LA FIGURA DEL PADRE

                          LA FIGURA DEL PADRE

NEL PENSIERO INTIMO DI UN MAESTRO LIBERO MURATORE

di   C. S.

                                                     A mio padre

                                               …ai miei padri

…poi…Ettore…baciò il caro figlio

e lo levò in alto, pregando Zeus…

 

(Iliade; VI, 474-475)

 

PREMESSA

Il 28 aprile 2011, a Massa Marittima, durante i lavori della RL “N. Guerrazzi” all’Oriente di Follonica, per il passaggio di grado di Paolo R., a Maestro, figlio del fratello Eros, mi rivolsi a tutti i fratelli, con voce tremante per l’emozione del gioioso evento, rallegrandomi e congratulandomi con suo padre, che sedeva proprio dietro di me, per aver assimilato così bene i principi massonici da essere riuscito a trasmetterli con successo alla persona più cara, a suo figlio. Con l’iniziazione al grado di Maestro – aggiunsi – il fratello Paolo avrebbe acquisito oltre al padre biologico un altro padre, un padre spirituale, simbolico, un archetipo mitologico“ Abif –Hiram”.  Abif, infatti, vuol dire padre mentre il significato letterario del nome Hiram indica “vita elevata” e ciò che è elevato è lo spirito dell’uomo. (Il nome è composto dalla radice ebraica “Chi” che significa “vita” e dalla  radice “Ram” che significa un particolare “stato di elevazione”). Inoltre, rilevai che anche la parola Sacra del grado di Maestro: M.B. ( Mach-Benach) o MoaBon significa: “dal Padre” o “ figlio del Padre” ed indica che tutti i maestri si riconoscono come figli di Hiram, di cui si devono sforzare a imitare le virtù. Altri la interpretano con: “seme del Padre”, svelando il Mistero Massonico fondamentale della Natura, quello della morte e della rinascita; il seme che muore genera la pianta che nasce. Altri ancora dicono che significa: “figlio della putrefazione”, esprimendo a pieno il significato esoterico del grado di Maestro, cioè che dopo la morte, la parte migliore dell’uomo si distacca dal suo corpo, dalla sua” Esuvia”, lasciando questo mondo e librandosi nei Cieli.

INTRODUZIONE

Questo breve intervento è stato per me fonte di meditazione ed è stato lo stimolo all’elaborazione di questa tavola. Essa è stata scritta prevalentemente nel silenzio della notte e nel buio, le parole pesano il doppio. L’etimologia di meditare – diceva Giacomo Leopardi nello “Zibaldone” – deriva dal latino “medeor”, che significa “curare”. Così mi sono “preso cura” di questo tema, cercando di approfondire la figura del padre,  sia carnale sia del padre simbolico.  Il tema sulla funzione simbolica del padre…dei padri, in questa epoca post-moderna, sembra essere di grande attualità, perchè stiamo assistendo a una “evaporazione della figura paterna”, com’è stata definita dallo psicanalista Jacques Lacan. La debolezza del padre è socialmente esplosiva, così com’è altrettanto vero che la debolezza della società e della politica è esplosiva per l’equilibrio profondo dei cittadini. I sociologi e gli educatori fanno risalire le attuali rivolte sociali (Le Banlieue, Parigi 2008; Totthenam, Londra 2011) così dette: dell’”anticittà verso la città”, proprio all’espandersi di grandi masse di giovani che non hanno goduto di modelli autorevoli né familiari, né sociali, capaci di governarne ed indirizzarne desideri e pulsioni. Da quando i “padri” si sono eclissati, i “figli” sembrano che non abbiano trovato di meglio che consegnare selvaggiamente la propria vita all’incultura e alla violenza. Negli anni sessanta e settanta si protestava contro i padri, quella attuale invece è una rivolta in assenza di padri, senza obiettivi definiti. Le ribellioni di un tempo erano suggerite dalla speranza; queste nascono dalla disperazione. Chi svolge oggi, in assenza di padri, la funzione di guida? Che resta del Padre aldilà del suo ideale? Che cosa si eredita veramente dal padre carnale o dai padri con funzione puramente simbolica?

LA FIGURA DI MIO PADRE

Sorprendentemente, non ricordo più il volto di mio padre, eccetto quelle rare volte che inaspettatamente mi appare inconsciamente allo specchio, quando mi faccio la barba, confondendosi con la mia immagine riflessa. Forte, è invece il ricordo dell’odore della sua pelle, quando da bambino mi stringeva a sé nell’incavo ricurvo della sua clavicola, nei caldi pomeriggi estivi, abbracciandomi per farmi addormentare. E il suo amorevole modo di tenermi in collo, quando nelle notti insonni, senza mai lasciarmi la mano, ascoltava ripetutamente con l’orecchio, appoggiato sul mio torace, il mio corto e fischiante respiro. E il pallore della sua mano immobile e ossuta, che con un inspiegato imbarazzo esitavo a stringere, qualche giorno prima della sua morte, solcata da sottili vene grigio-azzurre, che trasparivano sotto la fragile pelle, e spostavo delicatamente a destra e a sinistra con i lenti movimenti delle mie dita. E l’immagine che si stagliava sullo sfondo grigio-nero della morte, della sua figura magra, ricurva, instabile, apparentemente disarticolata. La malattia e la morte del padre sono sempre un momento cruciale della nostra vita, lasciano un segno indelebile. Comunque la funzione simbolica del padre trascende il suo corpo, la sua fisicità e continua in modo illimitato durante tutta la nostra misteriosa avventura umana.

Proprio per questo motivo la morte ha meno potere di quello che si creda, continuo ad avere con lui, grazie alla preghiera, momenti di vicinanza. Mi viene da chiedere che cosa ho ereditato da mio padre e quali sono stati i suoi insegnamenti. Mio padre era il “mago” della mia infanzia, non solo perché mi divertiva con le sue magie, che ripeteva in ogni occasione gioiosa durante cene con gli amici o durante alcune lunghe conviviali come i matrimoni; ma anche perché mi costruiva giocattoli, marchingegni strani e aquiloni. Nelle serate tiepide d’inizio estate andavamo a vedere le lucciole nei chiari campi di grano appena germogliati, che brillavano come alberi di Natale, e parlavamo sottovoce guardando le stelle. Mio padre non mi ha mai insegnato nulla in modo diretto, non mi ha mai dato specifiche raccomandazioni, anzi prezioso è stato talvolta il nostro reciproco silenzio. Mio padre mi ha donato: la gioia e l’allegria del vivere; l’orgoglio del nome e dell’appartenenza; il coraggio e la capacità di lottare contro gli eventi malvagi; il rispetto e la solidarietà per le persone prossime a noi; la coerenza con noi stessi; la modestia; la sobrietà; la caducità; la fatalità. Conosco perfettamente, grazie a lui, che lo spirito soffia dove vuole e che chiunque, non solo una persona come noi, ma anche un genio, può cadere da un momento all’altro e diventare una nullità assoluta. La formazione di un individuo spesso è discontinua; la misura può essere raggiunta talvolta solo passando dalla dismisura e chi non si è mai perduto non sa cosa significa ritrovarsi. Da lui ho imparato un concetto, per me molto importante, quello dell’obbedienza e della disobbedienza. Quello di seguire la propria coscienza, obbedire a ciò che riteniamo giusto e non a ciò che riteniamo ingiusto. Questo ritengo che sia è un esercizio di libertà, di autonomia, di sovranità su se stessi. Non dovrebbe mai esserci un’obbedienza ceca, acritica, altrimenti questa si trasforma in schiavitù. Dovremmo avere una forza di volontà tale da non agire mai contro la nostra coscienza, ma qualora sia necessario, obiettare e indignarsi. Per esempio ricordo una volta che mio padre prese un’improvvisa e imprevista decisione, obbedendo solo a se stesso, rimandandomi amorevolmente a letto all’alba di un fine settembre, dicendomi che non partivamo più per Genova, dove avevamo già organizzato il mio arrivo in un Collegio, per frequentare il liceo. Per me, oltre a darmi una gioia immediata, quel suo comportamento fu straordinario. In quel momento avevo compreso cosa voleva dire essere padre.  Egli non era un cattolico praticante, ma dava comunque molta importanza al senso del sacro. Ricordo i momenti che trascorrevamo in silenzio davanti ai presepi che profumavano di borraccina che lui senza discontinuità mi costruiva ogni Natale, con personaggi in movimento, con luci dai colori delicati che sfumavano, passando lentamente dal celeste al giallo, dall’arancione al rosso, fino al blu scuro della notte e per poi ritrovare il chiarore della luce. E quando entravamo nelle Chiese vuote solo per sentire il fascino sublime, anche se per pochi istanti, del loro parlante silenzio. La morale cattolica è entrata in me con un percorso del tutto personale. Lungo questo cammino i valori fondanti comuni a quelli del cristianesimo, come l’Essere Supremo, la sacralità della vita, la fratellanza, la giustizia, l’amore, hanno assunto un particolare significato man mano che ho interiorizzato i Principi Iniziatici; essendo la Massoneria e la Religione, due entità nettamente diverse: l’una basata sul “Libero Pensiero”, l’altra sulla “Verità Rivelata”. Non ricordo chi mi ha insegnato a pregare e mi chiedo come padre, se è giusto insegnare ai figli a pregare. Cosa significa pregare. Io penso che la forza di una preghiera continui a svolgere un ruolo positivo, proprio in questo momento storico caratterizzato non solo da un venir meno della figura paterna ma da una crisi di modelli e di valori. Sigmund Freud, evocando la fede nella ragione, è critico nei confronti di ogni religione e la preghiera, secondo lo psicanalista, è solo un’illusione. Sollecitare i nostri figli alla preghiera, allora vorrebbe dire illuderli verso un Dio che non esiste; come dice Sartre: <<Dio non risponde, il Padre tace, il cielo sopra le nostre teste è vuoto>> o come scrive José Saramago – premio Nobel per la letteratura-: <<Dio…Dov’è? Un tempo si diceva: in cielo. Ma il cielo non esiste. Cos’è il cielo? Spazio. I confini dell’universo sono oltre 13 miliardi e 700 milioni di anni-luce…Dov’è Dio? Chi vuol crederci ci creda. Io dico ad alta voce “no” >>.  Sulla stessa scia anche il premio Nobel per la fisica Stephen Hawking ha dichiarato recentemente, sulla stampa internazionale (17 maggio 2011), parlando di Dio che: <<…è come una favola per gente che ha paura del buio>>. Sarà che io ho paura del buio… ma credo che la preghiera sia utile perché essa preserva il luogo dell’“Altro”, che va oltre il nostro io e oltre il nostro padre carnale. Non so chi sia quest’“Altro” al quale rivolgiamo le nostre preghiere, i nostri ringraziamenti, i nostri dubbi, le nostre paure, le nostre speranze. La preghiera non è mai un soliloquio, ma sempre un movimento di pensiero, un dialogo verso “l’Altro”. Mi piace, aldilà di qualsiasi ragionamento razionale, preservare questo spazio di mistero, mi piace mantenere questo filo magico con l’Altro, con almeno un Padre. L’uomo sembra, infatti, che abbia sempre pregato, in ogni luogo della terra e in tutte le lingue, specialmente nelle circostanze eccezionali della vita. Stranamente simile a un bambino che implora nel dolore il padre, unica sua autorità riconosciuta.

LA COSTRUZIONE E LA NASCITA DEL PADRE

 L’origine del padre sta nella cerniera tra natura e cultura. Il padre è del tutto culturalmente costruito ed essendo un prodotto della società è in divenire, cioè può subire, seppure in tempi lenti, importanti modificazioni. Al contrario della madre che pur essendo anch’essa un prodotto della società, ha un piedistallo biologico, perché i figli nascono dal suo utero. Il padre non sembra esistere in natura. Fra gli animali più avanzati della scala dell’evoluzione, il maschio è padre solo nell’attimo del concepimento, dopodiché non “conosce” la propria parentale con i figli. La femmina sa come comportarsi da madre. Anche i mammiferi maschi si limitano solamente a fecondare, a dare solamente il loro sperma alle femmine, a trasmettere, nella maggior misura possibile i propri geni ai nuovi esseri e poi se ne allontanano rapidamente. I maschi non riconoscono i loro figli, né preparano loro un nido, né danno loro da mangiare, al contrario del binomio madre/figlio. Fisiologicamente la madre allatta i figli e li aiuta ad entrare nel mondo. Questo avviene pressoché ininterrottamente da centinaia di milioni di anni.  La nascita della figura del padre interviene infinitamente più tardi nella vita dell’umanità.  Non sappiamo quando sia nato questo nuovo comportamento del padre e quanto ci sia voluto per stabilizzarsi e diventare una caratteristica permanente di una specie. Sappiamo solo che è comparso, si è diffuso e si è stabilizzato. Per raggiungere ciò l’attività mentale dei maschi si è evoluta raggiungendo un certo livello di astrazione. La risposta deve essere ricercata nell’ambito della simbologia e della psicologia dell’uomo. A un certo punto il maschio abbandona l’animalità, compie uno sbalzo in avanti, un atto “contro natura”.  L’uomo preistorico giunse alla attività mentale superiore – alla spiritualità e alla trascendenza – quando cessò di abbandonare i morti ed a creare in loro onore venerazione e riti. Tuttavia la vita spirituale trovò la sua completezza quando cominciò a circondare di devozione anche la nascita dei figli. I maschi cominciano a sentire e affermare il loro potere proprio nel momento in cui si trasformano in padri consapevoli, assumendo il ruolo di datori di vita, di costruttori di una continuità attraverso i figli; prendendo coscienza del “mistero della fecondità”, racchiuso sia nelle piante, sia nel corpo della donna. Comincia inoltre a chiedersi cosa diverrà l’uomo dopo la morte e che cosa era prima di nascere.  Insorgono così le grandi domande escatologiche o domande ultime. Mi piace ricordare a questo proposito una frase affascinante che risale all’Oracolo di Delfi: “Vicaria atque non vicaria deus aderit”( Cercato o no il Dio verrà) e la parola Dio – diceva C. Jung – in questo caso va intesa come “domanda ultima”.

ESIODO: INVENTORE DI ZEUS, PADRE DEGLI DEI.

Il mondo simbolico è di segno maschile; il patriarcato ha sempre dominato nella mitologia e nella storia dell’Occidente. Nell’antica Grecia era assente una religione soggetta a regole assolute ed i valori a cui la società faceva riferimento erano contenuti nel mito che non conosceva precisi confini, né forme canoniche definite. Le figure degli “dei” furono inventate dai primi poeti dell’antichità intorno all’VIII secolo a.C. in particolare da Esiodo. Nel libro dedicato agli dei greci, la Teogonia, Esiodo racconta la genesi delle divinità. In principio fu caos…poi fu Gaia, la Terra, che genera – per estensione di sé, non per accoppiamento- Uranio, il Cielo. Il Monte Olimpo era la sede degli dei e per altitudine era considerato alla pari del cielo. Poi Gaia e Uranio generarono i Ciclopi che fabbricarono il tuono e il fulmine: le potenze del cielo, e in seguito generarono altri figli, ma il padre cominciò a odiarli e, per eliminarli, le reintroduceva di nuovo nel ventre della madre. Gaia, irritata da questo comportamento animalesco di Uranio, chiese ai figli di vendicarsi del padre e Crono, uno di loro non esitò a tagliare con la falce, data dalla madre, i genitali di Uranio; ma le gocce di sangue di Uranio fecondarono ancora Gaia e ne nacquero le Erinni, considerate le dee di quella prima giustizia fatta di sangue e vendetta. In Uranio ritroviamo l’allegoria del maschio primordiale, che genera ma non alleva i figli. Proprio per l’antagonismo con la femmina, moltiplicatrice di vita, Uranio si ritrova castrato e sterile. Crono, unendosi a Rea, generò molti figli, ma seppe da Gaia ed Urano che un figlio gli avrebbe strappato il comando e pertanto cominciò a divorare tutti i suoi figli man mano che nascevano. Tutti al di fuori di Zeus, che grazie alla decisione di Gaia – che ingannò Crono facendogli inghiottire una pietra avvolta in fasce – nascose Zeus nell’isola di Creta dove fu nutrito ed educato fino a raggiungere l’autorità suprema, quella del Padre degli dei. Zeus rappresentava quindi la più alta forma divina e a lui gli uomini s’ispiravano.  Il complesso racconto mitologico continua con Prometeo, il più famoso dei Titani. Prometeo ingannò Zeus per amore degli uomini, dando loro per la prima volta il fuoco. Fino a allora sulla terra gli uomini erano solamente maschi e per punizione Zeus fece loro un dono: le donne. Esse sono la sciagura:  l’uomo che si sposa soffre tutta la vita, l’uomo che non si sposa, soffre ugualmente per la mancanza dei figli. Ecco che emerge uno dei valori più caratteristici della Grecia Arcaica, quello in cui contro la caducità della vita, l’unico bene era avere una discendenza, avere una continuità tra padre e figlio. Esiodo focalizza la sua narrazione sull’antagonismo fra Cielo e Terra, tra dei e dei, tra dei e uomini, tra uomini e donne. Queste vicende dimostrano quanto sia stata lenta e incerta l’affermazione dell’autorità del padre. Zeus si unì poi a Metis – nome che significa saggia, intelligente, prudente- ma Gaia e Urano predissero a Zeus che avrebbe generato un figlio destinato a prendere il suo posto. Così quando Metis fu sul punto di partorire, Zeus la inghiottì. La figlia divina che Metis aveva in grembo era la dea Atena colei che amministrava la saggezza, l’intelligenza, la forza in guerra. Essendo all’interno del corpo del padre doveva essere da lui partorita. Così il padre Zeus partorì la figlia Atena dalla testa. Atena per tale motivo esclama: << Io sono solo del padre>>. Con questo gesto Zeus, il re degli dei, aveva creato la figura del padre che genera senza madre. Ecco che l’opera era compiuta, il nuovo potere maschile aveva esteso la sua autorità anche sulla procreazione, emblema esclusivo femminile. Il padre feconda e genera.

OMERO: INVENTORE DEI PADRI EPICI DELLA GRECIA ANTICA.

Nel mondo colorato dell’epica di Omero l’elemento centrale è l’amore tra padre e figlio. Il male che i Greci più temevano era che il figlio, anziché apprendere dal padre, si opponesse ai suoi insegnamenti. Un esempio straordinario di rapporto padre figlio è la figura di Ettore nell’Iliade. Memorabile è l’immagine di Ettore che tende le braccia al figlio, dopo essersi sfilato l’elmo, sollevandolo in alto – con il pensiero rivolto al divino- pregando Zeus di renderlo più forte di lui. Questo gesto caratterizza, meglio di qualsiasi altro, l’amore assoluto, spirituale del padre verso il figlio. Straordinaria è anche la figura del padre di Ettore, Priamo re di Troia, il quale dopo la morte di Ettore ucciso da Achille si reca – obbedendo alla decisione di Zeus – da Achille stesso, umiliandosi di fronte a lui, baciandogli le mani e offrendo doni per riavere indietro il cadavere di Ettore. Priamo riesce a far commuovere il nemico chiedendo a lui rispetto per il dolore di un vecchio padre e ricordandogli la figura del suo che ancora aspetta il suo ritorno. L’Odissea è dominata dalla straordinaria vita avventurosa di Ulisse o Odisseo. Ulisse a differenza di Ettore, è meno eroico, rigorosamente umano, spesso imperfetto, calcolatore, scaltro, capace di superare con la forza della volontà qualsiasi difficoltà con soluzioni inaspettate; prototipo dell’uomo occidentale. Il suo progetto, nonostante il lungo viaggio rimane saldo, dispiegandosi fino al ritorno in “patria”, alla terra dei padri (in greco “patria”, significa “terra dei padri“), alla sua Itaca.

VIRGILIO: INVENTORE DEL PADRE EPICO DI ROMA ANTICA

L’Eneide rappresenta, insieme all’Iliade e l’Odissea, la base epica della cultura europea. Virgilio compose il suo poema per esaltare la grandezza di Roma cantando le sue origini, cosa gradita a Cesare Augusto. Lo fece collegandosi ai miti greci e all’epica di Omero, scegliendo come protagonista un eroe di origine troiana: Enea. Enea era figlio di Anchise che fu sedotto, secondo la volontà di Zeus (chiamato dai romani Giove), dalla dea dell’amore Afrodite  (chiamata dai romani Venere) travestita da donna bellissima. Enea fuggì da Troia che stava bruciando, Ettore stesso gli gridò: <<… fuggi, Enea fuggi! Tutto è in fiamme. Troia ti affida gli arredi sacri e i suoi Penati>>. Enea giungerà in Italia e fonderà la grande stirpe romana. Che cosa sono i sacri arredi e i Penati? I Penati nella Grecia antica rappresentavano gli dei Padri, cioè le divinità che governano sia la casa, sia la città, sia la patria. Essi collegano i padri ai figli, il mondo greco a quello romano, la città distrutta a quella che dovrà essere fondata. Nell’antica Roma il culto ai Penati si fa particolarmente importate ed esprime la forza della famiglia e della società romana dei tempi migliori. Essi tutelano il rapporto tra le generazioni e il loro culto era assolutamente privato. Il “culto dei Penati” si mescola a quello dei “Lari” e a quello del “Fuoco” che arde ininterrottamente, su cui veglia la dea dell’Intimità – Esta per i Greci e Vesta per i romani – da tutti rispettata. I Penati erano il seme della continuità familiare, di un sentimento profondo che consentiva di elevare il figlio maschio a padre e non solo in senso civile ma anche in senso religioso. La loro posizione centrale dell’Eneide esprime la continuazione materiale e spirituale della stirpe di Enea. I Penati erano messi nel posto più protetto  e centrale della casa, sotto forma di un piccolo luogo di culto, con statuette ed arredi. In questo luogo – chiamato “penus” – i padri e i figli pregavano nell’intimità queste divinità affinchè fosse protetta la famiglia. Dell’originario significato simbolico-spirituale del termine “Penati” e “Penus”, oggi completamente dimenticato, residua solamente il verbo “penetrare” e il sostantivo “pene”, sinonomo ormai esclusivo di sesso. L’immagine di Enea in fuga con il padre e il figlio, rappresenta l’anello centrale della catena dei padri. La straordinaria composizione formata da Enea che tiene con il braccio destro il figlio Ascanio e con il sinistro sorregge il padre Anchise sulle spalle – dipinta o scolpita da tanti artisti- rappresenta un simbolo non solo per la società romana ma per tutta la cultura occidentale. I tre sono un albero genealogico in marcia verso il futuro. Li unisce il versarsi delle paternità – mediante il seme e la nascita – da una generazione all’altra.

PAOLO DI TARSO e il DIO PADRE ASSOLUTO, “PATER NOSTRUM”.

La dottrina Cristiana, diventata con Costantino la religione di tutti i sudditi di Roma, scrollò completamente il concetto del patriarcato della tradizione greco-romana. Con essa assistiamo alla destituzione dell’autorità paterna in terra e al suo trasferimento in cielo. Si celebra Dio, Padre Assoluto.  L’idea del Padre è limitata nella figura di Dio, come scrive Matteo (23, 8): << Non chiamate nessuno sulla terra padre vostro, perché c’è un solo Vostro Padre, quello nei Cieli>>. Gesù di Nazareth sosteneva l’obbedienza all’imperatore e la fede in un solo Padre, Dio. Cristo era Dio e figlio di Dio al tempo stesso. Il figlio è posto sullo stesso piano del padre incorporandosi in un’”Unicità”. La figura divina di Dio è così potente da assorbire in cielo la parte del mito paterno, quella generatrice. Nel racconto biblico chi genera è Dio. Da questa visione esclusiva della figura paterna, focalizzata in un unico Dio, scaturì il concetto che tutti gli uomini erano figli di Dio, Unico Padre, e quindi tutti erano fratelli (figli-fratelli) e tutti dovevano di conseguenza essere uguali e avere gli stessi diritti. Questi concetti cristiani di fratellanza e di egualitarismo, troveranno il loro massimo sviluppo nel settecento con l’illuminismo, e animeranno prima la rivoluzione americana e poi quella francese. Fu Paolo di Tarso (nato tra il 5 – 15 d.C.) che costruì la nuova religione. Paolo nel primo periodo della sua vita fu un fanatico fariseo, persecutore dei cristiani, seguaci della nuova fede. Egli addirittura approvò la lapidazione di Stefano. Improvvisamente Paolo fu folgorato, sulla strada per Damasco, dalla Luce Divina, perse la vista e la recuperò solamente dopo la sua Conversione. Paolo fu eroe dunque di una “apocalisse” che in greco vuol dire “rivelazione” – letteralmente l’alzarsi di un velo – in questo caso il velo delle tenebre e il ritorno alla Luce della Verità.  Dopo la conversione, la vita di Paolo si capovolge, inizia il suo avventuroso viaggio, per questo è stato definito “l’Ulisse della Fede”. Egli predica e insegna la nuova Dottrina fino ai confini dell’Impero Romano, che grazie alla sua estensione trova grande diffusione. La sua avventura finisce a Roma nel 67 d.C. con il martirio. L’impero Romano, in quel momento storico, cercava di dare corpo al culto del “ Numen Augusti”- culto divino dell’Imperatore”- Ogni imperatore si rivolgeva alle masse, cercando di ottenere l’obbedienza, dando un orientamento religioso e promettendo addirittura una salvezza divina. Un vangelo di speranza e di salvezza basato sulla figura di un individuo, anche se era un Imperatore, non poteva soddisfare la sete di salvezza delle genti. In mezzo a questa insoddisfazione, ecco che la dottrina religiosa paolina, basata sulla fede nella salvezza spirituale dell’uomo (messaggio definito “soteriologico”, che deriva dalla parola greca “sòtèria”, “salvezza”), rapidamente avanza e vince. Fu proprio il cristianesimo che erose le radici della civiltà romana e fu la prima causa della crisi dell’Impero. Nel momento in cui si abbandona la visione ingenua di un mondo popolato da divinità mitologiche, che sono simili a superuomini, con vizi e virtù umane, si concepisce e si scopre un Dio, uno solo e Unico Dio Padre Trascendente, come “Essere Altro”, che parla all’uomo ed è amico dell’uomo. Ecco che si apre la questione del “dialogo spirituale” tra uomo e Dio, infinitamente più semplice, invaso di speranza, rispetto al dialogo con il divino Imperatore di Roma. Si contrappone, con l’avvento della nuova Dottrina, al Dio dell’Antico Testamento, duro, severo, il Dio del Nuovo Testamento: Dio dell’amore e della misericordia.  La dottrina Paolina, quindi sembra essere più accattivante rispetto alla religione Ebraica, basata sulla ricerca della propria salvezza spirituale mediante una scrupolosa e rigorosa adesione ai precetti della Torah.

J.T. DESAGUILLIERS : PROPUGNATORE DEL MITO  DI HIRAM-ABIF, PADRE SIMBOLO PER I LIBERI MURATORI.

La Libera Muratoria fonda la sua tradizione su due idee fondamentali: su quella del Grande Architetto dell’Universo (G. A. D. U) e su quella del Mito di Hiram.  Il G. A. D. U. è il simbolo per eccellenza della Libera Muratoria, in sua grazia e in sua gloria si svolgono infatti i Lavori Libero-Muratori.  Il G. A. D. U. esprime un concetto simbolico di “Entità Divina” – perché non esiste alcun Dio massonico- e deve essere interpretato da ciascun adepto secondo i suoi principi, essendo il nostro Ordine Iniziatico basato esclusivamente sul “Libero Pensiero” . Il Mito di Hiram-Abif, che è ritualmente ripetuto a ogni elevazione al terzo Grado di Maestro Muratore, “affratella” con un legame indissolubile tutti i Maestri Muratori. Esso è definito “mito”, in quanto è completamente inventato e non  scaturisce da nessuna elaborazione di fatti reali. Questo Mito fu inventato e imposto nel rituale del terzo Grado di Maestro Muratore.  Il terzo Grado della Massoneria fu introdotto dopo otto anni dalla fondazione della Gran Loggia di Londra, avvenuta nel 1717. Fino allora esistevano solamente due gradi, quello dell’Apprendista e quello del Compagno d’Arte; il titolo di Maestro era riservato solo al Maestro Venerabile. Non sappiamo con precisione chi sia stato l’ideatore del Mito di Hiram, probabilmente una figura eccelsa dell’Obbedienza Inglese. Il propugnatore del terzo Grado della Massoneria fu J. Theophilius Desaguilliers, che con Anderson e Payne, fu uno dei fondatori della Gran Loggia d’Inghilterra. Egli durante una visita nel 1721 ai Frammassoni di Edimburgo rivelò a quei fratelli il proposito di costituire un grado di perfezionamento, foggiato non sugli antichi costumi dei Liberi Muratori del Medio Evo, ma su una leggenda biblica che si riferiva alla costruzione del tempio di Salomone. Il Mito di Hiram è sicuramente un capolavoro. Esso rappresenta una sintesi complessa di varie leggende, presentandosi apparentemente come qualcosa di originale. La figura di Hiram è stata prescelta probabilmente per il suo alto valore simbolico Muratorio ed Iniziatico. Come Architetto-Costruttore del Tempio di Gerusalemme, rientrava perfettamente nel simbolismo dell’Ordine e non aveva l’aria di qualcosa avulso, inserendosi inoltre anche se con proporzioni più modeste, al filone che si rifaceva ai “Grandi Edificatori”: alla costruzione dell’arca di Noè, a quella della città di Enoch da parte di Caino, alla torre di Babele da parte di Nemrod e a quella del Tempio di Gerusalemme. La figura di Hiram non ha nessun rapporto con il personaggio menzionato nel testo biblico; come possiamo leggere nel 1° Libro dei Re, versetto 13 :” Ora il Re Salomone mandò a prendere Hiram di Tiro, figliolo d’una donna vedova della tribù di Nephtali; ma suo padre era della città di Tiro, fabbro, e compiuto in industria, e intendimento e scienze, da far qualunque lavoro di rame. Ed egli venne al re Salomone, e fece tutto il suo lavoro”. Così come nel 2° libro delle Cronache, cap. II, 13-14 si dice: “…ed ora in effetti ti mando un uomo abile , esperto in intendimento, che appartiene ad Hiram-Abif, figlio di una donna dei figli di Dan, ma il cui padre fu un uomo di Tiro esperto nel lavorare oro ed argento, rame e ferro, pietra e legno…che gli si dia insieme ai tuoi propri uomini abili del mio signore Davide tuo padre”. Un’analogia con il Mito di Hiram è quello egizio d’Iside e Osiride, che rappresenta uno dei più noti culti delle società segrete iniziatiche delle religioni pagane, insieme ai Misteri Eleusini e Orfici della Grecia ed al culto di Mitra dell’Impero Romano. Osiride, re dell’Egitto, regnava con Iside, sua sposa. Egli fu un Sovrano illuminato, amato e adorato come un dio; fu definito “padre del grano e dell’orzo” perché insegnò al suo popolo la loro coltivazione. Il fratello minore: Set, invidioso, compì un complotto con la collaborazione di settantadue complici. Dopo aver preso in segreto le misure esatte del corpo di Osiride, fabbricò una cassa e la decorò con oro e brillanti e promise di regalarla a chi gli andasse a misura. In essa entrarono, durante una festa, i congiurati per vedere se era a loro misura, ma quando entro Osiride fu subito inchiodato il coperchio e la cassa fu gettata nel Nilo. La moglie Iside cominciò a cercare il corpo del marito lungo il fiume, ma la cassa raggiunse il mare e poi la costa della Siria. Nel punto dove si fermò spuntò un albero di Kassia che crebbe rapidamente fino a racchiudere nel suo tronco la cassa. Il re del luogo lo fece tagliare ammirato dalla bellezza dell’albero e ne fece una colonna per il suo palazzo. Iside, venuta a conoscenza del fatto, riuscì a riprendere la colonna in cui riposava il corpo dell’amato Osiride e la innalzò al centro di un tempio dove i devoti deponevano le loro offerte destinate alla beneficienza (metafora suggestiva del mito del “tronco della vedova”). Hiram, pertano può identificarsi in Osiride, che come lui viene assassinato dai suoi compagni ed anche il suo percorso iniziatico è identico: caratterizzato dalla morte e dalla rinascita. Un’altra analogia con il Mito di Hiram è la leggenda riferita alla figura di Noè, definita “Noachita”. Essa è riportata su un testo manoscritto, ritrovato a York nel 1936, redatto da Thomas Graham e compilato forse intorno al 1672, dove si racconta che Sem, Can e Iafet cercarono di raggiungere la tomba del loro padre Noè con la speranza di trovare qualcosa di lui che li guidasse al possesso di quella” forza segreta” che egli certamente aveva giacchè tutte le cose necessarie del mondo si trovavano nell’arca insieme a Noè. I tre avevano stabilito che se non trovavano quello che cercavano, la prima cosa che avrebbero trovato sarebbe dovuta essere per loro come un segreto, ricevuto da Dio medesimo. Così giunsero alla sepoltura, ma non trovarono nulla eccetto il suo cadavere quasi del tutto consumato. Afferrarono un dito e, questo si staccò completamente…allora essi sollevarono il cadavere e lo sostennero mettendo: piede contro piede, ginocchio contro ginocchio, petto contro petto, guancia contro guancia e la mano sul dorso mentre lo invocavano . “Aiuto o Padre”…aiutaci Padre del Cielo perché ora il nostro Padre terreno non può. Poi deposero di nuovo il cadavere e uno di loro disse: “ In quest’osso c’è ancora midollo” e il secondo disse: “ è tutto secco” e il terzo affermò: “ esso puzza”. Convennero allora di assegnarle il nome di Mach-Benach (M. B. che com’è noto  rappresenta la parola segreta in Grado di Maestro). Le analogie tra questa leggenda e il Mito di Hiram sono certamente molte, tra cui: -Il “desiderio di ottenere da un morto un segreto” (quest’ arte divinatoria che si pratica evocando gli spiriti o le anime di persone morte per conoscere segreti o indovinare il futuro viene definita “negromanzia”); -I cinque punti della fratellanza o della maestria ( mano con mano – ti riconosco e saluto Fratello- ; piede contro piede – prometto di sostenerti in ogni legittima impresa-; ginocchio contro ginocchio – di darò appoggio  nelle tue necessità; petto contro petto – costudirò i segreti che vorrai confidarmi-;spalla con spalla – ti abbraccio e ti difenderò che tu sia presente o assente); -La decisione di adottare un segreto. La parola segreta del grado di maestro coincide esattamente con il nome di Mach- Benach ( M. B.), che significa – come abbiamo già detto nella premessa-  “dal Padre o Figlio del Padre o seme del padre o figlio della putrefazione” ad indicare che tutti i massoni si riconoscono come figli di Hiram, riconoscendosi come “fratelli”. L’origine del termine fratello, “frate” nella forma latina, indica il fratello consanguineo, figlio dello stesso padre o della stessa madre. Il significato cambia nel lessico della cristianità, dove assume il senso di frate come “confratello”. La fratellanza dipendeva dalla comune appartenenza a una fratria ovvero a un’associazione; evocando una sorta di parentela mistica, di legame trascendente, a volte secondo il destino o a volte per scelta, da un padre fondatore o da un patriarca storico o da un padre divino o più frequentemente da un padre mitologico.  Per questo anche nella tradizione massonica è stato adottato il termine di fratello. Nella Massoneria ciò che unisce i fratelli scaturisce proprio dalla impersonificazione ( simbolica-spirituale) di ognuno di noi nel martirio di Hiram- Abif, il Padre allegorico di tutti i Liberi Muratori. Noi ci riconosciamo” fratelli” perché siamo stati iniziati tutti secondo la tradizione hiramica. Affascinante è l’etimologia indoeuropea della parola fratello: “ brather”, dove il primo segmento “bher” significa “portare” ed il secondo segmento “ater” significa “fuoco”; cioè fratello è colui che porta il fuoco, colui che ha cura del fuoco. Per questo si parla di “Fuoco della Fratellanza”. E la “legge del fuoco” rappresenta la legge della parola, dell’unione, dell’essere vicini. Essa è simbolo di un legame che deve resistere a tutte le avversità. Il “padre” sa portare il fuoco al figlio, anche nello sfacelo, il “fratello” sa portare il fuoco all’altro fratello anche nelle difficoltà.  Suggestiva è anche la correlazione tra il ritrovamento del corpo di Hiram  e il 6° Libro di Virgilio, l’Eneide. Enea dopo la morte del padre Anchise desiderava scendere tra le ombre per riparlare con lui e chiedergli i segreti dei fati; consultò la Sibilla di Cuma, la quale dette indicazioni a Enea, dicendogli che per trovare suo padre doveva avere in mano un ramoscello d’oro. Anche nella ricerca del corpo di Hiram è presente una pianta che da ombra alla sepoltura del Maestro: l’Acacia, dal greco “a” – alfa privativo – che vuol dire “senza” e “Kakia” “macchia”, quindi “albero senza macchia”. In antichità veniva definita “Kassia o Tamarisco spinoso”;  pianta che crebbe anche attorno al corpo di Osiride. L’acacia nella Libera Muratoria è simbolo di libertà più completa dell’uomo dalla paura della morte; della certezza della sua riunione con la controparte divina. Il Mito di Hiram esalta il tema fondamentale delle iniziazioni, consistente nella morte simbolica del candidato e nella sua resurrezione o rinascita. Nella cerimonia del terzo grado, il fratello che riceve l’aumento del salario e che personifica Hiram, come se fosse un attore che recita la sua parte, muore allegoricamente e risorge a nuova vita, divenendo così un “Iniziato Maestro Libero Muratore”.  Il Ven.mo, infatti, dice : << ..in questo momento rappresenti simbologicamente Hiram…>>  e successivamente esclama: << Maestri esultate! Hiram è rinato nel nostro nuovo Maestro>>. La massoneria è un lungo “cammino interiore” (“in-ire”: scendere dentro di noi) allo scopo, se ci riusciamo, di rigenerarsi spiritualmente, senza pretendere di conoscere chissà quali verità segrete. Per questo motivo la dottrina massonica è definita ”esoterica” (dal greco “esotericos” che vuol dire “intimo”o “riservato”). Essa è di esclusiva pertinenza dei sacerdoti o degli iniziati in genere ed è tramandata con l’aiuto dei simboli e dei rituali; insegnata e custodita entro il suo ideale recinto “il Tempio” (la cui radice “Tem” significa “delimitare”, “dividere”). L’iniziato deve essere in grado di intuire i misteriosi insegnamenti che racchiudono le immagini, le allegorie, i simboli, i miti dell’Ordine . Il “rituale” rappresenta il filo che ci unisce ai nostri predecessori e ci lega a quelli che verranno dopo. Il più importante esempio di questa “continuità/catena iniziatica” è appunto il rituale d’iniziazione in Grado di Maestro. Infatti, il Ven.mo esclama con senso di giubilo: << Rispettabili Maestri, in quest’ora lieta salutiamo secondo l’antico Rito il diletto Maestro che si inserisce nella nostra Catena>>.

RIFLESSIONE FINALE: LA FUNZIONE SIMBOLICA DEL PADRE E LA SUA EREDITA’Quando parliamo di padre sappiamo benissimo di non esprimere una verità assoluta, ma un’infinità di situazioni intermedie, soprattutto nella realtà di oggi. La funzione simbolica del padre deve essere pensata come atto singolare, non come una testimonianza etica o esemplare. Un padre non può trasmette cosa sia una vita giusta o quale sia il criterio universale della felicità, perché nessuno possiede questo sapere. Ciò che un padre può trasmettere è caso mai proprio l’impossibilità stessa di questo sapere. La forza simbolica del padre esiste sempre al di là del suo esempio, non è necessario e non deve essere per forza il padre un modello ideale. Basta pensare alle innumerevoli sfaccettature delle figure paterne descritte nella letteratura moderna da Freud a Kafka, da Dostoevskij a Cechov, da Nobokof a Banville, da Philip Roth a Mac Carthey e a C. Magris. Padri diversi l’uno dall’altro, ma tutti con uno stesso denominatore comune: “custodi del mistero della vita e della morte”. J. Lacan, psicoanalista francese, dice che il padre rappresenta una dimensione simbolica fondamentale per la realizzazione del nostro “io”. La costruzione del mondo simbolico avviene, inizialmente attraverso l’immagine di sè, come quella percepita allo specchio, e successivamente attraverso gli altri simboli relazionali che compongono la nostra esistenza umana. Il padre reale, gli archetipi, le figure mitologiche o allegoriche sono fondamentali per costruire il nostro mondo simbolico interno che deve continuamente scontrarsi con una realtà esterna talvolta ostile. Il padre, attraverso il suo ruolo etico e culturale di protettore nei confronti delle insidie della vita, è il “portatore del simbolo della sopravvivenza” (insistenza alla vita e resistenza alla morte). La citazione di alcune frasi selezionate del romanzo di C. Mc.Carthy: La strada, sono esplicative del concetto sovra espresso: << Se io morissi, chiese una volta il figlio al padre, tu cosa faresti? Vorrei morire anch’io, rispose il padre per poter restare con te  …Io ho il dovere di proteggerti. Dio mi ha assegnato questo compito. Chiunque ti tocchi, io lo ammazzo. Hai capito?>>;  <<…Hai detto che non mi avresti mai lasciato, dice il bambino al padre morente. ”Hai tutto il mio cuore, è quello che resta di me. Tutto il mio cuore. E ancora, quando non ci sarò più tu potrai comunque parlarmi. Potrai parlare con me ed io ti risponderò. Vedrai >>;  << Una donna che si prese cura del bambino provò ad insegnarli a parlare con Dio , a pregare. Per il bambino la cosa migliore restava parlare con suo padre, come suo padre gli aveva insegnato. Parlandogli non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene così. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno>>. Purtroppo noi mortali non possiamo governare il mistero assoluto della vita e della morte; né deteniamo un sapere certo su cosa significhi vivere e morire. Proprio su questo grande enigma sul senso della vita e della morte, sul grande mistero della natura che avvolge chi non è eterno, lo scrittore Irlandese John Banville, nel suo ultimo libro, affida il ruolo di voce narrante a uno di loro a Ermes, un antico dio greco, mentre scorge dall’alto uno scorcio pallido di vita terrena:<< Il segreto della sopravvivenza è un’immaginazione difettosa. L’incapacità dei mortali di immaginare le cose come sono veramente è ciò che consente loro di vivere, giacchè un fugace, incontrastato sguardo alla totalità della sofferenza del mondo li annichilirebbe su due piedi, come una zaffata del più letale gas mefitico. Noi -dei -abbiamo stomaci più forti, polmoni più robusti, vediamo tutto in tutta la sua spaventosità, in ogni momento e non ne siamo abbattuti; questa è la differenza; è questo che ci rende divini >>.

Il “concetto del limite” credo che sia un altro importante dono offertoci dai padri. Noi non possiamo sapere tutto, non possiamo avere tutto, non possiamo godere di tutto, non possiamo desiderare tutto. Il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà assoluta senza vincoli, senza pudore, senza vergogna, senza sensi di colpa, rappresenta secondo me, il ribaltamento della funzione simbolica del padre. Tuttavia la funzione paterna non può esaurirsi nell’esercizio dell’interdizione. Se questo accadesse non ci sarebbe possibilità di trasmissione, non ci sarebbe riconoscimento dell’Altro, ma solo spavento, terrore, panico di fronte alla volontà indiscussa dell’Altro. Come diceva Freud il padre deve anche saper “tenere gli occhi chiusi”; perché se gli occhi del padre fossero sempre aperti, saremmo in un campo di concentramento o su una scena paranoide del grande fratello.  Il fatto che un padre sappia voltare altrove il proprio sguardo rende possibile l’umanizzazione della sua legge o del suo limite. Il libro della Genesi abbonda di figure tracotanti, che credono di poter trascendere ogni limite, sfidando addirittura Dio. Nel mito originario di Adamo ed Eva si ritrova questo concetto. Dio vieta ad Adamo ed Eva l’accesso diretto al problema del bene e del male proibendo loro di consumare i frutti dell’“albero della conoscenza”. Il serpente gli suggerisce ”sarete come Dio”(Genesi). Questo non significa mortificare lo spirito della conoscenza ma impedire che essa si trasformi nell’illusione di possedere una conoscenza senza limiti. Essi illudono, mangiando i frutti, di scavalcare ogni limite.  Anche la figura di Caino è un chiaro esempio di tracotanza umana. Egli uccide suo fratello Abele, rifiutando ogni limite, per unirsi in modo incestuoso con la madre, Eva. Così come gli uomini dispersi dal diluvio universale che nonostante fossero stati avvertiti da Noè lo ignorarono. Noè ricevette da Dio le istruzioni particolareggiate per costruire l’Arca, riguardo le misure, la forma, l’ illuminazione, la ventilazione, i materiali da usare (albero resinoso, forse il cipresso), la copertura e perfino l’inclinazione del tetto, che doveva essere del quattro per cento, per far defluire le acque piovane (Genesi 6:14-16).  Si calcola che l’Arca potesse avere un dislocamento, simile al Titanic, lungo 269 metri.  Cinque mesi dopo l’inizio del diluvio, l’arca si posò sui monti di Ararat, su un terreno adatto dove tutti avrebbero potuto vivere comodamente per alcuni mesi. Solamente dopo un anno e dieci giorni dall’inizio del diluvio, la porta fu di nuovo aperta e tutti sbarcarono (Genesi 7:11;8:4,14). Così come la vicenda della costruzione della Torre di Babele, da parte di Nimrod, pronipote di Noè, il primo uomo post-diluviano divenuto potente sulla terra. Egli governava il regno Assiro-Babilonese. Quando Nimrod e i suoi intrapresero la costruzione della Torre di Babele, Dio manifestò la sua disapprovazione. In origine tutti gli abitanti della terra parlavano la stessa lingua (Genesi 11:1,5); Dio sventò la costruzione confondendo il loro linguaggio, facendo in modo che iniziassero a parlare in lingue diverse. I costruttori, incapaci di comprendersi, abbandonarono il progetto e si dispersero. In questa vicenda domina la tracotanza boriosa degli umani che volevano oltrepassare ogni senso del limite e occupare con la cima vertiginosa della torre il luogo della trascendenza, il luogo stesso di Dio – dell’“Altro”. Gli uomini che edificavano la torre puntavano a realizzare una società totalitaria dalla quale l’“Altro” sarebbe stato escluso; desideravano assimilarsi all’Uno, al Creatore. Nel testo biblico, solo l’intervento di Dio risveglia i babelici dal sogno totalitario dell’Uno, riportando l’umano al molteplice. Nulla è più efficace della stupefacente e ironica prosa di Kafka nel descrivere la leggenda della costruzione della Torre di Babele: << Da principio la costruzione della Torre di babele procedeva abbastanza in ordine…il punto essenziale di tutta l’impresa è l’idea di costruire una torre che arrivi in cielo. Davanti a questa idea tutto il resto è secondario…finchè ci saranno uomini ci sarà anche il grande desiderio di portare a termine la costruzione. Non bisogna avere preoccupazioni per l’avvenire…anzi il sapere dell’umanità va aumentando, l’architettura ha fatto progressi e altri ne farà, un lavoro che oggi si fa in un anno, tra cento anni si farà in sei mesi e oltre tutto in forma migliore e più resistente…ma non si poteva prevedere che la generazione successiva , con la sua scienza perfezionata, avrebbe trovato da ridire sul lavoro della precedente ed abbattuto la parte costruita per ricominciare da capo. Più che la torre poi si pensò a costruire i quartieri degli operai…ognuno voleva quello più bello, provocando sempre nuove invidie, nacquero contese e conflitti sanguinosi…>>. Così come furono insensati – irrispettosi di ogni limite- i tre compagni, insoddisfatti del salario che complottarono tra loro per carpire la parola Sacra al Padre-Hiram, che morì sotto i loro colpi mortali.

Non ci si rassegna facilmente alla morte del padre, alla mancanza della sua funzione simbolica. Anche se è necessario dire, che solo con il distacco o con la morte del padre, noi possiamo ritrovare la nostra “vera identità ”. Il distacco lo troviamo anche nel testo biblico nel capitolo di Genesi, dove Dio comanda ad Abramo di distaccarsi: << Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che Io ti indicherò>>. Secondo alcune interpretazioni il termine vattene in ebraico potrebbe significare “ vai verso tè stesso” cioè esprimerebbe un movimento di distacco con un ritrovamento. Pertanto affinchè ci sia un “ritrovamento di sé”, è necessario uno sradicamento dal padre, dall’Uno. A tale proposito mi piace sottolineare che da un punto di vista psicoanalitico, la “morte di Dio” – elaborata, alla fine del XIX secolo, da filosofo Friedrich Nietzsche –  per quel che concerne il suo valore “simbolico”, ha a che fare con la “morte del padre”. Sigmund Freud – solitamente accostato a Nietzsche per l’influsso del suo pensiero sulla psicanalisi- sosteneva che nonostante la morte del padre abbia un’importanza fondamentale nella vita di un individuo, essa rappresenta un “fattore di crescita e di sviluppo”. Anche Georg W. F. Heghel riteneva che: “la morte consente di oltrepassare se stessi, a scapito del vecchio attraverso la sofferenza. Solo la disciplina del grande dolore è creatrice di eccellenza. Nella vita bisogna esigere un continuo accrescimento o miglioramento e qualsiasi tipo d’incarnazione e ogni figura reca in sé il suo oltrepassamento“. Distaccarsi, quindi, per poi trasformarsi e rinascere, come quegli insetti che conoscono l’arte di crescere facendo la muta: la perfetta figura di com’ erano rimane intatta – vuota, trasparente, leggera – l’esuvia, mentre il nuovo corpo va avanti, memore del passato e forte per il  suo futuro. 

La funzione simbolica del padre e la sua eredit

  1. La forza simbolica del padre, esiste sempre, di là del suo esempio; non è necessario che sia un modello ideale.
  2. La funzione paterna non si esaurisce nell’esercizio dell’interdizione. Il padre deve saper tenere anche “gli occhi chiusi”.
  3. Il padre è custode del grande mistero della vita e della morte.
  4. Il padre non trasmette cosa sia una vita giusta o quale sia il criterio universale della felicità, perché nessuno possiede questo sapere.
  5. Il padre è portatore del simbolo della sopravvivenza, donandoci quella “carica misteriosa” che ci permette di lottare contro le avversità del vivere e del morire.
  6. Dal padre ereditiamo il concetto del “limite”. Il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà assoluta senza vincoli, rappresenta secondo me, il ribaltamento della funzione simbolica del padre.
  7. Dal padre ereditiamo il senso della trascendenza che va oltre la decomposizione della carne: morire per poi rinascere … è il seme che dopo la sua putrefazione si trasforma in pianta e così via…

  RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 

  1. Lacan. Nota sul padre e l’universalismo. La psicanalisi, 2003.
  2. Boeri. L’anticittà. Ed. Laterza 2011
  3. Recalcati. Cosa resta del padre? Raffaello Cortina Editore, 2011
  4. Ratzinger. Gesù di Nazaret. Ed. Rizzoli, 2007
  5. Furioli. La preghiera. Ed. Marietti, 1981.
  6. Bianchi. Il libro delle preghiere. Ed. Enaudi , 2008.
  7. Milani. A che serve avere le mani pulite. Ed. Chiare Lettere, 2011.
  8. Messadiè. Il piccolo libro delle preghiere. Ed Armenia , 2003
  9. Steiner. La lezione dei maestri. Ed. Garzanti 2002
  10. Zoja. Il gesto di Ettore. Ed. Bollati Boringhieri, 2003
  11. Vouga. Io Paolo. Ed. Paoline, 2008.
  12. Bolli. Il Mito di Hiram, Gradus , Gennaio-Marzo ; 7-12, 2004.

Rituale del Terzo Grado di Maestro Libero Muratore. Roma 1992

  1. Panaino. Il fuoco della “fratellanza”. Hiram;1,2008
  2. Cuccia. Gli albori della Massoneria. Ed. Rubbettino, 2003.
  3. Cuccia. Dieci tavole Architettoniche sulla Massoneria. Ed. Rubbettino, 2005.
  4. Carofiglio. La manomissione delle parole. Ed. Rizzoli, 2011
  5. Piumini, Mattia e il nonno. Ed. Enaudi,1993
  6. Bergons. Le due fonti della morale e della religione. Ed. Enaudi, 2006.

F.M. Dostoevskij. Fratelli Karamazov. Ed. Newton, 2007

  1. Nobokok. Il dono. Ed. Adelphi, 2008
  2.   Banville. Teoria degli infiniti. Ed. Guanda 2011.
  3. Kafka. Lettera al padre. Ed. Feltrinelli, 2010.
  4. Kafka. Tutti i racconti. “Lo stemma cittadino”. Oscar Mondadori, 372-73, 2011

A.Cechok. Racconti della maturità. Ed. Oscar Mondadori, 2009

  1. Magris. Se non siamo innocenti. Ed. Alberti, 2011.
  2. Roth. L’eredità. Enaudi, 2004
  3. Roth. Everyman. Ed. Enaudi,2006
  4. Roth. Il professore di desiderio. Ed. Enaudi, 2009.

P.Roth. Ho sempre voluto… Ovvero, guardando Kafka. Ed. Enaudi, 2011.

Mac Cathey. La strada. Ed. Enaudi, 2008.

Gad Lerner. Scintille. Ed. Feltrinelli, 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa voce è stata pubblicata in Lavori di Loggia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *