questi furono, per sapienza, di gran lunga superiori agli altri che credono di aver fatto tanti progressi con i libri.

La sapienza grida all’aperto, nelle piazze, e la sua voce risuona perché abita nelle regioni altissime».

Lucie Lamy, trattando dell’antica cultura egizia, riporta questo profondo senso dell’antico insegnamento:

«Perché la conoscenza puramente cerebrale è peritura, come perituro è lo strumento (ais, il cervello) con cui viene acquisito».

Fulcanelli scrive in proposito:

«“Imbianca l’ottone e brucia i tuoi libri”, ci ripetono tutti gli autori migliori».

Krishnamurti, da parte sua, aggiunge:

«L’ignoranza non è la mancanza di conoscenza ma di autoconoscenza; senza autoconoscenza non c’è intelligenza. L’autoconoscenza non è cumulativa come la conoscenza, l’apprendere avviene di momento in momento.

Io non so se abbiate mai meditato su che cosa sia una buona mente. È forse quella che sa ritenere ciò che legge e funziona sulla base della memoria? La nostra istruzione è la raccolta di una massa di nozioni, e il computer fa questa raccolta più velocemente e con più precisione. È buona la mente che come un disco ripete quello che le è stato detto? Questa è l’odierna nostra educazione, imparare date per ripeterle al momento dell’esame. Che bisogno c’è di una tale istruzione? Perché dovrei portarmi nella mente i fatti? Si trovano nell’enciclopedia, nei libri, perché dovrei portarmi tutto questo nella mente?

Ma a noi piacciono le spiegazioni, il sapere. E il sapere è diventato una maledizione. Ecco, la percezione non ha niente a che fare con il sapere. Verità e sapere non vanno insieme; il sapere non può contenere l’immensità del Mistero.

Questa percezione non ha assolutamente nulla a che fare con la conoscenza, con l’esperienza; non si arriva a quest’intelligenza andando all’università».

Pinocchio, accusato di aver ferito un compagno, fu arrestato dai carabinieri. Riuscito a sfuggire, corse verso il mare inseguito da un cane che finì in acqua insieme a lui. Purtroppo il cane non sapendo nuotare chiese aiuto al burattino.

«— Aiutami, Pinocchio mio!… salvami dalla morte!…

A quelle grida strazianti, il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione».

Salvato da morte sicura, il cane gli disse:

«Addio, Pinocchio, mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione, ci riparleremo».

Questo semplice passo nasconde una verità di notevole importanza: la legge della Creazione, dove tutto ciò che si compie, in bene o in male, è reso. La veste simbolica di questa legge è indossata dalla Giustizia, il cui candore è rappresentato da una vergine che cinge una corona d’oro e indossa una tunica bianca, ricoperta d’un ampio drappeggio di porpora. La corona d’oro simboleggia la sovranità assoluta e la tunica bianca ripete la purezza (la vergine stessa). L’ampio drappeggio di porpora raffigura la bontà, la compassione, la sollecitudine: il vero senso della pietà.

 

Mentre Pinocchio nuotava nel mare fu catturato da una grossa rete di un misterioso pescatore verde che viveva in una grotta.

«Invece dei capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiù.

Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto contento:

— Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò fare una bella scorpacciata di pesce!».

La caverna della roccia, la grotta, è una variante del vaso ermetico. Conosciamo pure il significato del colore verde, la pietra dei filosofi destinata a maturare, e della barba, geroglifico del fascio luminoso proiettato verso terra.

Questo pescatore, quotidianamente, riceve la sua razione di pesce (illuminazione).

Questo passo ci ricorda il pescatore Simone, ma sappiamo pure che, costui, come qualsiasi altro comune mortale, non pesca nulla nella notte.

Infatti, i Vangeli[1][6] ci assicurano che quando i discepoli andarono a pescare, «quella notte non presero niente», ma dopo l’intervento del Cristo, essi gettarono «la rete dalla parte destra della barca, e per la gran quantità di pesci non erano più capaci di tirarla su, e riempirono due barche a tal punto che quasi affondarono».

 

Il pescatore verde, dopo aver “pescato” Pinocchio, non volendo sentire ragioni, voleva friggerlo in padella, quando il provvidenziale intervento del cane, cui poco prima aveva salvato la vita, l’affrancò da morte sicura.

«— Quanto ti devo ringraziare! — disse il burattino.

— Non c’è bisogno — replicò il cane — tu salvasti me, e quel che è fatto, è reso. Si sa in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno con l’altro».

Ricordiamo che per volontà del nostro Adepto la sua favola dev’essere letta in chiave millenaristica. Si tratta, quindi, di un preciso invito agli uomini della nuova Era.

Rievochiamo, a questo proposito, l’incomparabile parabola del buon samaritano raccontata nel capitolo X del Vangelo di Luca. Dove s’insegna che anche il “nemico” può essere il proprio prossimo, ossia, letteralmente, il più vicino.

 

Pinocchio, tornato alla casa della fata, che era di quattro piani, dopo aver bussato gli andò ad aprire, molto lentamente, una lumaca.

«La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì. Quella brava bestiola della lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore».

È la traduzione allegorica dei quattro elementi basici del Magistero, e la lentissima evoluzione della materia filosofale nel cammino dei nove gradini mistici.

 

La fata promise a Pinocchio che lo avrebbe reso un vero bambino. Per festeggiare il grande avvenimento fu pensato d’invitare tutti i compagni di scuola, «e la fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori».

Riconosciamo qui il vaso ermetico con le due nature bianco e nero (caffè e latte), ma molto più espressivo sono i panini, poiché indica che la psiche si arricchisce sia interiormente sia di notevole sapere che è propria della nostra scienza. Perciò Collodi fa notare che nell’iniziazione s’incontrano due categorie d’individui:

«Alcuni accettarono subito e di gran cuore; altri, da principio si fecero un po’ pregare: ma quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè e latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: “Verremo anche noi, per farti piacere”».

 

Il compagno prediletto di Pinocchio aveva il soprannome di Lucignolo. Il nostro Adepto fa notare che questo era dovuto al suo aspetto che «era tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte».

È la luce che arde prima dell’alba, cioè la fiamma volgare che arde nella mente dell’uomo comune.

Come si sa, costui stava attendendo un carro che lo avrebbe dovuto condurre nel Paese dei Balocchi.

Pinocchio restò assai affascinato da questa storia che attese con lui l’arrivo del carro.

«Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino… e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara!…

Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci.

Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini. Ma la cosa singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutti le altre bestie da tiro o da soma, avevano ai piedi degli stivali da uomo di vacchetta bianca».

Il carro si muove nell’assoluta riservatezza e, soprattutto, nel più assoluto silenzio o nel “mistero” (esoterismo).

Una variante tradizionale si ritrova a Monrupino, piccolo centro vicino Trieste. Alberto Di Graci, scrive che «a Monrupino, l’ultima domenica di Agosto si celebrano le “nozze carsiche”, la kràska-ohcet, in lingua slovena.

Nella notte del sabato, vigilia delle nozze, avviene l’avvio nel nome di Dio (Hodi-z-hogom) verso la nuova vita, simboleggiata dal viaggio della promessa sposa, verso la casa dello sposo, in un carro trainato da un bue, dove è collegata la dote, con ruote ricoperti di stracci, perché la gente del borgo, un tempo, non doveva né sentire né vedere».

Il numero dei ciuchini, invece, riconduce alla tradizione millenaristica, il nostro Adepto ha avuto cura di ricordare che si tratta di dodici pariglie, equivalenti a 24 ciuchini. Essi indicano i 24 secoli. Fulcanelli scrive che «simbolizza i dodici secoli che costituiscono il Regno del Figlio dell’Uomo e che succedono ai dodici precedenti del Regno di Dio».

Quindi, questo particolare brano dev’essere interpretato puramente secondo la tradizione del Chiliasmo, vale a dire, in chiave profetica.

Occhio, dunque, a quanto leggiamo ora. L’Iniziato passa a descrivere il conducente del carro:

«Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa.

Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di “Paese dei Balocchi”.

Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri, come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva ohi!, nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né libri, né scuole, né maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno.

Appena che il carro si fu fermato, l’omino si volse a Lucignolo e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo:

— Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in quel fortunato paese?

— Sicuro che ci voglio venire».

Siccome il carro era troppo pieno, Lucignolo si mise seduto sulle stanghe del carro e Pinocchio, che era ormai stato convinto pure lui, provò a salire su uno dei ciuchini che, ribellandosi, lo gettò a gambe all’aria con una musata nello stomaco, provocando un coro di risate negli altri ragazzi.

«Ma l’omino non rise», ci dice Collodi. «Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro.

Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato, schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale.

Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò tutt’e due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada sopra un monte di ghiaia.

Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di ridere, si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello, che, con un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al burattino:

— Rimonta pure a cavallo e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi e spero di averlo reso mansueto e ragionevole».

Questo particolare trova la sua variante in una scena simbolica che si può ammirare a Notre-Dame di Parigi.

Si tratta, scrive Fulcanelli, di «un motivo raffigurante un cavaliere disarcionato che si aggrappa alla criniera d’un focoso cavallo.

Il cavallo, simbolo di rapidità e leggerezza, indica la sostanza spirituale; il suo cavaliere indica la pesantezza del corpo grezzo. Ad ogni ripetizione il cavallo disarciona il suo cavaliere, il volatile abbandona il fisso; ma lo scudiero riassume nuovamente il comando, e così fin quando l’animale estenuato, vinto e sottomesso, acconsente a portare quel fardello ostinato e non può più liberarsene».

Finalmente vi fu la partenza, «i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come un ghiro e l’omino seduto a cassetta, canterellava fra i denti:

Tutti la notte dormono

E io non dormo mai…

La mattina, sul far dell’alba, arrivarono felicemente nel Paese dei Balocchi».

Quest’altro paese prefigura ancora meglio i nostri tempi. Abitato soltanto da “bambini” che amano giocare dalla mattina alla sera in un chiasso assordante, è l’immagine eloquente degli attuali rumori del mondo.

«Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli dappertutto. chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali… Insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi.

Su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci! (invece di balocchi): non vogliamo più shole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili».

Tra le innumerevoli forme di svago che sono sorte a dismisura in questo mondo, Canseliet denuncia quelle della «radio o la televisione, dove in un ambiente dolciastro o eccitante, si forniscono a sazietà voci smorte, urla, frenesia, chitarre ed english. Col pretesto della Cultura e sotto la bacchetta autoritaria di alcuni specialisti vanitosi e burloni, per lo più fioriscono una fraseologia che stordisce e una dialettica completamente priva di sostanza, entrambe con l’unico scopo della beata sterilità di cervelli in delirio».

Mentre Pinocchio continuava a giocare nel Paese dei Balocchi, cominciò a crescergli le orecchie.

«Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando si poté scorgere che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule».

La mancanza di orecchie nel burattino è simbolo di mancanza di ascolto, cioè, come diceva Krishnamurti, dell’arte di ascoltare.

Quando Pinocchio e Lucignolo si scoprirono tutte e due con le orecchie asinine, «invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.

E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo».

«La parola umorismo» affermava Krishnamurti «significa realmente ridere di sé. Abbiamo tante lacrime nei nostri cuori, tanta infelicità, da poter guardare in noi stessi e ridere, osservare con chiarezza e con serietà e tuttavia ridere, se è possibile».

Così, tutti e due furono trasformati in due ciuchini proprio come quelli che tiravano il carro dell’omino, che procedeva nel silenzio, o nel mistero (religione), il cui  piccolino e soffocato squillo di trombetta è proprio degli ordini religiosi, nel loro modo di fare, nella loro caratteristica riservatezza, mostrando pure un’eccessiva severità, dietro una maschera di dolcezza, verso quelli che tirano il carro.

La causa che tutti i “bambini” che vanno col carro diventano somari, dipende proprio dalle religioni organizzate, specie in questi ultimi tempi, dove esiste l’insegnamento di uno dei rarissimi eletti della Sapienza (Ars brevis), insegnamento che è lo specchio della filosofia ermetica liberata dai simbolismi.

«E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva una fisionomia tutta latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel Paese dei Balocchi, perché passassero tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiare mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario».

«I riti, gli abiti, le continue ripetizioni, le preghiere, è religione questo?»  Chiede Krishnamurti «O si tratta di grandi affari? Nell’India del Sud c’è un tempio che guadagna un milione di dollari ogni tre giorni. Capite che cosa sto dicendo? Ogni tre giorni quel tempio prende un milione di dollari. E chiamiamo questa religione. È religione questa?».

 

Pinocchio, venne in seguito venduto al padrone di un circo, e dovette imparare a spiccare “salti” e a “danzare” in modo che questi potesse guadagnare molti soldi.

Collodi, come al solito, non si limita soltanto a risaltare le istituzioni religiose, ma anche quelle politiche che, insieme, governano i somari.

«Ciò è ovvio perché siamo noi che abbiamo fatto questa società» continua Krishnamurti «questo mostruoso, brutto, immorale mondo in cui viviamo. È diventato un grande circo, un circo di dolori, o un circo di piaceri.

Ciò che l’uomo ha fatto all’uomo non ha limiti. L’ha torturato, l’ha bruciato, ucciso; l’ha sfruttato in ogni modo possibile, religioso, politico, economico.

Questa è stata la storia dell’uomo nei confronti dell’uomo; l’intelligente sfrutta lo stupido, l’ignorante».

L’Adepto risalta pure il discorso che il direttore del circo rivolge al pubblico: uno sproloquio fatto di frasi sofisticate e di non senso totale.

In un testo scolastico leggiamo sul linguaggio dei politici:

«È sempre più raro ascoltare discorsi politici netti, precisi, puliti, chiari, in una parola, “comprensibili”. Addirittura si è arrivati all’interpretazione del linguaggio di taluni parlamentari, come si fa per Omero, Dante, Shakespeare!

Molti scrittori hanno espresso, nelle loro pagine, un giudizio severo su quest’abitudine certamente non corretta e non civile degli uomini politici; a volte, ricordatevi, l’ironia è più feroce di una predica».

L’intera situazione di questo circo che è il mondo, ce lo espone assai bene ancora Krishnamurti:

«C’è l’esercito, circondato dal muro dell’autointeresse; e l’uomo d’affari, chiuso nella sua torre di vetro e acciaio; e la massaia, che sfacchina per la casa aspettando il marito e i figli. C’è il sovrintendente di museo e il direttore d’orchestra, e ciascuno vive dentro un frammento di vita, e ogni frammento diviene straordinariamente importante, senza alcun rapporto, anzi in contraddizione con gli altri frammenti, e ha i suoi onori, la sua dignità sociale, i suoi profeti. Il frammento religioso non ha rapporti con la fabbrica, e la fabbrica non ha rapporti con l’artista; il generale non ha rapporti coi soldati, come il prete non ha rapporto con il laico. La società è composta di questi frammenti, e i cari benefattori e riformatori tentano di cucire insieme i pezzi rotti. Ma mediante queste separative, rotte, specializzate, l’essere umano va avanti con le sue ansie, le sue apprensioni, la sua colpa. In questo siamo tutti in rapporto fra noi, non nei nostri campi di specializzazione.

Nella cupidigia, nell’odio e nell’aggressione comuni, gli esseri umani sono in rapporto fra loro e questa violenza edifica la cultura, la società in cui viviamo. Sono la mente e il cuore che dividono — Dio e l’odio, l’amore e la violenza — e in questa dualità l’intera civiltà dell’uomo si espande e si contrae».

 

Durante uno dei salti nel circo, il ciuchino Pinocchio rimase azzoppato.

«La mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita.

Allora il direttore disse al suo garzone di stalla:

— Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo.

Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di stalla:

— Quanto vuoi di cotesto ciuchino zoppo?

— Venti lire.

— Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese».

Il compratore mise un macigno al collo del ciuchino e lo buttò in mare per affogarlo, ma i pesci divorarono la pelle d’asino del quale il burattino era avvolto.

Canseliet scrive che «anche la focaccia di Pelle d’Asino, dei racconti di Perrault, o di Mamma Oca, appare come un simbolo della stessa sostanza in seno alla quale si sviluppa lentamente e pazientemente l’embrione minerale.

Nel racconto allegorico, non riservato soltanto ai bambini, ma anche e soprattutto ai piccoli, a quei parvuli che Cristo comanda che si lascino avvicinare a lui, la focaccia è fatta da Pelle d’Asino, e quindi proviene da questa principessa, invero, meravigliosamente bella».

Ritirato fuori dall’acqua il ciuchino, il compratore si ritrovò legato il burattino che gli disse:

«Caro padrone, questa volta avete fatto i vostri conti senza la Fata…

— E chi è questa Fata?

— È la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi e non li perdono mai d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia, anche quando questi ragazzi, per le loro scapataggini e per i loro cattivi portamenti, meriterebbero di essere abbandonati e lasciati in balìa a se stessi».

È lo stesso significato delle parole dell’Eterno, riportate dal profeta Isaia (XLIX, 15): «Può una donna scordarsi del suo nato? Di aver pietà del figlio del suo ventre? Ma anche se una donna si scordasse — IO NO — Io non mi scorderei».

 

Dopo quelle parole Pinocchio si rituffò in mare sfuggendo, così, al compratore.

«Fatto sta che in un batter d’occhio si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi più: ossia, si vedeva solamente sulla superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe fuori dell’acqua e faceva capriole e salti, come un delfino in vena di buonumore.

Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo bianco: e su in cima allo scoglio, una bella Caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di avvicinarsi.

La cosa più singolare era questa: che la lana della Caprettina, invece di esser bianca, o nera, o pallata di due colori, come quella delle altre capre, era invece turchina, ma d’un color turchino sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina».

«Questa giovane capra» insegna Fulcanelli «non è altro che il mercurio filosofico, nato dall’alleanza dei principii dello zolfo e del mercurio, e che possiede tutte le facoltà richieste per diventare il famoso ariete dal Vello d’Oro, il nostro Elisir».

Lo scoglio sulla quale si trovava la capra, non si tratta d’altro che di quei «blocchi rocciosi emergenti dall’oceano» aggiunge Fulcanelli «raffiguranti l’acqua grossolana e solidificata».

Collodi ha cura di avvertirci che era come marmo bianco, per indicarci che la purificazione della grossolanità superficiale era avvenuta.

 

Mentre si trovava ancora in acqua, Pinocchio venne inseguito da un mostro marino.

«E sapete chi era quel mostro marino?

Quel mostro marino era né più né meno quel gigantesco Pesce-cane, ricordato più volte in questa storia, e che per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato “l’Attila dei pesci e dei pescatori”. Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta».

Il mostro marino raggiunse Pinocchio e lo inghiottì.

«Il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, batté un colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.

Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro. Stette in ascolto e non senti nessun rumore: solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva moltissimo d’asma, e quando respirava, pareva proprio che tirasse la tramontana».

Nella Bibbia (Giona, II, 1), leggiamo:

«Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti».

Il neofita, divorato dalla scienza, precipita nel buio totale, poiché sono state spente le luci della mondanità della sua esistenza primitiva. Nonostante questo riceve sempre dell’aria, variante dell’acqua viva.

Anche nei Vangeli[1][7] leggiamo che «venuto mezzogiorno si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù esclamò a gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

È il melius spe licebat dell’anonimo Adepto di Dampierre.

Di questo si parla pure nelle avventure del Santo Graal. Evola scrive che «una delle avventure più notevoli è quella del Castello delle Meraviglie — Chastel Mervil — di cui in Wolfram è detto: “I combattimenti che fin qui avete affrontato non erano che giochi da bambini. Vicende angosciose ora vi attendono”. In molti casi, il castello, dopo che l’eroe l’ha raggiunto e l’ha visitato, sparisce di colpo ed egli si trova su una spiaggia deserta o in una foresta».

Infatti, lo studiare i simboli ermetici è stato un gioco da ragazzi, e una volta trovata la verità (castello), questa sparisce, cioè non si è certo realizzata l’Opera, lasciando l’ermetista piuttosto deluso del risultato ottenuto.

Krishnamurti dice che «se vi rammaricate di aver perso tutto senza aver guadagnato nulla, significa che non avete capito, e mostrate di persistere nella strada dell’affermazione del sé che porta verso la destinazione da essa stessa segnata: l’autodistruzione, la solitudine, l’immaturità. Ma se vedete questa strada per ciò che realmente è, non solo alla fine, ma al principio — che, del resto, è identico alla fine — diventerà impossibile per voi camminarvi sopra.

Una volta conosciuto il pericolo può capitare che vi mettiate piede in un momento di disattenzione, ma ve ne ritrarrete immediatamente. Vederne lo squallore desolante significa abbandonarla.

Perciò quel che avete da fare è vedere che specie di strada sia, dove conduca, che rischio rappresenti; vedere, e già camminerete in un’altra direzione. Questo intendiamo quando parliamo di consapevolezza, rendersi pienamente conto dell’esistenza e del significato di una simile strada, percepire i mille movimenti della vita che, pur sembrando diversi, portano sul medesimo cammino. E non tentare di scoprire o di trovarsi sull’altra strada, perché si resterebbe in quella solita.

Non si può vedere quello che dovete fare, ma soltanto quello che non dovete fare. La totale negazione del vecchio è il cominciamento del nuovo. La nuova strada non si trova su una mappa; non può essere segnata su alcuna. Tutte le mappe indicano soltanto le strade vecchie, le strade sbagliate».

Gli studenti di secondo grado si trovano veramente in una situazione assai delicata. Molte allegorie fanno riferimento a questo fastidioso periodo del Magistero, dal quale dipende la futura Pietra Filosofale.

Filalete conferma:

«Noi che abbiamo lavorato e che conosciamo il procedimento, sappiamo certamente che non esiste lavoro più noioso della seconda operazione. Per questa ragione Morien avvertì il re Calid che molti saggi si lagnavano sempre della noia che quest’opera procurava loro… E ciò che ha fatto dire al celebre autore del Secret Hermètique che il lavoro richiesto per la seconda operazione era una fatica d’Ercole».

 

«Pinocchio, sulle prime, s’ingegnò di farsi un poco di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino allora cominciò a piangere e a strillare: e piangendo diceva:

— Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?».

Dopodiché, «parve a Pinocchio di veder lontan lontano una specie di chiarore.

— Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? — disse Pinocchio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.

E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto che gli pareva di essere a mezza Quaresima.

E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.

A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un’ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare: Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!».

Senza dubbio di Collodi possiamo dire le stesse parole che Fulcanelli indirizzò all’anonimo Adepto di Dampierre, scrivendo che i suoi «emblemi alchemici classificano il nostro Adepto tra i Maestri sconosciuti più istruiti sui misteri dell’Arte sacra».

Infatti, soltanto questo passo nasconde un vero tesoro per un decifratore d’enigmi, e confermano, se mai fosse necessario, la provata abilità del nostro Adepto.

Pinocchio incomincia a camminare mettendo un passo dietro l’altro. L’importanza delle ripetizioni della dottrina è tale che non esiste altro per uscire dal caos bianco.

«Apprendiamo anche, in modo che lo studente non ignori nulla della pratica», scrive Fulcanelli «che questa separazione o sublimazione dello spirito, deve farsi progressivamente e che bisogna ripeterla tante volte quanto lo si riterrà necessario».

Qui il Maestro fa intendere un altro particolare fondamentale, infatti, precisa che «queste reiterazioni potranno essere rinnovate tante volte quanto lo permetterà la materia».

Cioè, senza imbottire inutilmente la testa di nozioni.

Collodi, per far comprendere in quale via cammina Pinocchio, ricorda la mezza Quaresima.

La Quaresima, caratterizzata da veglie e digiuni, esprime assai bene il lungo lavoro filosofale e, specie nei primi tempi, fastidioso, per questo motivo divenuto sinonimo di cose, persone, discorsi noiosi: «Lungo come una Quaresima».

La mezza Quaresima indica la fine della seconda operazione ermetica. Diversi rituali popolari ricordavano questo importante punto della Grande Opera. Senza dubbio, quello più importante è il Segavecchia di metà Quaresima, in cui un fantoccio rappresentante una vecchia — la nostra Madre pazza — viene legata e tagliata esattamente a metà.

«Questa festa antichissima» spiega Alfredo Cattabiani «si svolge nel cuore della Quaresima, al quarto giovedì».

Franco Cardini ci assicura che «la vecchia si brucia ancora a Castel del Rio, tra Firenzuola e Imola, e bruciature o segamenti di vecchie, si avevano un po’ dappertutto, da Verona a Brescia, alla Romagna, alla Toscana, all’Umbria fino a Palermo, dove sin l’inoltrato XVIII secolo, c’era la Sirrata di la Vecchia, segata in due parti uguali, da dove uscivano dolci, frutta secca e così via».

«Il verbo greco príô» spiega Fulcanelli «significa sia segare, tagliare con la sega, sia stringere, serrare, legare fortemente. Poiché è contemporaneamente segata e stretta, dobbiamo pensare che l’ideatore di queste immagini abbia voluto indicare chiaramente il metallo e l’azione solvente esercitata su di esso».

Segare, quindi, significa tagliare, separare il sottile dal grossolano. E la cosa risulta facile se l’illuminazione ha fatto una buona presa (serrato fortemente) sulla psiche.

Soltanto in questo modo si può sperare di giungere al chiarore dov’era diretto Pinocchio. E più andava avanti e più il chiarore aumentava di splendore.

La realizzazione della seconda operazione è simboleggiata dal ritrovamento del padre vestito di bianco. Egli si cibava di pesciolini assai vivi, ci dice Collodi, per far intendere l’acqua viva. La candela che illuminava la scena era infilata in una bottiglia di cristallo verde.

A questo proposito faremo notare che la base delle candele era usanza, una volta, dipingerle di colore verde, eloquente immagine della base della nostra Opera. Da qui deriva la popolare espressione di «essere al verde». La fiamma della candela arde e disgrega la restante grossolanità.

Tra il vegliardo e Pinocchio vi fu un lungo abbraccio con la sicura promessa che non si sarebbero mai più lasciati. Indicando, così, l’indissolubilità del mercurio filosofico e base tangibile della nostra pietra.

Dopodiché, Pinocchio e Geppeto decisero di fuggire uscendo dalla bocca del mostro marino.

«Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormir a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.

— Questo è il vero momento di scappare, — bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. — Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me e fra poco saremo salvi…

Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti. Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo:

— Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io.

Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata».

Giorgio De Rienzo scrive che questo «è un passaggio che ha fatto pensare (così ha scritto il Trompeo) ad “Ulisse che esce dall’antro di Polifemo”, nell’Odissea».

E l’analogismo osservato da Trompeo è esatto. Ulisse uscì dall’antro mentre era aggrappato al ventre dell’ariete ermetico, mentre Pinocchio, come il dio-pesce Vishnu[1][8], nuota portando su di sé il seme della vita, variante dell’arca che porta il seme di tutti gli esseri viventi. È la traduzione nascosta della materia preparata che si allontana dalla rozza materia nella calma della notte mistica, col favore della luna, la nostra luna ermetica variante dell’acqua viva. Parmenide scrive che «quindi a buon diritto la nostra acqua Divina è chiamata la “chiave”, la “luce”, “Diana” che rischiara le tenebre della notte. Perché essa è l’ingresso di tutta l’Opera, la porta che illumina ogni uomo».

A questo punto il nostro Adepto, per far meglio intendere i tre principii ermetici, fa andare in soccorso dei due un tonno che, prendendoli in groppa, li portò felicemente a riva.

Una volta a riva incontrarono il gatto e la volpe caduti «nella più squallida miseria».

Pinocchio ricordò loro la grande legge della Creazione:

«Se siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice: “I quattrini rubati non fanno mai frutto”… Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: “La farina del diavolo va tutta in crusca”. ».

Più tardi tornò a incontrare pure il grillo parlante, e questa volta la grande legge fu per lui.

«— Oh! mio caro Grillino, — disse Pinocchio salutandolo garbatamente.

— Ora mi chiami il “tuo caro Grillino”, non è vero? Ma ti rammenti di quando, per scacciarmi di casa tua, mi tirasti un martello di legno?…

— Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me… tira anche a me un martello di legno: ma abbi pietà del mio povero babbo…

— Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma ho voluto rammentarti il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.

— Hai ragione, Grillino, hai ragione da vendere e io terrò a mente la lezione che mi hai data».

 

Pinocchio andò a lavorare da un ortolano girando il bindolo del suo pozzo, per procurare del latte al suo vecchio padre.

Egli estraeva, così, l’acqua dal pozzo dei filosofi che trasformava in latte.

Quella sorgente, spiega Fulcanelli «la mitologia la chiama Libertha e ci racconta che era una sorgente di magnesia, e che nelle vicinanze c’era un’altra sorgente chiamata la Roccia. Ambedue scaturivano da una grossa roccia la cui forma somigliava a un seno di donna; di modo che l’acqua sembrava colare da due mammelle come se fosse latte».

«— Finora questa fatica di girare il bindolo, — disse l’ortolano, — l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.

— Mi menate a vederlo? – disse Pinocchio.

— Volentieri.

Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro.

Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi:

— Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova!

E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:

— Chi sei?

A questa domanda, il ciuchino aprì gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:

— Sono Lu…ci…gno…lo.

E dopo richiuse gli occhi e spirò.

— Oh! povero Lucignolo! — disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso».

«L’inutilità di una vita sciupata» diceva Krishnamurti «della quale ci rendiamo conto soltanto nell’ora della morte, ma allora sarà troppo tardi. L’assoluta mancanza di significato di una vita spesa in un ufficio o in una fabbrica. Andare per cinquant’anni in ufficio, un giorno dopo l’altro, e alla fine… la morte».

 

A questo proposito, congediamoci qui una breve digressione.

Una ventina d’anni fa un vecchio scrisse su un periodico, affermando che quando era bambino, mentre si trovava nella culla, vedeva sulla parete di fronte un essere come un piccolo gnomo che tutto un tratto s’ingrandiva fin quasi ad occupare l’altezza della parete.

Queste visioni si ripeterono più volte, e lo spaventarono talmente che se le ricordò per tutta la vita.

Così, nella sua vecchiaia, sebbene non l’avesse mai detto a nessuno, si decise a scrivere ad un giornale nella speranza di avere finalmente una risposta alla questione che l’assillava da anni.

L’immagine ricorrente che vedeva era una proiezione della sua mente e fa parte del condizionamento collettivo, come nei sogni. La simbologia onirica, infatti, è composta in gran parte d’immagini appartenente al condizionamento collettivo, e altre a quello individuale.

«In realtà accade questo strano, irrevocabile fatto» afferma Krishnamurti «che noi siamo tutti fatti dello stesso stampo, che facciamo esperienza della stessa angoscia, speranza, paura, morte, solitudine che causano una tale disperazione. Così voi siete l’intera umanità».

Siccome gran parte della simbologia del nostro patrimonio culturale è ermetica, così lui vedeva uno gnomo.

Lo gnomo, come abbiamo visto, è uno dei tanti simboli con cui i Saggi hanno indicato la loro materia adatta a compiere la Grande Opera. È presentato piccolo e deforme proprio perché deve ancora compiere la sua evoluzione.

Françoise D’Eaubonne scrive che secondo la leggenda «i nani prepararono i loro pasti nei fori dei menhir». Perché i nani o gli gnomi debbono svilupparsi.

Quindi, il significato del messaggio che tanto ha assillato quel povero vecchio era semplicemente fondamentale.

Il suo stesso essere lo invitava con tutta l’importanza della situazione. Cioè lo invitava, ora che era tornato per l’ennesima volta a reincarnarsi, a non sciupare più un’esistenza come aveva sempre fatto, ma di compiere lo scopo dell’esistenza, che è quella di realizzare la Grande Opera.

Per concludere, un amico di chi scrive gli ha assicurato che un uomo che viveva nella sua stessa cascina, da bambino vedeva spesso di notte delle persone di bassa statura che si recavano con un secchio a prendere l’acqua nel pozzo: la nostra acqua viva, cioè proprio come faceva Pinocchio.

 

Così, Pinocchio ora, sistematosi in una capanna, si occupava del suo babbo.

«Fatto sta, che con la sua buona volontà d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di più aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo».

Quando seppe che la stessa fata era malata, aumentò il lavoro per curarla, intanto le inviò i quaranta denari che gli sarebbero serviti per comprarsi il vestito nuovo.

«Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse così.

— Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice.

A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò con tanto d’occhi spalancati.

Ora immaginatevi voi quale fu la sua maraviglia quando, svegliandosi, si accorse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.

Appena si fu vestito gli venne fatto naturalmente di mettere la mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste parole: “La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore”.

Aperto il portamonete, invece dei quaranta soldi di rame, vi luccicavano quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca.

Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose.

In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva più nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti.

— E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?

— Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.

Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:

– Com’ero buffo, quand’ero un burattino!… e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…».

Tutto l’insegnamento del grande Adepto Collodi consiste nel trasformare un burattino in un uomo. Essendo un’istruzione improntato al millenarismo, il suo insegnamento non si estende fino alla Pietra Filosofale, ma si limita all’elaborazione della pietra dei filosofi.

L’essere umano deve finirla di essere una marionetta e diventare un vero uomo, maturo, profondo e ricco di bontà.

Questo dovrà essere l’uomo muovo del Chiliasmo, o della nuova Era.

Bibliografia essenziale

Canseliet, Eugène, L’Alchimia, simbolismo ermetico e pratica filosofale, Roma, Edizioni Mediterranee, 1985.

Canseliet, Eugène, L’Alchimia, spiegata sui suoi testi classici, Roma, Edizioni Mediterranee, 1985.

Canseliet, Eugène, Due luoghi alchemici, Roma, Edizioni Mediterranee, 1998.

Cardini, Franco, I giorni del sacro, Milano, Editoriale Nuova.

Cattabiani, Alfredo, Calendario, le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Milano, Rusconi Libri S.p.A., 1988.

Cocteau, Jean, I cavalieri della Tavola Rotonda, Edizioni Canesi, 1963.

Collodi, Carlo, Le avventure di Pinocchio, Milano, Edizioni CDE, 1990.

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Stano, Giovanni, Dizionario di miti, leggende, costumi greco-romani, Milano, Signorelli Editore, 1930.

 

[1][1]Nel 10450 a.C. eravamo entrati nell’era astronomica del Leone da 510 anni.

[2][2]«Quando si perde l’intimo contatto con la natura — scrive Krishnamurti — chiese, moschee e templi, diventano importanti».

[3][3]Inferno, cap. I, vv. 76 e segg.

[4][4]Inferno, cap. I, v. 1.

[5][5]Inferno, cap. I, v. 7.

[6][6]Luca, cap. V, vv. 5 e segg.; Giovanni, cap. XXI, vv. 3 e segg.

[7][7]Matteo, cap. XXVII, vv. 45-46; Marco, cap. XV, vv. 33-34.

[8][8]È chiaro che quanto fu scritto l’Odissea, il segno dominante era l’Ariete.

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