Le 3 LUCI DEL TEMPIO MASSONICO

Le tre luci del Tempio Massonico:

Alcuni spunti esoterici

 

Se il mondo sembra non volerne sapere nulla di vecchi miti e non ne comprende l’utilità, è perché se n’è persa proprio la sostanza sacra che contempla aspetti fondamentali dell’uomo e della vita e non persegue, certamente, obiettivi utilitaristici.

Oggi gli approcci alla conoscenza sono, prevalentemente, di tipo razionalistico ed escludono, in fatto di capacità di comprensione, il contributo essenziale di ciò che giunge da quell’altra immensa fonte di conoscenza a cui non siamo più abituati ad attingere………

            (Vincenzo Guzzo, scrittore)

 

La Massoneria è arca vivente dei simboli

(Denis Roman, scrittore)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ERACLE-ERCOLE

Appena si entra in questo Tempio, l’occhio viene catturato dalle figure che sono affrescate in corrispondenza degli scranni delle Luci. Si tratta di Ercole-Eracle (II° Sorvegliante), Venere-Afrodite (I° Sorvegliante) e Minerva-Athena (Maestro Venerabile). Queste presenze simboliche sono solo alcune tra quelle che la Massoneria ha ereditato dalla Tradizione Greco-Romana e di cui, in qualche modo, ne tramanda gli aspetti più significativi.

I miti servono ad interpretare un determinato momento storico ed analizzandoli, si capisce molto del modo di pensare e di vivere, quasi fossero un codice da decifrare. Il simbolo, invece, è qualcosa di più complesso, risale alle primissime origini umane e normalmente si presta a numerose interpretazioni: un po’ come socchiudere una finestra che non si aprirà mai completamente ed anche se ci sembra di vedere fuori un ampio panorama, si intuisce che intorno c’è ancora tanto da vedere. Le figure alle quali ci riferiamo sono al contempo miti e simboli.

Da parte mia ho cercato di cogliere il significato di tutta una serie di miti che si rifanno alle tre figure di riferimento, ma devo aggiungere che, durante la mia ricerca ho potuto capire quanto ci sia di ben più vasto e profondo, per esempio nelle imprese e nel mito di Eracle che attiene al secondo sorvegliante.

Cominciamo quindi a dire chi era Eracle, il personaggio forse più importante della mitologia classica. Zeus, come spesso faceva, si innamorò un giorno di Alcmena, discendente di Perseo e donna oltremodo bella e virtuosa. Con un inganno (assunto l’aspetto del marito Anfitrione) rimase nel suo letto per tre giorni e tre notti mettendola incinta. Nell’approssimarsi del parto, il re degli dei proclamò che il primo bambino della stirpe di Perseo che fosse nato, avrebbe dominato su tutte le genti vicine. Nello stesso tempo, il Fato aveva decretato che il figlio nato dall’unione di Zeus con Alcmena avrebbe avuto una forza sovrumana ed una virtù eccelsa.

Era (Giunone per i latini), moglie di Zeus, si accorse dell’ennesimo inganno del marito e, inferocita,  scelse il bambino che sarebbe nato, quale emblema da perseguitare tra i molti figli che il marito aveva concepito con altre donne, mortali o immortali, cercando  poi con ogni mezzo di farlo tribolare e di renderlo infelice fin da piccolissimo. Questo fatto è fondamentale per capire tutta la vita di Eracle.

Per prima cosa, sapendo della profezia del marito secondo la quale il bambino nato in quel giorno sarebbe stato il sovrano di tutti, ordinò a sua figlia Ilitia, dea protettrice delle donne partorienti, di ritardare il parto di Alcmena e di anticipare invece quello della moglie di Steleno, anche lui discendente di Perseo. Ilitia obbedì e così quel giorno nacque Euristeo, mentre Eracle, insieme a suo fratello gemello Ificle, nacquero il giorno seguente.

Appena si fu insediato sul trono di Tirinto e Micene, Era ricordò ad Euristeo quello che Zeus aveva proclamato, quindi lui avrebbe potuto  avere al suo servizio anche lo stesso Eracle. Ma non solo, la spietata Era mandò la Follia nella casa del nostro eroe che, impazzito, uccise con le sue stesse mani la moglie Megara insieme ai tre figli. Quando Eracle si fu riavuto, disperato per quello che aveva fatto, andò ad interrogare l’oracolo di Delfo per sapere come avrebbe potuto espiare la sua colpa. L’oracolo rispose che avrebbe dovuto seguire precisamente tutto quello che Euristeo gli avrebbe chiesto. Fu così che il nostro mitico eroe dovette affrontare con rassegnazione tutte le 12 fatiche, insieme a molte altre imprese difficili e pericolose.

Quali furono le 12 fatiche:

  • L’uccisione del leone di Nemea: questo leone, figlio di Tifone, era un mostro con la pelle invulnerabile, che devastava il paese divorando gli abitanti e i loro armenti. Euristeo ordinò di ucciderlo. Dopo aver provato invano con le frecce, che non penetravano nella carne, Eracle lo seguì fin dentro la sua tana e lo strangolò con le sue mani. Poi lo scuoiò e si rivestì della sua pelle come di una impenetrabile corazza, usandone la testa come elmo. Questa, insieme alla nodosa clava, che egli stesso si era fabbricata, fu poi la sua “divisa” nell’iconografia greca e romana.

Questa prima fatica ha il significato di reprimere, con l’uso della forza e del coraggio, gli istinti e le paure presenti per natura nell’uomo. Coraggio che nasce dal guardarsi dentro senza temere niente, come fece Eracle entrando nella tana del leone.

2) L’uccisione dell’Idra di Lerna: si trattava di un drago mostruoso che viveva in una palude, con molte teste esalanti alito mortale che distruggeva i raccolti e le greggi. Quando Eracle cominciò a tagliare le teste con la spada si accorse che da ognuna ne ricrescevano due, per cui, con l’aiuto del nipote Iolao, che fu suo compagno e aiutante, le bruciò una per una con una torcia infuocata. La testa centrale, che era immortale, la schiacciò invece con un enorme masso. Infine intinse nel sangue del mostro le sue frecce che da quel momento, quando andavano a segno, provocavano ferite che non sarebbero guarite mai più.

L’Idra si annida in ognuno di noi, nei recessi dell’inconscio, come in una palude dove ci sono i nostri peggiori pensieri. Eracle usa il fuoco, cioè la luce, per uccidere il mostro.

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3) La cattura del cinghiale di Erimanto, che infestava e recava gravi danni nelle regioni vicine: Euristeo aveva comandato di catturarlo e portarglielo vivo. Eracle riuscì ad afferrarlo ed immobilizzarlo, poi lo legò e se lo caricò sulle spalle. Mentre l’eroe si trovava sulla via per il compimento di questa impresa, era stato ospitato dal centauro Fholos, che gli aveva offerto del vino, il cui odore aveva però attirato altri Centauri che non lo avevano mai bevuto quindi, ubriachi, fecero nascere una rissa durante la quale Eracle fu costretto ad ucciderne alcuni, e fra questi anche Chirone che era stato il suo maestro e tutore. Il cinghiale è il simbolo degli istinti selvaggi e pericolosi che per questo verranno non uccisi, ma cercati e domati.

Uccidere il suo tutore significa invece superare, far propri gli insegnamenti del Maestro stesso, perché, fino a che si è legati alla sua autorità, non si è mai veramente adulti, liberi, responsabili. Il Maestro altro non è che una figura, un mezzo per raggiungere se stessi. Un antico detto, a proposito di un discepolo e di un maestro, recita: “Quando imparerai che un padre non è qualcuno a cui appoggiarsi, ma qualcuno che ti libera dalla tendenza ad appoggiarsi?”

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4) La cattura della cerva di Cerinea (monte dell’Arcadia), che aveva le corna e gli zoccoli d’oro. Essendo sacra ad Artemide, doveva essere catturata viva. Eracle le diede la caccia inseguendola per un anno intero, ma alla fine riuscì a prenderla. La cerva, così bella, con le corna d’oro, ma così sfuggente e difficile da catturare, può essere paragonata alla intuizione. L’uomo, l’iniziato, deve servirsi dell’intelletto, dell’istinto, e quindi dell’intuizione, la quale rende consapevoli della spiritualità e del Divino.

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5) L’annientamento degli uccelli di Stinfalo (lago paludoso dell’Arcadia). Questi si nutrivano di carne umana ed avevano artigli, becco ed anche le penne di bronzo, che scagliavano come fossero frecce. Eracle ne uccise alcuni con le armi di cui disponeva: frecce, clava e pietre, ma soprattutto li cacciò spaventandoli con alcuni sonagli di bronzo, opera di Efesto, che gli erano stati donati da Athena. La palude è il simbolo della mente e delle emozioni, gli uccelli sono i nostri pensieri negativi che resistono ai normali mezzi da noi usati. Occorre scacciare quelli malefici che la popolano.

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6) La pulizia delle stalle di Augia, re dell’Elide e figlio di Helios, il sole. Augia era l’uomo più ricco di greggi e di mandrie, immuni da malattie e sempre fertili. Tuttavia nessuno negli anni aveva mai ripulito le sue stalle né le valli dove le bestie pascolavano, al punto che non nasceva più né il grano né altra erba. Ercole deviò il corso di due fiumi che scorrevano vicino alle stalle e ai terreni di Augia e così in un solo giorno riuscì a ripulire tutto. Ebbene, la salute e la vita non fioriscono e non nascono più se le intasiamo con sozzure, mentre la corrente dei fiumi è come un flusso benefico formato da sentimenti e pensieri positivi. Infine, le mandrie rappresentano l’intera umanità, immersa nella sporcizia della natura inferiore.

7) La cattura del Toro di Creta (da non confondersi con il Minotauro). Questo era stato mandato da Poseidone al re Minosse e reso poi furioso dal dio stesso perché non era stato sacrificato secondo la promessa, al punto che seminava il terrore nell’isola distruggendo le campagne. Vale la pena di ricordare che Poseidone, per punire lo stesso Minosse, aveva fatto in modo da far innamorare sua moglie Pasifae del toro stesso, con il quale, tramite un artificio, generò il Minotauro. Pasifae, completamente accecata dai bassi istinti, partorisce un mostro. Eracle riuscì a catturare il toro ed a portarlo vivo a Micene dove fu sacrificato da Teseo. Il toro rappresenta il desiderio sfrenato che l’uomo deve saper governare con intelligenza, senza reprimerlo ma senza lasciarsi trascinare. Per questo Eracle doma e cavalca il toro, ma non lo uccide, lo guida con intelligenza ed equilibrio fino alla meta finale.

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8) La cattura delle cavalle di Diomede, re dei Bistoni e figlio di Ares. Questi dava in pasto alle sue cavalle solo carne umana proveniente dalla uccisione di tutti gli stranieri che passavano per la sua terra. Eracle le legò, diede loro in pasto lo stesso Diomede, e le portò vive al re Euristeo, come egli aveva richiesto. La morale è chiara: il male che fai tornerà indietro, anzi, il male divora se stesso. Il fatto che quattro fossero le cavalle, rappresenta i quattro elementi, vuol dire che terra, aria, acqua e fuoco, le basi costitutive del nostro essere viventi, erano tutte al servizio del suo istinto bestiale.

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9) La conquista della cintura di Ippolita, la regina delle Amazzoni. Questa cintura era stata donata da Ares (Marte per i latini) ad Ippolita, ma era desiderata da Admeta, la figlia di Euristeo che la voleva possedere perché molto preziosa, ma soprattutto per indossarla quale simbolo di potere. Ad Eracle fu comandato di impadronirsene. Egli si recò quindi a Temiscira, la città delle Amazzoni, accompagnato da altri eroi quali Teseo, Peleo e Telamone. Le Amazzoni cercarono di difendere la loro regina e presero le armi. Nacque una battaglia durante la quale Ippolita fu uccisa ed Eracle poté prendere la cintura. Durante il ritorno Eracle ed i suoi compagni giunsero presso la città di Troia, dove un mostro marino stava per mangiare Esione, la figlia del re Laomedonte. Eracle affrontò la terribile creatura, ma fu ingoiato insieme a lei. Rimase nel ventre del mostro per tre giorni e rivide la luce solo dopo avergli tagliato la pancia, salvando se stesso e la principessa. Il pensiero va subito a Giona nel ventre della balena, a Pinocchio nel pescecane, ai tre giorni della morte di Lazzaro, ed a quelli di Gesù nel suo sepolcro.

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10) I buoi di Gerione, un mostro orrendo discendente di Medusa, che dalla cintura in su aveva tre corpi distinti. I buoi erano custoditi in grandi armenti nell’isola di Eritrea (collocabile nell’attuale Marocco) da un gigantesco pastore con tre teste e sei braccia insieme ad un cane, Ortos, con due teste. Euristeo ordinò che gli fossero portati i buoi. Per prenderli Eracle si recò nell’estremo Occidente dentro la coppa che il dio Sole usava per i suoi spostamenti e qui innalzò le due famose colonne. Quindi uccise  i guardiani e portò via i buoi; trafisse con le frecce anche Gerione, che l’aveva inseguito. Sulla via del ritorno fece fronte a vari imprevisti, tra cui un assalto dei briganti liguri Alchione e Dercino, figli di Poseidone, che gli volevano rubare i buoi; o la lotta contro Anteo che uccise sollevandolo da terra quando si rese conto che era da lì che il gigante traeva la sua immane forza. Come se non bastasse, la solita Era mandò  un tafano, che fece innervosire e disperdere parte dell’armento per tutta la Grecia. Eracle impiegò mesi per recuperare tutte le bestie, superando mille ostacoli, Lui era diventato il salvatore del mondo intero per aver liberato l’umanità (la mandria) dal mostro Gerione. Le colonne innalzate da Eracle sono il confine tra mito e realtà, come fossero l’ingresso di un tempio e ci fanno capire che l’iniziato deve effettuare la ricerca delle sue speculazioni ovunque, oltre ogni cosa.

11) I pomi d’oro delle Esperidi che pendevano da un albero regalato da Gea (la terra) ad Era per le sue nozze con Zeus e che davano l’immortalità. Erano custoditi dalle Esperidi in un giardino nell’estremo Occidente presso il monte Atlante, e sorvegliati dal serpente Ladone che aveva 100 occhi e non dormiva mai. Eracle si recò in quell’estremo paese, uccise Ladone, costrinse lo stesso Atlante a cogliere tre pomi e li portò ad Euristeo. Il giardino delle Esperidi ed il serpente ci ricordano il mito di Adamo ed Eva. I frutti sono quelli della conoscenza che si possono avere solo lottando. Fu durante i viaggi di questa undicesima fatica che Eracle incontrò Prometeo, incatenato ad una rupe, riuscendo anche a liberarlo e farsi dire la strada per arrivare al giardino delle Esperidi. Eracle non poteva cogliere i pomi con le sue mani, ma doveva servirsi di Atlante, il titano che era stato costretto, per punizione, a sostenere tutta la volta del cielo. L’eroe si offrì di sostener per un po’ di tempo il peso di Atlante se lui avesse colto e portato i pomi. Ma il titano, assaporata la gioia della libertà, cercò di ingannare Eracle e di lasciarlo per sempre al suo posto, ma questi fu più furbo, si prese i pomi d’oro e restituì il peso ad Atlante. Conquistare i frutti significa assicurarsi la libertà.

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12) La cattura di Cerbero. A questo punto Euristeo non sapeva più che cosa escogitare per portare Eracle a morte sicura, quindi chiese di nuovo una prova impossibile: che fosse catturato Cerbero, il mostruoso cane a tre teste che stava a guardia dell’Ade. Questa era l’ultima fatica di Eracle, quella che l’avrebbe finalmente liberato dalla servitù di Euristeo. L’eroe fu aiutato da Ermes e da Athena, che gli permisero di giungere alle porte degli Inferi dove tra l’altro, liberò Teseo, incollato (per la sua stupidità) ad un sedile e lo riportò dalle tenebre alla luce. Ade gli impose di catturare Cerbero senza fare uso delle armi e gli permise di portare il mostruoso animale verso la luce, con l’impegno di restituirlo subito al regno al quale per sempre doveva appartenere. Eracle dette la sua parola: strinse alla gola Cerbero, lo condusse da Euristeo che dalla paura si era rifugiato, come spesso faceva, in una botte di bronzo, quindi lo riportò indietro. Questo sta a dimostrare che un uomo può superare qualsiasi ostacolo del suo cammino, perfino la paura della morte.

Ma nonostante tutto quello che aveva passato, la moglie di Zeus non aveva ancora colmato il suo odio. Terminata la sua soggezione ad Euristeo, Eracle sposò Deianira, figlia del re di Tebe. Mentre viaggiava con lei diretto in Tessaglia, giunto ad un fiume che dovevano guadare, pregò il centauro Nesso di portare sulla groppa al di là dal fiume la moglie; ma, avendo Nesso tentato di usar violenza a Deianira, lo colpì con una delle sue frecce avvelenate. Il Centauro, morente, disse a Deianira di prendere un po’ del suo sangue dicendole che ne avrebbe potuto ottenere un filtro magico per conservarsi l’amore del marito. Se questi l’avesse voluta tradire, sarebbe bastato bagnare con quel sangue una camicia di Eracle e poi fargliela indossare. Così fece Deianira quando le nacque il sospetto che il marito la volesse abbandonare per sposare Iole, la bella figlia di Eurito. Ma la camicia, appena indossata, cominciò a dilaniare le membra del povero Eracle, rendendolo furioso dal dolore. Quando poi seppe che Deianira si era uccisa per il dispiacere dell’involontario misfatto e non sopportando più gli atroci tormenti sul suo corpo, costruì con le sue mani una catasta di legna sul monte Eta e, salendo sopra, vi fece appiccare il fuoco. In mezzo all’ardore delle fiamme rimbombarono tuoni e fulmini, e una nuvola coprì il corpo dell’eroe, che fu raccolto dal carro di Athena e portato sull’Olimpo dove Era finalmente lo accolse tra gli immortali.

Ancora alcune considerazioni:

Alle sovrumane imprese di Eracle, spesso compiute come sfida alla morte, si può quindi attribuire – come ho cercato di fare socchiudendo un po’ quella finestra della quale avevo accennato all’inizio – anche un significato morale ed esoterico che supera quello immediato di semplice narrazione di gesta eroiche. La storia di questo antico figlio del sommo Zeus è la metafora delle prove del Sentiero Iniziatico. Ercole è chiunque lotti con i problemi della vita, affrontando con coraggio i compiti del proprio destino, sopportando pene e tribolazioni, ma ci fa anche pensare che in fondo ci sia sempre la speranza di una ricompensa. La sua vita finisce nel tormento, il suo corpo brucia, ma il suo spirito, la sua anima vanno in cielo e Zeus lo fa diventare immortale.

Le interpretazioni allegoriche del mito abbondano e, con l’avvento del Cristianesimo, questo subisce una straordinaria metamorfosi: quella che vede Ercole figura di Cristo che lotta contro l’impero del Maligno e muore soffrendo per poi risorgere. E’ questo il motivo per cui ritroviamo l’eroe con la sua clava nei dipinti delle catacombe, oppure scolpito sulle porte di bronzo della Basilica di San Pietro a Roma ed in quelle di San Marco a Venezia

Una leggenda racconta che, quando egli era ancora adolescente, giunse un giorno, sul monte Citerone, ad un bivio, dove dovette fermarsi, incerto quale delle due vie gli convenisse scegliere. All’imbocco di ciascuna vi era una giovane donna: l’una, bellissima, procace, allettante (Edonè), lo invitava a scegliere la via facile, piena di gioia e di piacere, dove avrebbe assaporato tutti i godimenti del corpo senza affaticare la mente e lo spirito. L’altra, non meno bella, ma grave ed austera nell’aspetto (Aretè), gli indicava la via della virtù, via aspra e difficile, ma che conduceva alla gloria ed all’immortalità. Eracle, dopo aver meditato a lungo, soppesando nell’animo le due alternative, scelse infine Areté. E questa via percorse, come abbiamo visto, fino in fondo, meritandosi da ultimo l’apoteosi ed una fama eterna.

E’ forse questa la cosa che l’iniziato, noi tutti, dovremmo tenere sempre presente: respingere il vivere facile, privo di emozioni, piatto, abulico, inetto, per dedicarsi ad un lavoro incessante e faticoso, come ci ricorda il nostro rito di iniziazione e percorrere invece un cammino più spirituale nella vita di tutti i giorni. Questo è il vero significato della nostra Istituzione.

Ercole raffigura l’Uomo, quello di ieri, di oggi ed anche del domani. E’ questa la vera, unica, importante forza del mito e del simbolo: l’Immortalità.

Qui si conclude la storia di Eracle, che allude al progredire dell’individuo dall’ignoranza alla saggezza e dal desiderio materiale alle aspirazioni spirituali. Ciascuno di noi è chiamato spesso nella vita a simili prove, che verranno superate con alternarsi di successi e di fallimenti, ma con la costanza, la determinazione e la forza di Eracle, emergerà sicuramente il meglio di quello che c’è dentro di noi.

 

 

APPENDICE

Di seguito ho voluto tracciare altri spunti per chi volesse fare una rivisitazione ulteriore del mito-simbolo di Eracle e per aprire ancora un po’ quella finestra della quale avevo accennato all’inizio.

A cominciare da tutti i viaggi che egli compie un po’ in tutto il mondo allora conosciuto, dall’India all’Africa, dall’Asia fino alle colonne che lui stesso aveva innalzato alla fine del mondo ed oltre. E poi:

  • Le 12 fatiche come una complessa iniziazione
  • Come una scala di 12 gradini verso la perfezione
  • Le sue 12 fatiche come i simboli dei segni zodiacali come si vedono nel nostro tempio
  • La liberazione di Prometeo ed anche quella di Teseo
  • La lotta con il gigante Anteo
  • L’innalzamento delle due colonne
  • L’uccisione del mostro Caco sui colli dove sorgerà Roma
  • La lotta con il dio marino Nereo che cambiava continuamente il suo aspetto
  • Admeto ed Alcesti, un bellissimo racconto sul valore dell’amicizia
  • L’uccisione dello stesso Augia che non aveva voluto rispettare i patti
  • La lotta con il dio Apollo per ottenere il tripode sacro che era nel suo santuario
  1. L.

“Il mito racconta una storia sacra, riferisce un avvenimento che ebbe luogo nel tempo primordiale, il tempo favoloso degli inizi. Vivere i miti implica un’esperienza veramente religiosa, non si tratta di una commemorazione di eventi, ma della loro ripetizione. Le persone del mito sono rese presenti, si diventa loro contemporanei”.

Mircea Eliade  (“Fisiologia del mito”)

 

 

AFRODITE-VENERE

 

 

Esiodo, nella sua opera “La Teogonia”, ci racconta in maniera spettacolare quello che accadde una notte ai primordi del tempo: “sull’isola di Cipro, gelata dal freddo, sor­geva un’alba plumbea, fosca. La lunga notte era stata spa­ventosa: la bufera aveva imperversato, rovesciando masse dì pioggia e di grandine, sollevando nel mare ondate enormi, più nere delle tenebre, in mezzo all’urto continuo dei venti, sotto il rombante martellare dei tuoni e delle folgori. Era parso che tutto il mondo esplodesse, si frantumasse, precipitasse in un immenso rovinio; questo terrore era durato molto a lungo; la notte era parsa senza fine; la terra aveva creduto di non poter respirare, attanagliata tutta dall’angoscia. Poi, ad un tratto, il vento s’era calmato; la pioggia, la grandine, il fulmine erano cessati; anche la violenza del mare s’era placata. Ora una luce livida andava diradando le tenebre, diffondendosi pian piano tra il mare tetro e la pesante coltre di nuvole che copriva tutto il cielo. Un misterioso silenzio invadeva la natura che fino a poco prima era stata sovvertita da un così turbinoso fra­stuono; il mondo ora giaceva avvolto da un attonito stupore, come preso dal panico per un nuovo, ignoto evento, di qualche cosa che dovesse scatenarsi con più orrenda vee­menza a compiere la rovina della bufera da poco cessata, op­pure dovesse sopravvenire a cambiare la faccia delle cose e la ragione e il modo stesso dell’essere.

La luce avanzava gradatamente dall’oriente; nella spessa coltre delle nubi si notava qualche squarcio; attraverso gli squarci occhieggiava un cielo più chiaro, d’un colore lattiginoso, quasi di perla; contro il cielo cominciava a stagliarsi, ancora informe, la massa montuosa dell’isola; anche nel mare, fin allora invisibile nelle tenebre, si avvertiva il va­riar delle onde con qualche vago luccichio. Ma la luce aveva fretta: ben presto avanzò a fiotti, la­cerò le nubi, si precipitò attraverso gli squarci ad invadere terra e mare, a restituire i colori e le forme alle cose. Un miracolo si compiva. Nel cielo fu tutto un tumultuare di strane forme sempre cangianti, un accozzarsi, un sovrap­porsi, un fondersi, un separarsi nuovamente di mille colori, sempre diversi di momento in momento, uno sfrecciare di lame di luce, di fasci di raggi tra i fori delle nubi grigie, rosse, turchine, violette, un diluviare di splendore sgorgante dagli azzurri squarci delle nubi orlate d’abbaglianti frange d’oro e d’argento. Nel cielo d’occidente una invisibile mano so­prannaturale tracciò all’improvviso un immenso arco multi­colore da un estremo all’altro dell’orizzonte, che pareva congiungere con un aereo ponte il mare con l’etere, il mondo creato con la sede eterna degli dei.

Il mare rifletteva tutta questa fantasmagoria del cielo, aggiungendo a quelle meraviglie lo svariare dei suoi colori e dei suoi luccichii, il fiorire delle sue spume, l’ansare pos­sente delle sue onde. Intorno agli scogli che orlavano le co­ste dell’isola era tutto un ribollire di spume candide, argen­tee, perlacee, come gemme iridate, ricadenti in pioggia luminosa sugli scogli stessi, coperti di verdi alghe e di teneri muschi. Ora il terrore dell’orrida notte trascorsa era dissipato, i cuori si sentivano a poco a poco sciolti dall’angoscia; al sen­timento di un’oscura minaccia andava subentrando come una vaga speranza, di un prodigio gaudioso, che recasse alcun­ché di nuovo nella vita del mondo.

Ed ecco che dal mare, dalla terra, dal cielo cominciarono a levarsi voci, canti, suoni, dapprima come echi lontani, vaghi, indistinti, poi a poco a poco più chiari, più vicini, più vibranti, come cori di mille sirene, che affascinavano i cuori, diffondendovi un nuovo misterioso sgo­mento. Ben presto luci, colori e suoni si fusero tutti in una vasta sinfonia, che risonò in tutto il creato, e il sole apparve trionfalmente in tutto il suo fulgore, in mezzo ad un corteo di nubi d’oro e al dilagare dell’azzurro nel cielo; nello stesso tempo, nel mare, tra il ribollire delle candide spume e lo scintillio delle stille emersero torme di delfini, sciami di ninfe, coorti di tritoni e di altri dei marini; infine, in mezzo ad essi, ritta in una conchiglia di madreperla, amman­tata da un’onda di capelli d’oro e da una nube di morbidi veli, tessuti d’oro, d’argento, di perle e di diamanti, emerse Afrodite tutta bella, dagli occhi azzurri, dalla dolce voce e dal sorriso pieno d’incanto.

Allora la natura fu tutta un sorriso, una trepida gioia invase i cuori degli esseri viventi e delle piante e delle cose, che non ancora conoscevano il sorriso, non ancora conoscevano la gioia; ché era nata la bellezza; dalla spuma del mare era nata colei che ammalia le menti, blandisce gli animi, intenerisce i cuori, Afrodìte, l’amica del riso, Afrodìte, la persuaditrice d’amore. Allora anche dalla terra e dal cielo accorsero a sciami dei e ninfe, a contemplare la bellezza vi­vente e la gioia del mondo, e da ogni parte esplose un coro osannante: “Lode a te, alma figlia di Giove, Venere bella, prediletta dagli uomini e dagli dei, senza te la terra era tutta un orrore; te fuggono i venti; al tuo arrivo si disperdono le nubi; sotto i tuoi piedi leggeri fiorisce l’erba di fiori odorosi; col tuo dolce sguardo rassereni i giorni foschi, rendi chiaro e tranquillo il mare, fai risplendere il cielo di mag­gior luce; gli uccelli tra le fronde cantano la tua venuta; allettato da te, ogni animale ti segue dovunque; nel cuore di tutti tu accendi l’amore, e così fai che si conservi il mondo; salve, dea bella, e colmami sempre d’ogni tua grazia”.

E subito Afrodìte ascese all’Olimpo in un carro di alabastro tirato da due cigni, e le fecero corteggio le Ore, tra voli di candide colombe e di garruli passeri. E sulla terra finì l’orrido inverno e venne la dolce prima­vera”

 

Racconto mirabile, dicevo prima, ma talmente entusiasmante che ci fa pensare inevitabilmente alla luce che squarcia le tenebre, il bene che vince sul male, il bianco sul nero, la notte sulle tenebre, l’ordine sul caos. Ed anche a quando Dio disse: “e che la Luce sia…” cosicché questa si separò dalle tenebre e illuminò la coscienza dell’uomo.

Ma analizzando questa antica fonte mitologica si possono scoprire molti altri aspetti simbolici: innanzitutto le onde del mare, che sono fecondate dalla spuma uscita dai genitali di Urano (il cielo), recisi dal figlio Crono, un atto di unione delle energie celesti con quelle vitali delle onde del mare: si tratta di un simbolico atto d’amore. Il mare è la culla della nascita di Afrodite e della vita stessa. Sono molti coloro che ritengono, che la vita sia nata nel mare, o meglio in un brodo primordiale costituito da una miscela di ammoniaca, metano, idrogeno e acqua, la quale, secondo i risultati del celebre esperimento di Stanley Miller del 1953, produsse un primo coacervo organico proprio grazie alle uraniane scariche elettriche che infestavano il cielo circa quattro miliardi di anni fa. Recentemente a questa ipotesi della comparsa dei primi amminoacidi si è fatta strada la più moderna, delle comete e dei meteoriti portatori di molecole organiche extraterrestri, la quale, dal punto di vista simbolico, rappresenta comunque  un celeste e fulmineo veicolo di discesa fecondante. Afrodite, quindi, quale signora della vita.

Il suo influsso aiuta a sviluppare nell’individuo la percezione della propria bellezza interiore, il senso dell’armonia ed aiuta anche a sviluppare le qualità artistiche. Pur nell’esaltazione delle qualità femminili, non va dimenticato che Venere è l’astro reggente della Bilancia (segno maschile – elemento Aria), per cui rappresenta l’equilibrio tra maschile e femminile e tra le forze opposte in genere (l’Amore è la qualità armonizzante per eccellenza). La connessione di Venere con il senso estetico e la bellezza creativa genera nell’artista lo stimolo per utilizzare parole, immagini, suoni o la materia stessa per esprimere i suoi sentimenti e le sue emozioni interne.

Una tradizione mitica molto antica, già nota all’Odissea di Omero, le dà come sposo lo storpio Efesto-Vulcano e come amante il selvaggio Ares-Marte. Le pitture pompeiane ci rappresentano bene ciò che accadde poi ai due amanti:  “Come ebbe Efesto udita la triste novella, corse alla sua fucina, macchinando atroci disegni. Pose una incudine sul grande ceppo, e batté dei legami che niuno sciogliere o frangere potesse, per coglierli entrambi. I due nel letto entrarono, nudi, e presero sonno; ed i lacci artificiosi intorno scattaron…” Efesto espose i due amanti al ludibrio di tutti gli dei e non voleva più liberarli, ma l’amore non si può imprigionare, quindi si lasciò persuadere da Poseidone-Nettuno a farlo. Resta il fatto che dall’unione del Principio Femminile (Afrodite) col Principio Maschile (Ares), chiusi tra le maglie d’una rete non apribile, quasi un Atanor alchemico, forgiata da un fabbro divino, zoppo e mago, nasce una splendida figlia: Armonia.

 

Quando le tre dee: Era, Athena ed Afrodite cercarono di convincere Paride nel pronunciarsi su chi di loro fosse la più bella, Athena così parlò: “scegli me, pastore, ed io ti darò saggezza e prudenza, con le quali vincerai ogni battaglia”. Poi, come ben sappiamo, vinse Afrodite con un’offerta che non si poteva rifiutare: promise che, se avesse indicato lei, avrebbe sposato la donna più bella del mondo: Elena.

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Secondo Mircea Eliade, il mito costituisce una “ierofania”,

e cioè una vera e propria manifestazione del sacro.

Pertanto, esso non riguarda affatto eventi

ordinari o banali, ma è un racconto

sacro, sempre duttile, non dogmatico

e fondamentalmente simbolico.

 

ATHENA-MINERVA

 

Platone spiega la parola Athena con A-theos-noa: “mente di dio”. Cioè Athena è un modo di pensare e di vivere. E’ una guida interiore.

Tutta la mitologia ed il significato esoterico di questa divinità ruota intorno alla sua nascita. Narra il mito che dapprima Zeus non aveva in sé la saggezza che si addice ad un re, ma ogni volta che doveva decidere qual­che cosa, non sapendo distinguere il bene dal male, si rivol­geva alla dea Metis, la quale era, al contrario, tutta saggezza e prudenza e gli dava preziosi consigli. Così avvenne che Zeus s’innamorò della sua consigliera e volle farla sua sposa, ma il Fato (quella entità che stava al di sopra anche degli stessi dei) aveva stabilito che, se da Metis fosse nato un figlio di sesso maschile, questo sarebbe stato il re di tutti gli dei, così come era già accaduto per Urano prima e Crono dopo. Allora Zeus, temendo di essere spodestato, come seppe che la moglie attendeva un bambino, per impedire la temuta profezia, e nello stesso tempo per tenere sempre con sé la sua preziosa consigliera, la ingoiò. In questo modo Metis continuò, dall’interno del suo sposo e re, a consigliarlo, indicandogli il bene e il male.

Ma l’espediente di Zeus non valse ad arrestare la gesta­zione di Metis e, quando il tempo fu trascorso, venne l’ora del parto. Non era però Metis che soffriva all’avvicinarsi dell’even­to, bensì Zeus. Egli infatti fu assalito da violenti dolori di capo; si lamentava e si agitava sempre più fra i crescenti spasimi, l’Olimpo e il mondo piombarono in una tetra oscurità. Finalmente fu Metis stessa che, dall’interno del corpo del suo signore, gli suggerì il da farsi, e subito Zeus si diede ad invocare a gran voce Efesto.

Come questo giunse sulla vetta dell’Olimpo, tutti gli dèi gli fecero largo, e Zeus, come lo vide, gli ordinò di fendergli il cra­nio con la scure. Il comando di Zeus fu così imperioso, che Efesto non esitò più: alzò la scure e la calò sul capo dell’onnipotente con un colpo che spaccò il cranio come una ‘melagrana matura.

Ed ecco che dalla fenditura balzò fuori, emet­tendo un altissimo grido una figura fulgidis­sima, alta, solenne, armata di scudo, elmo e lancia, bellis­sima nel corpo e nel volto, con occhi grandi e dallo sguardo severo ed insieme sereno. Dal cervello di Zeus era nata Athena.

Zeus, risarcita subito la ferita e liberato da ogni sofferenza, abbracciò la figlia e così la salutò : “Salve, Pàllade Athena, figlia mia prediletta; in te si accentra tutta la saggezza della madre e del padre tuo, in te l’alto intelletto, in te la forza, in te l’animo grande. Tu sarai la signora della sapienza, l’inspiratrice delle arti fem­minili, la protettrice della pace delle città; ma sarai anche la signora della guerra, della guerra giusta e saggia, difen­ditrice della pace e del buon diritto e aliena dalle cieche stragi. Prendi, questa è la mia ègida; con essa tu incuterai terrore nei nemici della giustizia e del bene, sgominerai coloro che vogliono la guerra per amor della guerra e del sangue. Per tali tuoi pregi gli dèi ti venereranno e gli uomi­ni ti adoreranno in tutti i luoghi e in tutti i tempi”. Così la salutò il padre Zeus, così la accolsero i celesti onorandola. All’urto del piede della dea dai grandi occhi azzurri si scrollò l’Olimpo, tremò la terra, si agitò il mare; e il cielo rifulse in tutto il suo splendore.

 

Per capire ancor meglio il carattere di questo mito e trarre spunti di riflessione, è utile analizzare anche la gara che ci fu tra Poseidone, il dio delle acque, e la stessa Athena. Ambedue questi dei avrebbero voluto che il loro culto ponesse le radici in una grande città dell’Attica che il Fato aveva destinata a diventare la più potente sul mare. Ma né l’uno né l’altra voleva cedere, né valeva l’autorità di Zeus a dirimere la di­vergenza tra il potentissimo fratello e la forte figlia. Da ultimo Atena propose : “Lasciamo la decisione agli stessi abitanti: ciascuno di noi due presenterà alla città un dono; i cittadini , giudicheranno quale dono sia per essi più gradito e più utile e in base a tale giudizio sceglieranno chi di noi due avrà la signoria della città e le darà il nome, istituendovi il proprio culto e prendendola sotto la propria particolare protezione”. Si adu­nò il popolo con a capo il re Eretteo sull’Acròpoli, gli an­ziani della città si raggrupparono dietro il re e tutti si disposero tutt’intorno. Nel mezzo, in un vasto spazio vuoto, stavano i due numi: Poseidone batté col tridente un colpo sul suolo, ed ecco subito sor­gere dalla terra un magnifico cavallo dal lucido pelo fulvo che pareva di seta, con criniera e coda lunghe, folte, corpo snello, slanciato, gambe sottili, nervose, testa piccola, orecchie ritte, aguzze, occhi ardenti, vivacissimi. Come la bella bestia stette accanto al dio batté più volte la terra con uno zoccolo ed emise uno squillante nitrito. “Ecco – disse Posidone – ecco il mio dono. Quest’ani­male sarà il più grande amico e servo dell’uomo. Esso è ve­loce e forte, animoso e docile; impetuoso in guerra, resi­stente ai disagi ed alle fatiche, generoso e fedele al suo si­gnore; nessun animale è più bello del cavallo, nessuno è al­trettanto utile”. Un’alta acclamazione si levò dagli astanti a sottolineare le parole di Poseidone.

Allora si fece avanti Athena e con la sua lancia toccò il suolo, Nel punto toccato nacque, germogliò e crebbe una pianta modesta, col tronco sgraziato, contorto, dalla scorza ruvida, screpolata, con rami anch’essi contorti, rivestiti di foglie dure a forma di piccole lance allungate, di color grigio bruno in una faccia, bianco argenteo nella faccia opposta. Le fronde erano cariche di piccole bacche ovali, di un colore ne­riccio lucido. La pianta non aveva la statura eccelsa del ci­presso o del pino, né la grandezza della maestosa quercia o del possente leccio, né i suoi piccoli frutti presentavano i colori seducenti delle mele o delle ciliege; essa era tutta umile, di statura, di estensione, di colore, pareva quasi temesse, si vergognasse di mostrarsi. La dea colse una manciata di quelle bacche e le strizzò tra le dita, facendone colare un liquido color oro pallido.

“Questo – disse – è il dono che vi offre Athena: I’olivo. Questo liquido che produce il suo frutto vi servirà per ren­dere infinitamente più gradevoli i vostri cibi; vi servirà per illuminare le vostre case la notte. A lume delle lucerne po­trete intrattenervi a conversare la sera, e le vostre don­ne potranno vegliare con le ancelle, filando e tessendo e can­tando; unti d’olio i vostri arnesi di lavoro, quando staranno da parte in riposo, saranno preservati dalla ruggine; spal­mati d’olio, i vostri corpi avranno la pelle più morbida e sa­ranno più agili; ciò che rimane delle olive, dopo l’estrazione dell’olio, sarà di grande alimento ai vostri fuochi. Se accetterete il mio dono, modesto in apparenza, avrete un’immensa ric­chezza, perché tutta l’Attica sarà popolata di piante come questa. Ma la maggiore ricchezza sarà la pace, perche l’amo­re di questa pianta e dei benefici ch’essa arreca vi farà pren­dere in odio la guerra. Ora scegliete”.

Un profondo silenzio accolse le parole di Athena. I citta­dini erano turbati; non capivano; guardavano da una parte il superbo cavallo che scalpitava e nitriva, scuotendo il capo ed agitando la bionda criniera, dall’altra il pallido olivo svariante al vento e carico di lucide bacche, così modeste all’apparenza, ma racchiudenti un aureo liquore ricco di be­nefici. E guardavano la dea; ed essa li guardava, uno per uno, e dai suoi azzurri, placidi, emanava come un pa­cato influsso che scendeva nei loro animi ed invadeva le loro menti. Bellezza e bontà, impeto e tenacia, superbia e mode­stia, potenza e giustizia, audacia e prudenza, guerra e pace: queste erano le immagini contrastanti in cui, nelle menti dei presenti, si traducevano gli aspetti del cavallo e dell’olivo, di Poseidone e di Athena. Infine uno degli anziani più autorevoli fece un cenno agli altri per­che tacessero e, avanzatosi in mezzo all’assemblea, così parlò : “Udite, cittadini. lo sento che i vostri pareri sono di­scordi; ciascuno di voi non sa discernere, nel proprio giudi­zio, quale dei due doni sia preferibile. Ma a me un nume certo inspira un pensiero, che ora vi esporrò, e voi poi de­ciderete. I due doni sono entrambi altamente pregevoli: il cavallo rappresenta l’ardire, la forza, la guerra; l’olivo sim­boleggia il lavoro, la serenità, la pace. I beni che arreca la guerra sono inebrianti, ma incerti e caduchi; quelli che arreca la pace sono meno vistosi, ma sicuri e duraturi e pro­ducono un progresso costante e indistruttibile della vita dei popoli e degli individui. lo ritengo che saggezza consigli di preferire la pace alla guerra, l’olivo al cavallo”.

A queste parole il volto di Poseidone si rannuvolò, gli oc­chi di Atena raggiarono di un sorriso. Il popolo rimase qualche istante in silenzio, meditando le parole dell’oratore; poi tutti, con le parole, coi gesti, espressero unanimemente la loro approvazione.

Poseidone allora s’indignò e disse : “Vi pentirete della vostra scelta! Io avrei fatto di voi il popolo più potente della terra; ora invece voi infiacchirete in una vita rinchiusa nei vostri lavori, nelle vostre elucubra­zioni, senza slanci, senza splendori di vittoria e di gloria. Rimpiangerete questo giorno ! No – replicò Athena – ben altri splendori irradierà nel mondo la fama di questa città, col mio nome con la mia protezione. Essa si chiamerà Atene, e questo nome si dif­fonderà nel mondo e nei secoli con le virtù dei suoi cittadini, con la loro multiforme attività, con l’eccellenza nelle leggi, nelle scienze, nelle lettere, nelle arti. Con  le arti della pace, Atene sarà la più bella e la più insigne di tutte le città della Grecia; ma con le arti della pace gli Ateniesi appren­deranno anche i modi migliori per vincere le guerre in di­fesa della ‘propria patria, e in questo campo coglieranno al­lori non meno inestimabili e conseguiranno trionfi dei più fulgidi: perché Athena non è solo maestra di sapienza in pace, ma anche di accortezza in guerra, di meditato valore, di caldo amor patrio. Queste parole di Athena persuasero ancor più i cittadini, i quali acclamarono alla dea.

Allora si fece innanzi il re Eretteo. “Potentissimo signore del mare; scuotitor della terra, – disse – non t’incresca che il popolo di questa città abbia decretato la palma della vittoria in questa nobile gara alla figlia di Zeus, adottandone il nome. Non per questo noi Ateniesi cesseremo dal venerarti e dal dedicarti solenni sacrifici. Oggi stesso immoleremo sui tuoi altari e su quelli di Athena e di Zeus le vittime di un’ecatombe e ti pregheremo di non toglierci la tua protezione e il tuo favore, poiché sap­piamo che la nostra vita si svolge e si svolgerà sempre in gran parte sul mare. Il popolo dell’ Attica si dedicherà alla coltura del pacifico olivo, ma costruirà anche navi in gran numero, per portare, coi suoi traffici, con le sue attività, il nome di Atene e il culto dei suoi dei in tutte le parti del mondo. E qui, su questa rocca, in questo punto, dove voi, nostri benigni protettori, ci avete dato, con tali prodigi, i segni di così alta benevolenza, io innalzerò un tempio, in cui entrambi voi sarete egualmente onorati nei secoli”.

A tali promesse, il cuore di Athena si colmò di giubilo e il corruccio di Poseidone si placò: le promesse di Eretteo furono mantenute, e presto sorse il tempio da lui annunziato, che dal suo nome fu detto Eret­teo. Più tardi poi gli ateniesi costruirono sulla medesima acropoli un grandioso tempio in onore della vergine Athena, che fu detto Partenone, e sulla cima più alta del colle venne innalzata una gigantesca statua alla dea vergine. E la protezione dei due numi si manifestò con mirabili effetti. L’ Attica divenne ben presto tutto un giardino di olivi; la città di Atene divenne, col passar dei secoli, il centro più vivace delle attività umane: legislatori, filosofi, storici, oratori, poe­ti, architetti, scultori nacquero e fiorirono in gran numero nella città protetta da Athena; da essa partirono e s’irradia­rono su tutte le coste del Mediterraneo numerose colonie, diffondendo dovunque la fama ed il prestigio della madre­patria. Fulgidissimo faro di civiltà nelle arti della pace, Atene peraltro fu anche grande in guerra, finché si trattò di respingere i barbari invasori o di stornare dalla città le minacce alla sua indipendenza e alla sua libertà: genialità di strateghi e virtù di popolo valsero a salvare la patria con memorabili vittorie per terra e per mare. Athena dunque mantenne anch’essa le sue promesse, e Poseidone non la ostacolò, finché il popolo ateniese si mantenne fe­dele alla devozione della sua dea e ossequiente alle ispirazioni di saggezza e di prudenza che da essa emanavano. Quando questo non fu più, Atene decadde e non si rialzò mai più.

 

Athena, la forte, la saggia, era considerata la custode del tribunale, colei alla quale spettava l’ultima parola. Aveva donato agli uomini la briglia per i cavalli, il rastrello, l’aratro, il giogo, la nave, il carro. Era dea della filosofia (uno dei suoi simboli era infatti la civetta), delle arti, del lavoro delle donne. era inoltre la patrona dei tessitori, dei muratori, dei carpentieri, dei fabbri, degli insegnanti (ancora oggi è il simbolo dell’università “La Sapienza”, dei poeti, dei medici e degli scrittori. E non bisogna dimenticare che è Athena che, al termine delle sue 12 fatiche, introduce Eracle nell’Olimpo, quindi Minerva è anche la dea dei passaggi, mediatrice tra terra e cielo. Era detta anche Pallade, cioè depositaria del Palladio, il simbolo della tradizione. Chi lo possedeva aveva il diritto di governare. Era il simbolo della benevolenza di Zeus, tanto è vero che, quando questo talismano fu trafugato dai greci dalla città di Troia, questa fu subito espugnata. Enea portò poi il Palladio con sé durante la sua fuga dalla città in fiamme e fece in modo da farlo rimanere nella futura città di Roma. Il Palladio può essere accostato alla Skiekinah ebraica, perché anche presso questo popolo, il simbolo esprimeva la presenza della divinità e la sua alleanza con un popolo ed una civiltà di cui legittimava l’esistenza stessa. Quindi era la dea della guerra vittoriosa, tanto è vero che i suoi templi ospitavano anche una statua della Vittoria.

Il dono-simbolo di Athena alimenta le lampade, quindi illumina il buio. Ma, dal simbolo della luce fisica, si può passare alla riflessione della luce interiore. Era una dea molto riflessiva, cauta e per noi è l’equivalente di chi ha dei dubbi, che sono poi i fondamenti di ogni conoscenza. Le analogie con i precetti della nostra Istituzione, con ciò che noi vorremmo raggiungere, con quello che ricerchiamo nella Massoneria, sono numerose, ma vale per tutti quella differenza tra i due doni-simbolo delle due divinità e la scelta sensata che gli uomini hanno fatto in quel caso.

In alto, nei pressi dell’occhio onniveggente della Sapienza, all’interno del Tempio, si leggono tre parole: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Attraverso questi principi fondamentali, non solo nella Massoneria, ma in ogni società civile, è possibile procedere, nel coltivare e nel tramandare gli esoterici insegnamenti ed i preziosi semi della Tolleranza che ha la forza di Ercole, della Solidarietà che ha il conforto della Venere celeste e della Saggezza che è la maggiore qualità di Minerva.

L’evocazione della triade greco-romana nel contesto dei nostri lavori è pertinente, logica e calzante, perché rinvia gli attributi divini tramite i quali il massone è chiamato a riattualizzare l’atto creativo operato all’inizio dal GADU. A questi attributi deve fare riferimento il massone nel corso della sua opera, e Minerva Athena riassume in sé tutti e tre gli attributi. Come il Maestro Venerabile questa è la figura ideale.

Da ultimo un pensiero all’autore materiale di queste immagini che, purtroppo, ci ha lasciati così prematuramente. Un pensiero alle sue fatiche e alla sua dedizione, a tutto l’amore che ha messo nella costruzione operativa del suo e del nostro tempio per regalarci questi spettacolari affreschi. Grazie, Fratello Fabrizio.

 

M L 2015

 

 

 

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