Close up of hard hat, pencil, measuring tape and building plans
I GRANDI EVENTI . Dall’Europa in fiamme all’uomo sulla luna.
I piccoli e grandi
avvenimenti della storia che hanno cambiato la nostra vita. di Gianni Faustini
TRENTO. Dal 1945 ad oggi, in appena mezzo secolo, o poco
più, il sistema dell’informazione ha conosciuto rivoluzioni tecnologiche che
hanno modificato in profondo la fabbrica delle notizie. Basti citare due soli
riferimenti: la nascita e l’avvento della televisione che è oggi il più diffuso
mezzo di informazione; l’introduzione nelle tipografie dapprima della
composizione cosiddetta “a freddo”, che soppiantava quella “a
caldo”, con il piombo fuso, poi della computerizzazione, processi che
hanno portato, tra l’altro, alla pratica scomparsa dei tipografi che erano per
tradizione – in quanto “leggevano” per mestiere – la punta più
avanzata del sindacalismo europeo.
Per un breve periodo sembra crollare l’idea che scrivere e
leggere fosse il solo modo moderno di comunicare; la civiltà della scrittura
appare in discussione dal momento che milioni di persone ricevono messaggi
orali e visivi a distanza, ma il diffondersi di Internet ripropone nuovamente
la scrittura, ancorchè con modelli nuovi, e impone a tutto il sistema dei media
nuovi linguaggi basati su un misto di parole e immagini, di grafici, inquadrati
e fotografie, un linguaggio ibridato che vede i giornali usare schemi propri
della tv e quest’ultima ricorrere sempre più di sovente alla parola scritta per
illustrare meglio interventi governativi, andamenti delle borse e dell’economia
in genere.
Il sistema poi risente naturalmente delle vicende
dell’economia e della politica e non a caso molti osservatori definiscono
quello dell’informazione un sottosistema del sistema politico. In Italia,
inoltre, a differenza di altri Paesi europei il legame tra informazione e
politica è molto stretto e non occorre citare nomi famosi, da Mussolini a
Gramsci, da Alcide Degasperi a Cesare Battisti, da Spadolini a D’Alema, da
Giulio Andreotti a Veltroni, tutti giornalisti di professione.
Anche nel piccolo Trentino Alto Adige non si contano i
giornalisti, o operatori dell’informazione in senso lato, che sono passati alla
politica: Flaminio Piccoli, Giorgio Grigolli, Luciano Azzolini, Carlo
Andreotti, Giacomo Santini, Toni Ebner sr., Michl Ebner, Friedl Volgger, Ennio
Chiodi o, nel caso dell'”Alto Adige” Servilio Cavazzani, Rolando
Boesso, il direttore Luciano Ceschia, il caporedattore Luigi Mattei. Ora, una
sintesi che metta in parallelo i grandi avvenimenti mondiali, le intricate
vicende regionali, l’evoluzione della politica, gli sviluppi della tecnologia
sarebbe sicuramente troppo ambiziosa, ma qualche relazione si può forse fissare
sulla carta.
Il giornale nasce a Bolzano il 24 maggio del 1945, e vive a
lungo dentro l’orizzonte unitario del locale Comitato di Liberazione Nazionale,
anche quando le quote azionarie passano dai partiti a singole personalità,
espressione comunque dei movimenti politici: nella fattispecie Servilio
Cavazzani rappresenta il piccolo Partito Repubblicano. A Trento invece –
ulteriore conferma del legame tra stampa e politica – l’unità del CLN si rompe,
per la prima volta in Italia, proprio sulla gestione del quotidiano: la Dc esce
dal Comitato e fonda un periodico per conto proprio, periodico che si trasformerà
presto in quotidiano; tutti gli altri partiti restano assieme, anche se ad una
maggioranza di sinistra subentrerà in seguito una prevalenza
“liberale”, sostenuta finanzariamente dalla Edison, impegnata nella
costruzione della diga e della centrale di Santa Giustina.
Il giornale, anzi, chiude non appena il progetto viene
realizzato sicchè al gruppo milanese non serve più avere un appoggio locale, ma
l’eredità di abbonati e anche di tradizione ideale passa al giornale “Alto
Adige” che aveva aperto l’edizione trentina già il 21 marzo del 1946.
Anche per ragioni di mercato, insomma, il giornale bolzanino si posiziona a
fianco di tutte le opposizioni alla Dc – appunto l’eredità di quel che era
rimasto nel CLN trentino – e, dentro la Dc, a fianco dei gruppi che non
condividono le tesi della maggioranza del partito cattolico, gruppi che si
differenziano sui problemi dell’autonomia dapprima e sulla politica sociale e
di apertura alla sinistra, poi.
In politica estera il giornale è nettamente filoamericano,
nonostante le lamentele delle “sinistre” rappresentate nel consiglio
di amministrazione della società editrice, la Seta. Ricordiamo che nel 1948
nasce la Nato, che la guerra di Corea è del 1950-52, la Ceca, cioè la Comunità
del carbone e dell’acciaio è del 1951: il mondo è diviso in due dalla guerra
fredda,separato fisicamente dalla “cortina di ferro” e idealmente
dallo scontro comunismo – occidente capitalistico e liberale. In regione grandi
speranze sono riposte nella Regione che nasce il 13 dicembre del 1948, l’anno
della grande affermazione Dc alle politiche del 18 aprile. Il giornale in
provincia di Bolzano non nasconde un certo nazionalismo nel rapporto con il
gruppo di lingua tedesca: nel 1950 Flaminio Piccoli afferma che “l’on.
Facchin (in quel tempo presidente della Seta ndr) ha ricevuto ordini della
massoneria di lotta ad oltranza all’autonomia” e cita appunto il giornale
“Alto Adige”. Gli anni fervidi della ricostruzione vedono la Seta
acquisire nel 1949 la sede di Lungotalvera San Quirino costruita dal fascismo
con la porta fatta ad M, la sigla con cui firmava Benito Mussolini. Nel 1951 il
giornale di Trento muta testata ed esce con un’edizione di Bolzano che se non
riuscirà mai a rompere la predominanza del giornale “Alto Adige”,
sarà però sufficiente a movimentare un minimo di concorrenza dialettica.
Il successivo periodo è più tormentato: nel 1954 la disfatta
francese a Dien Bien Phu, in Indocina; nel 1955 con la conferenza di Bandung si
affacciano alla ribalta mondiale i Paesi non allineati nè a Mosca, nè a
Washington; nel 1956 la rivolta in Ungheria, repressa nel sangue e l’intervento
anglo-francese in Egitto, Paese indipendente dal 1953; nel 1958, per la
questione algerina, pieni poteri in Francia al generale De Gaulle che
riconoscerà l’indipendenza dell’Algeria con gli accordi di Evian del 1962.
L’Occidente è colpito dal lancio, nel 1958, del primo Sputnik, seguito nel 1961
dal primo volo nello spazio di Gagarin; per una ripresa degli americani bisogna
attendere il 1969 con lo sbarco sulla luna. Localmente entra in crisi la prima
esperienza regionalistica. Nel 1957 dentro la SVP si ha una sorta di golpe:
alla vecchia generazione degli Amonn, dei Braitemberg, dei Guggenberg, di Toni
Ebner, una generazione che in parte aveva a sua tempo optato per l’Italia,
subentrano i giovani colonnelli guidati da Silvius Magnago, un gruppo composito
che in gran parte – ma non tutto – aveva optato per la Germania; nello stesso
anno Magnago proclama a Castel Firmiano il “Los von Trient”, la
rottura, cioè, della Regione.
Gli anni che seguono presentano avvenimenti in apparenza
contradditori: nel 1961, ad esempio, viene costruito il muro di Berlino, un
simbolo pesante della divisione del mondo; nel 1962 la crisi di Cuba che si
manifestò contestualmente ad un nuovo grave attentato il che fece sì che i due
giornali locali, a differenza dei quotidiani del resto d’Italia e di tutto il
mondo, aprissero la prima con la notizia locale, tagliando però a metà la
pagina con un grande titolo su Cuba, in sostanza due titoli ugualmente forti,
ma se io penso a quella pagina – allora lavoravo nella redazione politica del
giornale trentino ed ero responsabile della prima pagina – non sono tuttora
convinto della soluzione adottata; nel 1963 viene assassinato Kennedy; nel 1964
escalation dell’intervento USA in Vietnam.
All’opposto altri segnali erano positivi: la convocazione
nel 1959 del Concilio Vaticano; la scelta di Bad Godesberg della
socialdemocrazia tedesca che apriva un faticoso itinerario di revisione del
marxismo da parte di tutte le sinistre europee, chi all’avanguardia, chi – come
il Pci italiano- con ritardi, esitazioni e ambiguità; nel 1962 si tenta il
primo esperimento di governo di centro-sinistra in italia; del 1963 è
l’enciclica “Pacem in terris”.
Lezione d’inno per il liceo Mameli- Fabrizio Caccia
«Non siete un coro geriatrico», e cento ragazzi cantano con
la mano sul cuore
Gli studenti del liceo classico «Goffredo Mameli» sono tutti
in piedi, nell’ aula magna. Cantano. Sono arrivati alla fine della strofa:
«l’Italia chiamò…Poropò, poropò, poropompompò…». Alt. Il professor Michele
D’Andrea, storico del Risorgimento e musicologo raffinato, barba di Mazzini,
occhialetti di Cavour, li ferma come se avesse in mano la bacchetta. «Alt. Voi
non siete il coro geriatrico del cronicario di Bordighera – dice – voi siete le
classi riunite del liceo Goffredo Mameli di Roma. Perciò l’inno nazionale va
cantato in modo diverso. Dovete pensare che siamo nel 1847, che l’Italia è
divisa in sette stati. Quest’inno, perciò, ha una forza devastante per il
popolo, Fratelli d’Italia è pura rivoluzione! Perciò ora ricominciamo. L’inizio
dev’essere cazzuto , scusi il termine signor preside. Fate tremare le
pareti…». […omissis…]
«Sapete perché l’inno di Mameli è poco amato? – spiega il
professor D’Andrea ai ragazzi – Solo perché viene eseguito male, come una
marcetta, senza fluidità, ingessato, non possente qual è. L’inno di Mameli,
invece, è perfetto perché richiama il senso musicale italiano, in fondo è il
nostro suono. C’è chi sostiene, come Michele Serra, che è un inno antiquato. Ma
scherziamo? L’inno olandese è addirittura cinquecentesco, quello americano
deriva dalla marcia di un club massonico inglese del ’700…».
Sarebbe contento, il presidente Ciampi, se fosse qui.
Giuseppe Nitoglia, 18 anni, terza liceo sezione B, confessa che lui in verità
ama di più l’inno inglese: «Ma una volta, sentendo l’inno di Mameli, diretto da
Muti alla Scala di Milano, mi sono emozionato». Federico Mastrolilli, suo
compagno di classe, dice che il problema non è l’Italia, «ma gli italiani».
Eugenia Magnanimi, Marie Rebecchi, Marina Falsetta, anche loro della terza B,
concordano: «Il milanese è diverso dal napoletano, dal romano, il campanilismo
prevale sul patriottismo. Ecco perchè l’inno è poco amato».
Il professor D’Andrea, poi, chiama 5 ragazzi sul palco per
spiegare il concetto che a una qualunque musica si possono dare tanti
significati. Per esempio quel motivetto cantato allo stadio: «Che ce frega del
cileno, noi c’avemo Totti-gol». Se cambi le parole: «Noi pugnamo per la patria,
noi vogliam la libertà». Ecco che da canto di curva si trasforma in canto
patriottico, chiarisce il prof. I ragazzi si divertono, applaudono. Due ore
scorrono veloci. Ma sono pur sempre i «ragazzi del Mameli», amano gli U2 e i
Cranberries, però alla fine chiedono di poter fare il bis. Il preside Capozza
gongola, D’Andrea allora riprende in mano l’ideale bacchetta. «Mi raccomando:
cazzuti . Ci scusi, signor preside…».
CHARLIE CHAPLIN E IL CELEBRE DISCORSO TRATTO
DA “IL GRANDE DITTATORE
Mi dispiace, ma io non voglio fare
l’Imperatore, non è il mio mestiere. Non voglio governare, né conquistare
nessuno. Vorrei aiutare tutti se possibile: ebrei, ariani, neri o bianchi. Noi
tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente. Gli esseri umani sono fatti così.
Vogliamo vivere della reciproca felicità, ma non della reciproca infelicità.
Non vogliamo odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per
tutti, la natura è ricca ed è sufficiente per tutti noi. La vita può essere
felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i
nostri cuori, ha chiuso il mondo dietro una barricata di odio, ci ha fatto
marciare, col passo dell’oca, verso l’infelicità e lo spargimento di sangue.
Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo
chiusi in noi stessi. Le macchine che danno l’abbondanza ci hanno dato povertà,
la scienza ci ha trasformato in cinici, l’abilità ci ha resi duri e spietati.
Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di
umanità. Più che d’intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e di bontà. Senza
queste doti la vita sarà violenta e tutto andrà perduto.
L’aviazione e la radio hanno ravvicinato le
genti: la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo,
reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. La mia voce raggiunge
milioni di persone in ogni parte del mondo, milioni di uomini, donne e bambini
disperati, vittime di un sistema che costringe l’uomo a torturare e
imprigionare gente innocente. A quanti possono udirmi io dico: non disperate.
L’infelicità che ci ha colpito non è che un effetto dell’ingordigia umana:
l’amarezza di coloro che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini
passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo
ritornerà al popolo. Qualunque mezzo usino, la libertà non può essere
soppressa.
Soldati! Non consegnatevi a questi bruti
che vi disprezzano, che vi riducono in schiavitù, che irreggimentano la vostra
vita, vi dicono quello che dovete fare, quello che dovete pensare e sentire!
Non vi consegnate a questa gente senz’anima, uomini-macchina, con una macchina
al posto del cervello e una macchina al posto del cuore! Voi non siete delle
macchine! Siete degli uomini! Con in cuore l’amore per l’umanità! Non odiate!
Sono quelli che non hanno l’amore per gli altri che lo fanno.
Soldati! Non combattete per la schiavitù!
Battetevi per la libertà! Nel diciassettesimo capitolo di san Luca sta scritto
che il regno di Dio è nel cuore degli uomini. Non di un solo uomo, non di un
gruppo di uomini, ma di tutti voi. Voi, il popolo, avete il potere di creare le
macchine, di creare la felicità, voi avete la forza di fare che la vita sia una
splendida avventura. Quindi in nome della democrazia, usiamo questa forza,
uniamoci tutti e combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore, che dia agli
uomini la possibilità di lavorare, ai giovani un futuro, ai vecchi la
sicurezza.
Promettendo queste cose i bruti sono saliti
al potere. Mentivano: non hanno mantenuto quella promessa e mai lo faranno. I
dittatori forse sono liberi perché rendono schiavo il popolo, allora
combattiamo per quelle promesse, combattiamo per liberare il mondo eliminando
confini e barriere, l’avidità, l’odio e l’intolleranza, combattiamo per un mondo
ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini
il benessere. Soldati uniamoci in nome della democrazia.
“Scriveva perchè la gente non fosse ingannata” – Luigi Mezzadri
Padre Luigi Mezzadri ha firmato la prefazione del libro che
viene presentato oggi il volume
“Sentinella quanto
resta della notte?”. Queste parole di Isaia (Is. 21, 11) mi sembrano le più
adatte a descrivere il ruolo di don Franco Molinari. Sentinella, non
comandante. Non aveva il carisma del capo. Non era fatto per decidere per gli
altri, per dare ordini, per imporre piani o strategie. Sentinella e non
monsignore. Com’era lontano dai felpati modi curialeschi! Sentinella e non
gregario. Non era uno dei tanti, uno del gregge (il “servum pecus” di Orazio).
Don Franco era un uomo originale, inconfondibile, che era sempre se stesso. Non
amava i benpensanti, coloro che ragionano col telecomando, che ripetono frasi
fatte o stereotipi da raccatto. Ma nemmeno li strapazzava. Non era uno di loro.
E questo gli bastava. Compito della sentinella è quello di vegliare. Ma nella
notte. Nel buio delle cose e delle coscienze..
[…omissis…]
Le pagine di Fausto
Fiorentini, che ho letto di getto, mi hanno restituito un po’ del sorriso di
don Franco, la sua ironia, hanno fatto rivivere il senso di tante battaglie.
Sono pagine partecipi, fluenti, informate e molto belle. Hanno, tra l’altro, un
pregio: non pretendono di scalfire il segreto dell’anima. A uno che ha letto
tanto di don Franco basta un aggettivo (i puledri scalpitanti, i metodi turchi,
le beghe meschine, il figlio del tuono) o un giudizio (la Massoneria cattedrale
laica della fraternità) per avere l’impressione che si sia dileguata la notte.
Ma poi ci si accorge che tali momenti sono come “il passare di un’ombra” (Sap.
2, 5). La notte si addensa di nuovo. Con lui si è chiusa una pagina di vita e
di storia, una stagione della Chiesa e della Società. Domandiamo nel buio:
“Sentinella quanto resta della notte?”. Ma la domanda resta senza risposta.
Questo fa capire quanto don Franco ci manchi.
Il libro “Franco Molinari, un comunicatore in
clergyman” di Fausto Fiorentini per le edizioni Berti verrà presentato
oggi pomeriggio alle ore 18, all’auditorium della Fondazione da padre Luigi
Mezzadri, professore all’Università Gregoriana di Roma, e dal Vescovo monsignor
Luciano Monari. Ai presenti la Fondazione farà omaggio del volume. Mezzadri
firma anche l’introduzione del libro. Di seguito ecco parte del suo intervento
di padre.
UNA GIORNATA PER RICORDARE DON MOLINARI – di FAUSTO
FIORENTINI
Era infatti uno studioso che si muoveva ugualmente bene sia
sulla frequenza del passato come su quella del presente. Per questo si trovava
a proprio agio sia sulle pagine della rivista universitaria come sul periodico
divulgativo. In altri termini riusciva a mettere d’accordo due professioni che
a volte vanno per strade diverse: lo storico e il giornalista.
[…omissis…]
Ha studiato i sinodi piacentini nei secoli passati e quando
la Chiesa locale affronta i lavori sinodali promossi dal vescovo Antonio Mazza,
si mette subito a disposizione per l’analisi delle origini storiche
dell’avvenimento. Ha scritto articoli sui santi piacentini perché aveva intuito
che la Chiesa piacentina era orientata a rivalutare, come d’altra parte sta
ancora facendo, le proprie origini. E non si tratta di tentazioni culturali, ma
di precise ragioni pastorali. Ragioni che vengono dalla realtà di tutti i
giorni e da senso del futuro. In questo don Franco Molinari era un maestro: lo
aveva appreso dagli studi storici e dal giornalismo militante, due scuole che
con il sorriso, ma con determinazione, utilizzava per fare il prete. “I
“peccati di Papa Giovanni” Studioso molto attento, don Molinari era un
divulgatore che, per stimolare i lettori, non esitò a usare l’arma di titoli
d’effetto come il noto “I peccati di Papa Giovanni”. Ovviamente lui si riferiva
ai peccati fatti da coloro che scrissero del “Papa Buono”, ma il titolo gli
procurò ugualmente qualche grana. Ha rischiato censure e richiami che poi sono
regolarmente rientrati quando i censori sono stati invitati a leggere i libri
incriminati. Affrontò anche temi scomodi come la Massoneria, che ha definito
“cattedrale laica della fraternità”, e il podestà Barbiellini, fondatore del
fascismo piacentino. Nella foto, don Franco è il primo a sinistra con il “Papa
Buono”. uno storico “prestato” alla religione Don Franco Molinari (nella foto
con Fausto Fiorentini, autore del libro su di lui) è stato soprattutto uno
storico: lo dimostra molto bene il libro che viene presentato oggi pomeriggio
alla Fondazione con la sua lunga scheda bibliografica, ma ha sempre avuto una
particolare predilezione per il giornalismo. Quando, dopo la prima messa, il
vescovo lo ha mandato a Roma per studiare storia, ha accettato con l’intenzione
di servirsi dello studio del passato soprattutto per interpretare il presente.
Per questo scrisse su giornali e riviste. Fu assiduo nella nostra redazione, ma
nello stesso tempo collaborò con altri giornali, dal semplice bollettino a
Famiglia Cristiana.
[…omissis…]
Il Tirreno
19.04.2002
“Non dobbiamo scuse a Sgarbi”
Il sindaco: “E’ lui che le deve a noi per le dichiarazioni
fatte”
Marcucci: “Non mi risulta che sia stato impedito fisicamente
al sottosegretario di entrare al Palace”
VIAREGGIO. “Il consiglio comunale non si deve scusare con
Sgarbi. È Sgarbi che deve delle scuse a me e alla città. Per quello che ha
detto. Per essersi permesso di dire che dovrebbe essere arrestato il sindaco
(Marco Costa, ndr) che ha fatto abbattere gli alberi intorno al monumento ai
Caduti. E per aver promesso – abusando del suo ruolo di sottosegretario – che
la Sovrintendenza boccerà il piano particolareggiato della Passeggiata. Un
piano che ancora non è noto, visto che da mesi stiamo lavorando alle modifiche
della proposta dell’urbanista Richard Rogers”. Marco Marcucci contro Sgarbi.
Sindaco contro viceministro ai Beni culturali. Primo round a distanza. In corso
mentre Vivere Viareggio reclama un dibattito in consiglio comunale sui
“fattacci” del Palace.
Vivere Viareggio chiede – e avrà – un consiglio comunale sul
fatto che “è stata impedita con la violenza e l’azione squadrista” la
partecipazione di Sgarbi al convegno sulle bellezze artistiche della Versilia
organizzato al Palace da Italia Nostra e Istituto storico lucchese. Il
dibattito in consiglio comunale, dunque, ci sarà. Quanto alle condanne
politiche, si vedrà. Anche perché – sottolinea Marcucci – “dalle informazioni
che ho assunto in questi giorni, non mi risulta che durante la contestazione (organizzata
da Rifondazione comunista, ndr) siano stati commessi gli atti di violenza
citati su un quotidiano locale. O che all’onorevole Sgarbi sia stato impedito
fisicamente di arrivare al convegno”. La polizia, in effetti, aveva offerto a
Sgarbi una scorta per accompagnarlo nella sala convegni del Palace, ma
l’onorevole ha preferito andarsene.
[…omissis…]
“Perché da mesi aspetto una risposta a una questione che ho
sollevato in consiglio comunale. Vorrei capire perché Antonio Dalle Mura
(Italia Nostra) e Federica Ghiselli (Istituto storico lucchese), con il
consigliere Alberto Benincasa di Vivere Viareggio hanno fatto un viaggio a Roma
da Sgarbi. Vorrei capire perché ci si lamenta con un viceministro del fatto che
la Sovrintendenza di Pisa decide di lasciar perdere il contenzioso con il
Comune sul vincolo della Passeggiata (annullato dal Tar, ndr) e perché ci si
lamenta del fatto che la Sovrintendenza incontri con un Comune per discutere di
un piano (quello di recupero della Passeggiata), come se il Comune fosse il
nemico. E’ poco trasparente il comportamento di chi va a chiedere a un
viceministro interventi punitivi o correttivi nei confronto di una
Sovrintendenza che agisce così. Cercare, attraverso proprie conoscenze, di
mettere un’istituzione dello Stato (la Sovrintendenza alle Belle arti) contro
un’altra istituzione dello Stato (il ministero dei Beni culturali) è un
esercizio che, nella storia d’Italia, è sempre stato proprio della Massoneria”.
Niente scuse per Sgarbi, dunque.
“No. È inaccettabile il comportamento di un rappresentante
di governo che viene in un comune proponendo l’arresto di un sindaco, seppure
precedente, o promettendo di far saltare un provvedimento che non conosce”.
Il Messaggero
19.04.2002
L’ATTRICE
Ne “L’ora di religione” c’è anche Piera Degli
Esposti. E’ la zia che esorta Castellitto “a godersi la vita, farsi un’amante”.
E soprattutto ad affiliarsi a qualcosa: “la massoneria, l’Opus Dei, il circolo
della caccia, la famiglia marchigiana. Va bene tutto, pur di avere un padrino”.
Irresistibile. Una di quelle scene che valgono una carriera.
La Nazione
19.04.2002
Gli è come lo strolago di Brozzi
“Gli è come lo strolago di Brozzi che conosceva la
merda a i’ ttasto”. Scusate la parola, anche se è quella che è, comunque
la battutaccia si fa ancora a chi pretende d’indovinare e invece dice cose
ovvie. Ma chi era questo “strolago”, astrologo? Si trattava di un
certo Rutilio Benincasa nonno (o zio) di Settimo Cajo Baccelli fratello minore
di Sesto Cajo Baccelli autore di quella “Guida dell’agricoltore” che
da 125 anni entra nelle nostre case portandoci notizie utili e dilettevoli per
tutto l’anno. Il Benincasa, anche a occhi chiusi, quando toccava una cacca,
diceva “Questa gli è una merda!”.
“Furbo come la capra dei pompieri” si dice invece
di una persona semplice, ingenua, sprovveduta. I pompieri di Firenze (o Guardie
del fuoco come vennero chiamati alla loro fondazione nel 1344) quando andarono
a portare i soccorsi a Messina distrutta dal terribile terremoto del 1908
(oltre centomila) trovarono, smarrita tra le macerie, una capretta che si
portarono con sé come mascotte. Sembra che questa capretta invece di andare a
brucare l’erba al Campo di Marte, che era alta e fresca, andasse a brucarla
nelle striminzite aiuole di piazza Vittorio, oggi piazza della Repubblica. Ma
forse tanto stupida non era quella capretta perché con tutti i caffé che
c’erano nella piazza qualche buon bocconcino l’avrebbe sempre rimediato dagli
avventori che affollavano i tavolini!
Quando si cincischiava senza concludere nulla, si
chiacchierava con gli amici e si perdeva la nozione del tempo, una volta ci si
congedava un po’ a bischero dicendo:
” Gli è bell’i’ ttocco e tra i’ppisciare e lo scotere
s’è fatta l’ora d’andare a desinare” . E qui non c’è proprio niente da
spiegare.
“Quant’è che un tu vedi la Marisa?” “E gli è
un gioedì…!” , un giovedì, da tanto tempo. Chissà per che il giovedì e
non un altro giorno della settimana; forse perché sta nel mezzo o perché, una
volta, era giorno di vacanza per gli scolari? Ricordate Pinocchio che avrebbe
voluto che la settimana scolastica fosse fatta di tre giovedì e quattro
domeniche?
“Un c’è trippa pe’ gatti.” Quel sindaco – ci fa
giustamente notare l’amico Giulio Brunner riferendosi al detto della trippa già
pubblicato – non si chiamava Nathau ma Nathan, era nato a Londra nel 1845
figlio della pesarese Sara Levi. Chiamato dal Mazzini a Roma prese la
cittadinanza italiana nel 1888. Nemico della politica colonialistica di Crispi,
anticlericale, fu Gran Maestro della Massoneria dal 1896 al 1903 e dal 1917 al
1919. Fu sindaco di Roma dal 1907 al 1913 (quando, correttamente, non aveva più
la carica di Gran Maestro) promosse l’edilizia e la scuola popolare. A lui si
deve la municipalizzazione dei servizi pubblici. Fu tra i fondatori della
“Dante Alighieri”. Morì a Roma nel 1921.
Il Resto del Carlino
18.04.2002
MUSICHE MASSONICHE PER L’ANT (Ass.ne Nazionale tumori)
Alle 20,30 presso la Sala Bossi del conservatorio
G.B.Martini a Bologna, in piazza Rossini 2, si terrà un concerto di musiche
massoniche dal titolo “Armonie di fraterne virtù”. L’orchestra da camera Milano
Classica insiema a Makoto Sakurada (tenore), Mario Carbotta (flautista), Andrea
Macinanti (Organista) e Massimiliano Caldi (direttore) suoneranno musiche
scritte da Giuseppe Sarti, Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Joseph Haydn. Il
ricavato del concerto, organizzato dalla Reale Loggia Prometeo con il
patrocinio del Grande Oriente d’Italia, sarà devoluto all’Associazione
Nazionale Tumori.
Il Giorno
18.04.2002
Quel “Derviscio benefico” è in perfetto simil-Mozart
(C.M.Ce.) “O Abdallah, mudi falla, hascha, wascha bu
badallah”, canta un coro di Dervisci. L’orchestra saltella su rintocchi di
tamburi, marcia fra squilli di ottavini e tintinnii di triangoli. Anche la
storia ricorda qualcosa. C’è un principe turco, Sofrano, che cerca la sua
principessa insieme a un servo-compagno popolare, Mandolino, gemellato a una
omonima fidanzata, Mandolina. Ci sono prove di coraggio e abilità con
interventi magici. La lingua è tedesca, l’orchestra del Settecento. La musica
“alla turca” ricorda il “Ratto dal serraglio”. Il plot tira deciso verso il
“Flauto magico”. Sembra Mozart. Non è Mozart. Meglio, è quasi Mozart.
Martin Pearlman, direttore americano dei Boston Baroque,
mette per la prima volta in disco (Telarc, in accoppiata con l’Impresario), il
delizioso “Der wohltätige Derwisch”, Il Derviscio benefico, operina in tre atti
uscita dal “giro di Mozart”. Scritta, cantata e recitata dalla compagnia del
teatro auf der Wieden di Emanuel Schikaneder, capocomico, impresario,
librettista del Flauto prossimo venturo, “Il derviscio benefico” andò in scena
nel marzo 1791, interpretato dai cantanti che saranno Tamino, Sarastro,
Papageno.
Mozart non scrisse nulla per questo singspiel di profumo
massonico (molti amici erano compagni di Loggia). Ma una cosa è certa: quando
andò in scena, Wolfgang Amadè era in sala e in testa gli frullavano le idee del
Flauto magico prossimo venturo. Suo, tutto suo.
La Stampa
18.04.2002
Una tortonese vince il premio Milano Classica con una
composizione m. t. m.
TORTONA. La tortonese Pamela Ferro, 25 anni, ha vinto il
primo premio assoluto, unico assegnato, al “IV Concorso di Composizione”
indetto dall´Orchestra da Camera “Milano Classica”, in collaborazione con il
Grande Oriente d´Italia e con il Conservatorio “Verdi” di Milano. Tema del
concorso, per allievi e tirocinanti dei corsi di composizione del
Conservatorio, era “La colonna d´armonia: la musica rituale massonica”. Il
pezzo della Ferro, “Katà Theòn”, presenta l´accostamento di due testi, uno
sacro e uno profano: sarà cantato in greco antico per evidenziare il carattere
criptico della musica. La premiazione di Pamela si terrà sabato al Teatro Dal
Verme di Milano: in programma la prima esecuzione del pezzo, direttore
d´orchestra Massimiliano Caldi. Replica il 20 maggio alla Palazzina Liberty.
Corriere della Sera
18.04.2002
ACCADEMIA FILARMONICA
Mozart per il Quartetto Stradivari e Luigi Alberto Bianchi
alla viola
Per la stagione dell’Accademia Filarmonica Romana, il Teatro
Olimpico ospita stasera un concerto del Quartetto Stradivari e della viola
Luigi Alberto Bianchi, che eseguiranno il Quintetto per archi k. 593 e il
Quintetto per archi K. 516 di Mozart. Sono due splendide testimonianze di
musica da camera, opera di un musicista arrivato alla piena maturità. Il primo
fu scritto al ritorno dal trionfo delle “Nozze di Figaro” a Praga e con già in
tasca la commissione del “Don Giovanni” ed è caratterizzato da un’aura
malinconica, a tratti disperata. Tre anni dopo, nel 1790, fu composto l’altro
Quintetto, su ispirazione di un “Amatore Ongarese”, forse Johann Tost, ricco
commerciante, buon violinista e anche lui massone.
Il Messaggero
18.04.2002
L’estrema destra si affida a Le Pen – di Melissa Bertolotti
E’ lui il terzo uomo delle elezioni presidenziali in
Francia. Secondo i sondaggi, un francese su cinque è d’accordo con lui e il 15%
pensa di votarlo.
PARIGI – Nessuno, e niente, è ancora riuscito a fermarlo.
Non ci è riuscita una condanna per la realizzare di un disco con canti del
Terzo Reich. Non ce l’ha fatta nemmeno un’espulsione dal Parlamento europeo per
aver picchiato, nel 2000, un candidato socialista. A 73 anni Jean-Marie Le Pen
ritorna. E, cavalcando il ruolo di paladino dell’estrema destra francese, si
ripresenta alle elezioni presidenziali del prossimo 21 aprile.
[…omissis…]
Sulla breccia dal 1956, quando a 28 anni divenne deputato
per il partito di Pierre Poujade, il capofila del Fronte Nazionale ha evitato
durante la sua quarta campagna presidenziale le solite boutade xenofobe e
antisemite. Apparso in televisione, invece, Le Pen ha vestito i panni del nonno
piacione. Ma il messaggio, di fondo, resta lo stesso di sempre: la Francia ai
”veri” francesi, basta con l’immigrazione, espulsione automatica con ritiro
di cittadinanza per gli ”stranieri” disoccupati o con la fedina penale
sporca. ”L’immigrazione – tuona – è la causa principale del fulminante
aggravamento dell’insicurezza”. Con altrettanta grinta si batte per la
soppressione dell’imposta sul reddito. Paracadutista in Indocina e in Algeria
negli Anni Cinquanta, Le Pen mostra un odio viscerale, e quasi ossessivo, nei
confronti di Chirac, che mai e poi mai ha accettato alleanza con lui. ”Jospin
è fedele alle sue idee socialiste, Chirac è un supermentitore e ha tradito le
sue idee a beneficio dei socialisti. Finanzia Megret contro di me”, accusa Le
Pen.
E non ditegli che è un estremista di destra, si infuria.
”Io – ribatte – sono rimasto un uomo di centro-destra. E’ il panorama politico
che è slittato a sinistra sotto la duplice spinta del liberalismo americanoide
e della massoneria”.
Il Messaggero
18.04.2002
L’uomo e la tecnica, un dibattito organizzato dalla
Massoneria.
“L’uomo e la tecnica” è il tema del convegno che
si terrà sabato presso il centro congressi Quattrotorri di Ellera di Corciano.
L’obiettivo dell’incontro, organizzato dal Collegio dei maestri Venerabili
dell’Umbria, è quello di fare il punto sul rapporto fra evoluzione tecnologica
ed umanità. “Abbiamo ritenuto importante – spiega il presidente del Collegio
dei maestri venerabili dell’Umbria, Giancarlo Zuccaccia – far partecipare il
mondo della cultura e degli studenti con interventi preordinati e presentazione
di temi svolti sull’argomento del convegno e relativa discussione”. Al convegno
interverrà il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Gustavo Raffi.
La Repubblica
18.04.2002 Ratzinger,
un cattolico ad oltranza. – di Marco Politi
Esce una biografia per i suoi 75 anni.
Città del Vaticano- Molto citato, poco conosciuto, Joseph
Ratzinger passerà certamente alla storia come uno dei più acuti uomini di
Chiesa della cerchia di papa Wojtyla, che lo volle giovanissimo (ad appena
cinquattaquattro anni) nel posto-chiave della curia vaticana: la Congregazione
per la dottrina della fede.
Nominato nel 1981, egli ha accompagnato e continua ad
accompagnare Giovanni Paolo II per tutto il suo lungo regno, diventandone
l’altra faccia. Se Karol è mediatico,
Joseph è schivo, dove il primo è profetico, il secondo è metodico, mentre
all'(apparente) irruenza del pontefice corrisponde la freddezza (apparente) del
porporato.
Nel suo intimo il cardinale tedesco, che l’altro ieri ha
compiuto settantacinque anni, è invece una persona delicata, arguta, che ama
suonare il pianoforte, come racconta bene Andrea Tornielli nella sua biografia
attenta e precisa: Ratzinger, custode della fede, edita da Piemme (pagg. 219,
euro 9,90). Epiteti logori come Panzerkardinal
non gli rendono affatto giustizia. Più illuminante è il suo motto episcopale
“Cooperatores veritatis”, collaboratori della verità, che ne delinea
l’aspirazione a farsi – come poi è accaduto – difensore dell’identità di Santa
Romana Chiesa.
A questa battaglia si è dedicato senza risparmiarsi, fino
allo scontro con altre personalità o movimenti impegnati, ad affermare identità e “verità” diverse. Certamente il suo impegno è stato essenziale
per tracciare i contorni e fissare i paletti della Chiesa, che Giovanni Paolo
II aveva in mente. Andrea Tornielli (che quest’anno ha pubblicato anche una
biografia di Martini) documenta esaurientemente come colpo su colpo il
cardinale abbia combattuto tutto ciò, che Wojtila considerava pericoloso:
l’accordo-compromesso fra anglicani e cattolici del 1982, la possibile
riabilitazione della massoneria, i teologi politici come Leonardo Boff o
dissenzienti in tema di etica sessuale
come Charles Curran.
In questa difesa
dell’identità cattolica tradizionale si iscrivono anche i suoi tanti no:
all’omosessualità, alla distribuzione della comunione ai divorziati risposati,
ai consultori cattolici che danno certificati utilizzabili per l’aborto, alle
donne prete.
Resistere per Ratzinger non ha mai rappresentato un
problema. “Per me la bontà implica anche la capacità di dire no, perché una
bontà che lascia correre in tutto, non fa bene all’altro”, ha dichiarato
recentemente. Identità – per il
cardinale e il suo Papa implica, necessariamente, autorità e qui, lo ammette
lui stesso, il suo mestiere di controllore della dottrina diventa difficile,
“perché il concetto di autorità quasi non esiste più”.
[…omissis…]
L’Avvenire
17.04.2002
Miss Liberty? È anche a Firenze – Pierangela Rossi
CURIOSITA’: La celebre statua americana ha un precedente
custodito in Santa Croce
Finora si riteneva che la Statua della “Libertà che illumina
il mondo” che in America accoglie i viaggiatori del mare, avesse dei precedenti
lontani, che avesse come antenati il Colosso che a Rodi sovrastava in antico il
porto. A Rodi sono state scoperte varie immagini del sole con una raggiera al
capo, e il Colosso nelle ricostruzioni aveva – come la Statua sull’isola di
Bedloe, davanti a New York, poi soprannominata “Madre di tutti gli esuli” – il
capo a raggiera e una torcia in una mano. Il Colosso aveva nell’altra mano una
spada, o, secondo diversi studiosi, una faretra di frecce a tracolla.
Ma ora per la Statua della Libertà appare un antenato, anzi
un’antenata più vicina nel tempo, e se si vuole anche nello spazio. È la Statua
della “Libertà poetica”, di Pio Fedi, sulla sinistra, all’inizio, in Santa
Croce a Firenze. Simile il nome, simili i panneggi, il diadema a raggiera in
capo, il braccio levato – più lievemente nella fiorentina – ed uno che regge simboli
(la Dichiarazione d’indipendenza nel braccio piegato, nell’americana; una
corona e uno strumento, foglie d’alloro, olivo e quercia ai piedi la
fiorentina).
[…omissis…]
Ora, se plagio c’è stato, uno scultore ha potuto vedere i
bozzetti dell’altro. (A meno che i franco-americani non si siano proprio
ispirati a Santa Croce). Si ignora il come. Si ipotizza persino un comune
ideale massone degli scultori mentre l’Italia nel suo piccolo celebrava in
quegli anni l’Unità.
Giovani Morandi della “Nazione” ricorda anche, a proposito
del presunto furto di idee, il viaggio di un massone fiorentino, Filippo
Mazzei, inviato di Jefferson in Italia per trovare uno scultore per la statua
simbolo d’America. Mazzei concluse poco e fu pure derubato.
Quanto a Pio Fedi, nato a Viterbo, poi divenuto fiorentino,
scolpì nell’atelier in via dei Serragli. Sembra però che circolassero suoi
disegni… O entrambi hanno incarnato al femminile il Colosso di Rodi?
La Gazzetta del Sud
17.04.2002
Agrigento / In mostra 35 acquerelli di Casimiro Piccolo
AGRIGENTO – Il Museo archeologico di Agrigento continua a
proporsi all’esterno con un’altra iniziativa di alto spessore culturale che
costituirà un’attrattiva particolare per gli appassionati della pittura. Si
tratta della mostra di 35 acquerelli dipinti dal barone Casimiro Piccolo,
fratello del poeta Lucio Piccolo di Calanovella, tra il 1943 e il 1970. Le
opere, realizzate con una singolare tecnica poco diffusa tra i pittori moderni,
racchiudono un mondo fantastico popolato da creature bislacche e inquietanti
che sembrano venute fuori dalle fiabe di Jacob o di Grimm. Egli rappresenta
gnomi, elfi, maghi, silfidi e streghe che sono la trasposizione su tela di una
filosofia di vita dove magia e ironia sovente convivono felicemente quantunque
si tratti in prevalenza di humor nero. La collezione è stabilmente in visione a
Villa Piccolo a Capo d’Orlando. Piccolo è nato a Palermo il 26 maggio 1894,
secondogenito di Teresa Tasca di Cutò. Studiò al liceo classico Garibaldi ma
non conseguì la maturità classica. Frequentò più del fratello Lucio i salotti
della Palermo aristocratica e mondana e da giovane fu affiliato alla
massoneria. Partecipò ai cenacoli della Società Teosofica partecipando
attivamente alle sedute spiritiche. Fu considerato un’autorità nel campo della
metapsichica, anche oltreoceano. Nutriva molto interesse per il mondo animale e
vegetale. A lui si deve, per volontà testamentaria, la Fondazione Famiglia
Piccolo di Calanovella. Morì il 4 dicembre 1970 a Capo d’Orlando, all’età di 76
anni.
[…omissis…]
La Gazzetta del Sud
17.04.2002
Il Luogo – Caccamo, residence per latitanze dorate
Piccola storia di un mandamento chiave nella mappa di Cosa
nostra
PALERMO – Giovanni Falcone lo ribattezzò “la Svizzera di
Cosa Nostra” per le fiorenti raffinerie di droga che fatturavano cifre a nove
zeri, ma soprattutto per le campagne verdeggianti che ospitavano dorate
latitanze. Il mandamento di Caccamo, scenario dell’ irresistibile ascesa del
boss Nino Giuffrè è considerato uno tra i più significativi crocevia degli
interessi finanziari di Cosa nostra, oltre che una sorta di “residence” per
padrini in fuga. Il suo capo carismatico era il boss Lorenzo Di Gesù, socio e
amico di Pippo Calò, un autentico patriarca che faceva la spola tra Palermo e
Roma, dove tesseva le sue trame affaristiche sempre a braccetto con il
“cassiere” della mafia. Legato agli ambienti massonici della capitale, Di Gesù,
autentica eminenza grigia della famiglia di Caccamo, è stato negli anni Ottanta
l’ unico uomo forte del mandamento, anche senza rivestire alcuna carica
ufficiale. Quando fu arrestato, insieme a Calò, nel 1984, gli investigatori gli
trovarono in tasca un’ agendina con il famigerato codice “Lunga morte” che
serviva al padrino per annotare in maniera criptica centinaia di numeri di
telefono. Decifrati i numeri, dal taccuino saltarono fuori i recapiti di
banchieri e imprenditori romani, tutti amici del boss.
[…omissis…]
La Stampa
17.04.2002
Libro del Novecento Ammessi gli “errori” su Sarti e Menardi
Vedova e senatore ritirano le querele
CUNEO -Si è risolta amichevolmente la vertenza giudiziaria
nata con le querele per diffamazione presentate nel luglio 2000 da Lidia Chicca
ved. Sarti e dal sen. Giuseppe Menardi contro Mario Cordero e Michele Calandri,
curatori del volume “Novecento a Cuneo” e all´epoca presidente e direttore
dell´Istituto Storico della Resistenza editore del libro pubblicato nell´aprile
2000. La signora Chicca, vedova dell´on. Adolfo Sarti, tutelata dall´avvocato
Franco Mazzola, protestava perché non vera la nota a pagina 335 del libro nella
quale era scritto che la carriera del ministro “sarà interrotta solo
dall´ignobile iscrizione alla loggia segreta massonica P2”. Dall´inchiesta
parlamentare era infatti emerso che l´on. Sarti “revocò l´adesione il giorno
successivo alla richiesta”. Il sen. Giuseppe Menardi tramite l´avv. Alberto
Leone lamentava che nel libro a pagina 333 il suo nome veniva accomunato ai
sindaci che avevano amministrato la città dal 1945 al 1965 definiti “spesso
giovani cresciuti nell´occupazione del potere”. Il sen. Menardi è stato sindaco
di Cuneo dal 1990 al 1995 e quindi senza alcun collegamento con quanto scritto
nel capitolo. Dopo laboriose trattative sia Cordero, che si era dimesso a suo
tempo dall´incarico, che Michele Calandri si sono scusati per l´infortunio in
cui sono incorsi. Nei volumi ancora in circolazione sarà inserita una nota con
la cancellazione dei giudizi errati. La vedova Sarti e Menardi hanno così
ritirato le querele.
Corriere della Sera
17.04.2002
L’ultima perizia: Calvi fu ucciso – Flavio Haver
Caso Ambrosiano, la relazione al giudice istruttore:
“Assassinato per ordine di Cosa Nostra”
Gli esperti: il corpo portato al ponte dei Frati Neri dopo
il delitto
ROMA – Roberto Calvi è stato ucciso ed il suo corpo è stato
poi appeso sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra, per far apparire il delitto
come un suicidio. E’ questa la conclusione a cui è arrivato il pool di periti
incaricati dal giudice istruttore romano Otello Lupacchini di fare chiarezza
sulle cause della morte dell’ex presidente del Banco Ambrosiano, trovato
impiccato la mattina del 18 giugno del 1982: la relazione degli esperti
capeggiati dal tedesco Bernd Brimkmann è pronta e nelle prossime ore dovrebbero
partire gli avvisi ai difensori degli indagati ed alla Procura per la
fissazione della nuova udienza dell’“incidente probatorio” nella quale verranno
discussi i risultati degli accertamenti eseguiti dopo la riesumazione del
cadavere. Secondo l’accusa, Calvi è stato assassinato per ordine di Cosa
Nostra, perché ritenuto “inaffidabile” dopo che si sarebbe impossessato di
decine di miliardi di lire delle cosche, dalle quali aveva avuto l’incarico di
riciclare ingenti cifre di “denaro sporco”.
Ordini di custodia cautelare in carcere per omicidio,
firmati dal giudice istruttore Mario Almerighi, erano stati notificati a Flavio
Carboni ed al cassiere della mafia Pippo Calò, a lui legato attraverso la banda
della Magliana. Sul registro degli indagati dei pubblici ministeri Maria
Monteleone e Giovanni Salvi (ultimamente affiancati dal collega che ha condotto
l’inchiesta sulla strage di Capaci Luca Tescaroli, trasferito a Roma da
Caltanissetta) erano finiti anche i nomi del killer pentito di Cosa Nostra
Francesco Di Carlo (ha detto di aver saputo che Calò lo cercava, ma che
l’omicidio era stato commesso dalla camorra), di uno dei vecchi boss della
Banda della Magliana, Ernesto Diotallevi, e dell’ex capo della loggia massonica
P2, Licio Gelli.
A venti anni dal ritrovamento del corpo dell’ex piduista, il
“banchiere di Dio” diventato il braccio destro di Michele Sindona, le
conclusioni dei periti avvalorano la ricostruzione che nella città inglese è
stata fatta una messa in scena per depistare le indagini. Un’ipotesi che aveva
trovato riscontri dopo le dichiarazioni di due pentiti “storici” della mafia,
Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia. Ma in base a quale elementi gli
esperti sostengono adesso che si sia trattato di un assassinio?
Le mani e le unghie di Calvi sono state trovate pulite: ciò
esclude che si sia potuto arrampicare per impiccarsi all’impalcatura situata
sotto il ponte dei Frati Neri. Ancora: nell’incavo della suola delle scarpe di
Calvi i tecnici non hanno trovato tracce di residui di zinco ramato che
rivestiva i tubi metallici della stessa impalcatura ed il granulato presente
sui gradini che avrebbe dovuto salire per arrivare dove è stato rinvenuto.
Malgrado fossero trascorsi sedici anni e mezzo dalla morte, al momento della
riesumazione il corpo del banchiere era ben conservato. Questo ha consentito di
accertare che attorno al collo c’erano striature che potrebbero far pensare ad
uno strangolamento e, comunque, l’osso non era rotto: uno strappo molto violento
come quello provocato dall’impiccagione difficilmente lo lascia integro.
Il Piccolo di Trieste
15.04.2002
Una valanga di francobolli fa impazzire i collezionisti
Oltre diciassettemila le emissioni del 2000, da 247
amministrazioni postali. Nivio Covacci
Otto Harnung ne «Il
Collezionista» n.3/02 analizza, dai dati del Catalogo Michel, le emissioni
mondiali dell’anno 2000, presentate dalle relative 247 amministrazioni postali.
La «Valanga dentellata» – così precisa – ammonta a 17.500 francobolli, circa
1.500 in più in confronto al ’99.
[…omissis…]
Dalla Germania il 4 aprile è uscita l’usuale contemporanea:
orizzontale per il 150° della fondazione di Echberg sorta nel 1852 in Baviera a
scopi sociale; 100° anniversario della loggia massonica dei Liberi muratori di
origine inglese iniziatasi nel 1717 (simbologia);
[…omissis…]
Il Mattino
15.04.2002
Processo. Garibaldi assolto, ma…
Il capo di imputazione era tremendo: aver invaso uno Stato
legittimo ed aver procurato danni a tutta la popolazione meridionale. Giuseppe
Garibaldi, eroe dei Due Mondi, è stato condannato (con qualche riserva) per la
prima accusa, assolto all’unanimità per non aver commesso il fatto dalla
seconda. Il singolare «processo» è stato celebrato nella sala della Biblioteca
di Castelcapuano, organizzato dall’Associazione ex Alunni del Liceo Garibaldi.
Un dibattito appassionato, introdotto da Paolo De Scisciolo e con tanto di
Corte, di giuria popolare e di rappresentanti di accusa e difesa. Il tutto con
una magistrale prolusione di Luigi Necco, giornalista e storico attento e
scrupoloso. La Corte era formata da tre magistrati togati (Ugo Ricciardi,
presidente, Geremia Casaburi e Giancarlo Posteraro) e due onorari (Aldo De
Simone e Paolo Piccolo). Nella giuria popolare noti professionisti napoletani,
tutti ex allievi del «Garibaldi», tra i quali il presidente dell’Associazione
Mario Antonacci.
Quattro i rappresentanti dell’accusa: Raffale Bracale
(«Garibaldi era un attacabrighe facinoroso, il Regno di Napoli era il più ricco
d’Italia, non aveva bisogno di un liberatore»; Gennaro De Crescenzo («Garibaldi
era un corruttore, saccheggiò le nostre banche»); Giuseppe Gallo («I Mille,
tutti nordisti, furono sponsorizzati dalla massoneria inglese») e Lino Zaccaria
(«Altro che retrogradi, i Borbone era sovrani illuminati, ogni angolo di Napoli
parla dei loro splendori»). Quattro gli esponenti della difesa: Mario Colella
(«A Napoli la plebe viveva nei fondaci e nei bassi, Garibaldi non ha colpe per
quanto avvenne dopo il 1860»); Renata Pilati, docente del «Garibaldi»
(«Partirono in mille, arrivarono in cinquantamila, questo vuol dire che
Garibaldi ebbe anche il consenso popolare»); Franco Turco («Se non ci fosse
stato Garibaldi l’Unità d’Italia l’avrebbe fatta qualche altro») e infine
Raffaele Zocchi («Il Regno era tutt’altro che indipendente, prendeva ordini
dallo Stato pontificio, dalle banche e dalla camorra»).
La Nazione
14.04.2002
La vera statua della Libertà? A sinistra, in Santa Croce
Scusi, dov’è la statua della Libertà? Padre Rosito dei frati
minori conventuali di Santa Croce non si sorprende della domanda.
Sotto le volte buie del suo studio, negli scantinati della
basilica, una luce fioca rischiara il suo tavolo coperto di libri e carte.
«Può trovare quella statua sulla sinistra, appena entrato in
chiesa», risponde con fare lento e imperturbato.
«Ma – aggiunge – se aspetta un po’…». E, dopo aver sfilato
un librone dalla libreria, comincia a sfogliarlo, con la confidenza di
conoscerlo bene. Poi fa: «Se ha un po’ di tempo, le racconto questa storia…».
Così padre Rosito, studioso d’arte e direttore da 40 anni
della prestigiosa rivista «Città di vita», che tratta di arte e scienza,
comincia a parlare di quella donna con il braccio teso e la testa coperta da un
diadema raggiato, proprio uguale alla statua di New York.
Che ha copiato perfino il nome, visto che quella fiorentina
si chiama statua della «Libertà poetica», quella americana statua della
Libertà.
Non per fare del patriottismo, ma la scultura di Santa Croce
rappresenta una figura femminile decisamente più bella, il braccio è sì teso ma
in modo gentile non come quello di Miss Liberty che pare faccia il saluto
romano.
La donna fiorentina è morbida, sensuale, leggera,
quell’altra è rigida come un baccalà. Ma, ecco le ingiustizie della vita,
quella falsa e brutta è diventata famosa e quella vera e bella no.
Il sole del tramonto filtra dalle vetrate e i turisti che
sciamano ai piedi della «Libertà poetica» non si voltano, non guardano
all’insù, non si soffermano, non notano la somiglianza con la gemella, con
quella clonata di New York.
La nostra fu scolpita da Pio Fedi, artista che amava
definirsi l’ultimo canoviano e fu copiata da Frédérich-Auguste Bartholdi,
francese e massone, come pare lo fosse anche Fedi.
Ma poi tanto tanto francese quel Bartholdi non dev’essere
stato, visto che si chiamava quasi come il contadino finto scemo (Bertoldo) che
stuzzicava il Granduca di Toscana.
Dunque fu lui, questo Bartoldi con la h, a copiare la
«Libertà poetica» e a farla diventare la «Libertà che illumina il mondo». E
come sia avvenuto il furto dell’idea non si sa.
Si sa solo che la statua del Fedi, fiorentino d’adozione e
viterbese di nascita, venne scolpita nel suo atielier, che era in via dei
Serragli. Però c’erano dei disegni suoi (della statua) che giravano e può darsi
che uno di questi sia finito in mano al perfido francese.
«Che sia stato Bartholdi a copiare Fedi e non viceversa lo
si può dire con tutta certezza», taglia corto padre Rosito. E chi non ci crede
dovrà arrendersi di fronte a questa succesione di date. La statua di Santa
Croce fu fatta in gesso nel 1872 e poi riprodotta in marmo nel 1877.
L’inaugurazione avvenne nel 1883. La statua di Liberty
Island, che, come si sa, venne donata dai francesi in omaggio alla guerra di
indipendenza americana, fu invece completata da Bartholdi con la collaborazione
di Eiffel nel 1884. Poi trasportata negli Stati Uniti fu inaugurata nel 1886.
C’è dunque una differenza di diversi anni e non siamo in
grado di dire come avvenne il misfatto. Perciò ci limitiamo ad osservare che,
vista la fede comune dei due artisti, questa che padre Rosito ci ha raccontato
è una storia di scultori fratelli e di statue sorelle. O per meglio dire: di
fratelli e di scalpelli e di fratelli e fregature.
Il frate con sguardi fulminei saltella tra le righe del
librone alla ricerca di nozioni su Fedi e la sua creatura. E trovatele,
riferisce che la donna con il diadema raggiato e che poggia i piedi su foglie
di alloro, quercia e olivo rappresenta la forza d’ispirazione che l’amor patrio
ha sulla creazione poetica (era l’epoca dei furori dell’Italia unita).
E che la statua si trova sul sepolcro dello scrittore
patriota Giovan Battista Niccolini, pisano, amico del Foscolo, nonché
ghibellino. Fine.
Se poi volessimo insistere sulla fiorentinità dei simboli e
delle origini americane, allora potremmo accennare ad un’altra figura e ad
un’altra storia. Quella di Filippo Mazzei, fiorentino e – che noia! – massone
anche lui, amico di Benjamin Franklin e del presidente americano Jefferson,
nonché estensore insieme ai padri della patria della Carta della Costituzione
americana.
Fu proprio Jefferson ad inviarlo in Italia con il compito di
trovare uno scultore per fare una statua simbolo dell’America, idea che Mazzei
aveva in mente da tempo e di cui aveva parlato al presidente, che l’aveva fatta
sua.
Il viaggio però non ebbe fortuna e Mazzei fra l’altro venne
anche derubato. Così il progetto naufragò per mancanza di mezzi e altre
ragioni, dettagliatamente esposte nelle «Memorie» dall’illustre fiorentino.
Egli ebbe comunque l’opportunità di veder realizzato il suo desiderio nel 1886,
con l’inaugurazione del colosso di New York.
Che però – a confronto della bella statua copiata a Firenze
– a noi sembra, come ci paiono certi americanoni, grande, grosso e bischero
bischero.
Una delle maggiori attrazioni dell’antica Alessandria fu senz’altro il tempio delle Muse, il museo, una delle meraviglie architettoniche che presentava la città fondata da Alessandro Magno sul delta del Nilo. L’edificio si trovava nel quartiere reale di Bruchion, davanti al mare e nell’area del palazzo dei Tolomei, la dinastia discendente da Tolomeo I, ‘un generale del grande conquistatore macedone. Secondo la descrizione di Strabone, il museo era un complesso monumentale costituito da un portico con alcuni giardini, un’esedra — uno spazio semicircolare scoperto, provvisto di banchi su cui sedersi — e un’ampia sala. Lo scopo del museo era di soddisfare i bisogni intellettuali del sovrano greco, ormai signore della terra dei faraoni, e della sua corte di filosofi, grammatici, poeti e uomini di scienza e, sebbene Strabone non ne faccia cenno, al suo interno vi doveva essere anche una biblioteca.
Con il tempo quest’ultima divenne famosa per il gran
numero di rotoli di papiro custoditi nei suoi scaffali: quasi 7oomila esemplari
(secondo alcune stime) tra testi letterari, accademici e religiosi. In virtù di
questi archivi la biblioteca fu per secoli un famoso centro di ricerca e,
grazie al lavoro svolto dai suoi studiosi in numerosi ambiti del sapere, riuscì
a preservare e ad arricchire un’eredità letteraria che risaliva addirittura a
Omero.
Dall’Egitto ad
Atene
La biblioteca non nacque dal nulla, ma ebbe importanti
antecedenti. Nell’Egitto faraonico il papiro era già usato come supporto della
scrittura, e su quello di migliore qualità (detto “ieratico” o “regio”)
venivano copiati i testi sacri che erano poi conservati in templi e palazzi
sotto forma di piccole collezioni Anche in Grecia i primi libri che videro del
liceo, che comprende la luce consistevano in uno più rotoli di papiro egizio su cui era trascritta
un’opera in versi o prosa che gli autori leggevano in pubblico. Nei primi tempi
i volumi erano oggetti di lusso che impreziosivano le raffinate residenze dei
ricchi. Potevano pure divenire donazioni, come volle il filosofo Eraclito, che
lasciò in offerta presso il tempio di Artemide a Efeso il manoscritto delle sue
opere complete.
Ben presto s’iniziarono a creare delle edizioni di ogni tipo di opera, non solo
di letteratura, ma anche di storia, filosofia o teoria dell’arte. I primi
copisti e librai
formarono un abbozzo d’industria editoriale, che fiorì ad Atene tra il Ve IV secolo
a.C. Quando accusavano Socrate di corrompere le giovani menti con le sue idee,
questi rispondeva che anche le opere del filosofo Anassagora, attivo circa
trent’anni prima, si potevano trovare «nell’orchestra con la modica cifra di una
dracma», ma che nessuno apriva bocca per protestare. Inoltre metodo socratico per giungere alla conoscenza
era il dialogo, e non la lettura: lo stesso Socrate aveva già preso in giro
alcuni di quei giovani che si reputavano saggi solo perché accumulavano testi
di poeti e di filosofi.
La prima biblioteca di Atene fu quella del liceo di Aristotele, soprannominato
“il lettore” per l’avidità con cui collezionava e divorava libri, Il liceo era
in realtà il nome di un ginnasio sportivo vicino al tempio di Apollo licio,
dove Aristotele cominciò a insegnare ai suoi primi discepoli mentre passeggiavano
per portici e giardini. In seguito all’aumento di alunni Aristotele decise di comprare
lì delle proprietà che avrebbe poi lasciato a chi voleva vivere nella scuola o recarvisi
per dibattere, come in una sorta di santuario del sapere.
La biblioteca che Aristotele consultò per scriverei più di duecento trattati a
lui attribuiti (di fisica, logica, etica, politica, estetica eccetera) era però
di carattere personale. La lasciò al discepolo e successore nel liceo, Teofrasto,
che vi aggiunse molte altre opere per poi,
a sua volta, trasferirla a un certo Neleo di Scepsi. Quando quest’ultimo
morì nella propria città natale dell’Asia minore, piuttosto lontano da Atene, i
discepoli nascosero i rotoli di papiro sottoterra in una sorta di grotta, dove
furono danneggiati dall’umidità e dalle tarme. Vennero alla luce più di cento
anni dopo allorché, malgrado il pessimo stato in cui versavano, li comprò un mecenate
greco. L’idea diun rifugiato
Da un accenno di Strabone si è creduto che Aristotele
avesse insegnato ai Tolomei come allestire una biblioteca, eppure la menzione
non può essere interpretata alla lettera, perché il fondatore del liceo non
andò mai in Egitto. Invece è certo che vi si recò un celebre alunno della
scuola, Demetrio Falereo. Malgrado le umili origini — era figlio di uno schiavo
—, Demetrio ricevette un’ottima formazione nel liceo di Teofrasto, dove ebbe
accesso alla biblioteca del maestro e poté approfondire argomenti di suo interesse
come la politica. Demetrio ebbe un ruolo attivo nel governo di Atene e per un
decennio guidò la città con la fermezza di un tiranno. Dopo l’espulsione dalla
Grecia fuggi in Egitto, e qui diventò consigliere di Tolomeo I. Probabilmente
fu proprio a lui che balenò l’idea del museo. O, se non fu questo il suo
merito, risulta comunque che chiamò in Egitto un saggio greco, il condiscepolo
Stratone, affinché si occupasse dell’educazione del futuro Tolomeo II.
Quel che è certo è che Demetrio portò ne Paese del Nilo il
modello del pensiero aristotelico, che univa la lettura critica dei filosofi
precedenti alla discussione e
al confronto trai membri della scuola. Non a caso la
nuova istituzione prese il nome di museo proprio dalle muse, le dee che
infondevano l’ispirazione a poeti e scienziati: il carattere e gli scopi del
museo erano quindi piuttosto evidenti. Prima Tolomeo I, e poi il figlio Tolomeo
II, invitarono inoltre i saggi dell’intera Grecia — filosofi, scrittori, storici,
matematici, astronomi… — a recarsi ad Alessandria per stabilirsi nel museo.
Qui avrebbero goduto di ottime condizioni per lavorare ricevendo un salario
esente da tasse, e in quanto ospiti del sovrano avrebbero avuto a disposizione
vitto e alloggio gratuiti, nonché l’accesso a tutti gli edifici presenti nel
quartiere reale, tra cui la biblioteca. La biblioteca di Alessandria sorse
perciò dalla necessità di creare un corpus di testi a cui gli eruditi del museo
potessero lavorare.
Non doveva essere un edificio indipendente con una sala di
lettura, ma era forse composto da una serie di ambienti collegati tra di loro e
provvisti di scaffali per immagazzinarvi i rotoli di papiro, di cui si sarebbe
data lettura a voce alta nei porticati adiacenti.
Studiare,
insegnare, discutere
L’archivio accumulato nella biblioteca doveva essere
sorprendente. I Tolomei intrapresero una politica aggressiva per impossessarsi
delle opere che vi erano custodite e si diceva che, a tale scopo, facessero requisire
le imbarcazioni approdate nel porto di Alessandria. Visto che la produzione del
papiro era monopolio regio, a partire da un solo testo si potevano realizzare
tante copie di buona qualità. Difatti la biblioteca non conteneva unicamente
opere della letteratura greca, ma anche volumi tradotti da altre lingue, come
la versione greca della
Bibbia ebraica, nota come Septuaginta, redatta da saggi che Demetrio Falere o aveva fatto
giungere da Israele (sebbene la comunità ebraica di Alessandria fosse di per se
molto importante). Un sacerdote locale di nome Manetone compose per la corte
dei Tolomei pure un’Aigyptiaka, o
storia dell’Egitto, organizzata per dinastie e che rappresenta ancora oggi la
base delle conoscenze relative all’Egitto faraonico.
Tuttavia la biblioteca non fu solo un gigantesco deposito
di libri: scienziati e scrittori vi condividevano cibo e conoscenze in duraturi
dialoghi coni saggi di varie scuole, e insegnavano — se lo volevano — seduti
tra i banchi dell’esedra o mentre passeggiavano per i giardini e i colonnati
del museo.
Non è perciò strano che proprio ad Alessandria — erede del liceo aristotelico — concentrarono il proprio operato più pensatori, per certi versi comparabili ad Aristotele. Uno di loro è Eratostene di Cirene, che fu direttore della biblioteca sotto Tolomeo Ile i cui interessi si spingevano dalla mitografia e la critica letteraria fino alla geografia e alla matematica. A lui si deve pure la messa a punto di un metodo trigonometrico per calcolare la circonferenza della terra e fu l’autore di un poema intitolato Hermes. I Tolomie fondarono il museo di Alessandria in un frangente piuttosto delicato per la cultura occidentale. Aristotele e i suoi primi discepoli si erano impegnati nello studiare e preservare sia l’eredità scientifica della Grecia sia quella letteraria, da Omero in poi, ma tutto quello sforzo correva il rischio di andare perso alla morte del maestro. L’entusiasmo visionario di una generazione di regnanti e di pensatori greci nell’Egitto del IV e del III secolo a.C. fece sì che il legame si mantenesse vivo, ma pure che venisse arricchito. Nella biblioteca di Alessandria si rieditarono antichi testi in eleganti edizioni, mentre i membri del museo ne scrivevano di nuovi. Grazie a quegli studiosi è possibile apprezzare ancora oggi i classici greci e percepire la forza del loro messaggio millenario, come fossero appena stati scritti.
Bacco arrivò danzando a bordo di
una barca trascinata dalla pigra corrente del Tevere. Pampini d’uva alle
orecchie e un corteo di suoni, colori e grida, il figlio di Zeus scrutò la
valle ricca di verde, dolce di ondulazioni, fertile e amica. Gli piacque quel
posto, al primo sguardo. E il dio della gioia decise di fermarsi un poco e
lasciare un segno del suo passaggio. Fu così, recita l’antica leggenda di un
poeta dimenticato, che Torgiano ebbe in sorte il dono di vendemmie abbondanti,
raccolti sempre benigni e mai guastati dalle meteore inclementi, un nettare
dolce e forte che scendeva nelle gole riarse a vivificare umori e dar vigore a
forze appassite, ed insieme quel lieve stato di euforia capace di far dimenticare gli affanni e rendere ogni cosa
leggera come piuma. Scendendo dalla leggenda per arrivare al tempo d’oggi e
alla fatica non più scansata dal cenno benevolo dell’immortale protettore dei
vigneti, Torgiano ha continuato nel tempo nella sua missione fino a divenire un
centro rinomato, un’area ben individuabile in una regione che di zone
simili, pur con diverse caratteristiche, ne ha millanta.
E visto che la vicenda di questa terra è remota ed ha lasciato segni che
emergono spesso quando gli aratri fanno lo scrimo ai campi, ecco sbocciare
l’idea. Geniale, insolita, affascinante dato che riunisce le memorie in una
fiorente gamma espressiva: il museo del vino, appunto. Nato nel 1974 per
volontà di Giorgio e Maria Grazia Lungarotti nel monumentale palazzo dei
Baglioni, è un punto di riferimento privilegiato, una mèta ambitissima, un
luogo dove si radunano oggetti tra i più preziosi e rari d’ogni tempo e stile,
tutti legati al linguaggio enologico.
Quattordici ambienti poi divenuti diciannove nel maggio scorso, criteri
espositivi che permettono una lettura facile, un legame sempre stretto con gli
ambienti, settori ben descritti attraverso una vasta documentazione e reperti
di spicco che vanno dall ‘archeologico allo storico; dal tecnico all’artistico
e al folklore. Non è un semplice museo agricolo, anche se legato per molti
versi alla concretezza della fatica e del lavoro. La sua destinazione si
sposa alla modernità: sale convegni con traduzione simultanea e mezzi
audiovisivi, archivio fornitissimo e specializzato, biblioteca, attività
didattica svolta nella vecchia fornace a legna. In più l’ubicazione proprio al
centro del paese che rende facile e immediato l’arrivo al visitatore. Il vanto maggiore è, ovviamente, quello che
si apre sulle ceramiche e sulle incisioni: oggetti di pregio, culminanti le
prime in uno stupendo piatto istoriato con l’ infanzia di Bacco, redatto nel
1528 da Mastro Giorgio (uno dei maghi rinascimentali del ramo) le altre in una
serie di grafiche uniche per compattezza e vibratilità di tocco, unificate da
quel sentimento dell’ armonia che è alla base di ogni collezione di riguardo.
Le raccolte si aprono con il richiamo alle origini medio-orientali
delle viticoltura e alle vie mediterranee del commercio. E meraviglie sgranate:
vasi ittiti, un corredo funebre etrusco, vetri romani, anfore vinarie. Non si
dimentica certo di descrivere il sistema di viticoltura medievale, il ciclo
annuale, poi la sala dei torchi monumentali e, accanto, i mestieri collegati,
che sono moltissimi: bottai, d’accordo, e poi barlettari, bigonciari, fabbri,
cestari, tavernieri accompagnati dagli strumenti del loro lavoro, dagli emblemi
delle corporazioni, da ordinativi di lavoro, pagamenti. Iriflettori
si accendono giustamente anche su Torgiano, su passato e futuro.
Né si passa sotto silenzio la parte etnografica, quella artigianale,
la storica, comprendente quest’ultima una significativa batteria di
ritrovamenti estratti dagli insediamenti agricoli che ingemmavano la campagna
in epoca romana. L’ itinerario non accusa flessioni o pause. Con la ceramica si
entra nel Medioevo, quindi nell’era rinascimentale e barocca con maioliche di
tradizione colta e popolare, da esposizione e d’uso quotidiano. Manufatti
delle più note produzioni nazionali, tecniche raffinate come il graffito
emiliano o fresche, spontanee e zampillanti dei vasai umbri.
Un’apertura sulla realtà di tutti i giorni, dal lato religioso e profano,
è data da una vasta, straordinaria collezione di ferri da cialde che
riguardavano il vino per la preparazione e il consumo dei dolci. Infine
l’ultimo strepitoso capitolo: la grafica.
Vitigni e numi tornano a sorridere sotto un cielo variegato di nubi e
costellato di amorini. Oltre seicento opere che partono dal Baccanale con
Sileno di Mantenga e si concludono con l’opera di Ricasso. Un volume da
sfogliare con attenzione ma anche con impeto, perché le sorprese vengono una
dopo l’altra, davvero come i chicchi di un grappolo enorme.
Per concludere. Sala degli ex libris dal sapore quasi numismatico,
quindi l’editoria antiquaria. Un’agile guida accompagna il turista, tre ponderosi
cataloghi divisi per argomento e stampati dalla Regione, illustrano in
profondità ogni cosa.
Questo è un vero museo multiplo perché si allarga in cento direzioni
partendo dal cuore fondamentale del liquido di Bacco. Altri ne esistono sparsi
per l’Europa ma ognuno teso ad illustrare la sola realtà territoriale, dalla
Francia all’Ungheria. Le raccolte nelle sale mormoranti di palazzo Baglioni
sono una prova autentica: qui il vino è sovrano e padrone incontrastato. Di
stile, di linguaggio, e di segreti. Dalla notte del mondo ad oggi, un filo
rosso nel nome dell’uomo.
Gusto, mito, profumo e medicamento.
Tutto in un calice di ottimo rosso
Raggiungere Torgiano è facile. Chi viene da nord, deve lasciare
l’autostrada del Sole a Valdichiana e proseguire per il raccordo autostradale
Bettolle-Perugia. Superato il capoluogo si prende la via di Todi sul raccordo
Terni-Roma. Dopo un po’ c’è l’indicazione. Da sud si deve lasciare l’autostrada
a Orte e si prosegue verso Perugia. Tra il materiale presentato c’è anche una
suddivisione del vino per argomenti. Il nettare di Bacco diventa alimento
(boccali, misure, borracce, fiasche), medicamento (vasi farmaceutici e antichi
testi su pozioni ricavate da erbe dissolte nel vino), una cura empirica che si
è tramandata nei secoli tanto da avere tutt’oggi una sua credibilità sia pure
parziale. E poi la mitologia con Dionysos in testa, protagonista di mille
richiami su un ‘area amplissima. Da sottolineare che pure le firme più note
della storia ceramica si sono soffermate sul tema. Oltre a Mastro Giorgio è
presente anche un gran tondo di Giovanni della Robbia. Curiosità
aggiuntiva: un’opera di Deruta con un francescano
genuflesso di fronte ad una botte. Anche la gola vuole la sua parte.
«Chi non beve scrive lettere anonime»
Così i grandi bocciarono gli astemi
Tutti i grandi hanno parlato del vino. E Angelo Valentini, enologo delle
cantine Lungarotti e uomo di cultura, ha raccolto alcune perle. Ecco le più
significative.
“E dove non è vino, non è amore né alcun
altro diletto hanno i mortali” (Eschilo,
Le Baccanti).
“Il vino è per l’uomo come l’acqua per
le piante che in giusta dose le fa stare bene erette, mentre in eccesso le fa
cadere” (Platone).
“II vino conforta la speranza” (Aristotele)
“Che sarebbe la vita senza il Vino?
Bevuto in tempi e quantità giuste è gaiezza del cuore, gioia dell’anima”
(Antico Testamento, Ecclesiaste, III o II
a.C.).
“Una coppa di vino livella la Vita e la
morte, e mille cose ostinate a non farsi capire” (Li T’ Ai Po, 700 d.C.).
“Dell’acqua sole bevere chi non have del. Vino” (Jacopone da Todi).
“Et
però credo che molta felicità sia agli uomini che nascono dove trovano i
vini buoni” (Leonardo).
“Chi non beve vino scrive lettere
anonime” (Brandimarte ).
E’ una delle cattedrali più
grandi al mondo, un cantiere complesso e ambizioso avviato alla fine del XIV secolo.
Non a caso l’espressione tu “lungo come la fabbrica del duomo” indica
un’impresa senza fine. Curiosamente anche a Roma si dice qualcosa di simile, in
riferimento alla basilica di San Pietro. Questo modo di dire è segno che la
costruzione di una cattedrale non è mai un’impresa semplice:
quella del duomo di Milano
impegnò la città lombarda per oltre cinquecento anni. Secondo la prassi
medievale i lavori cominciarono dal fondo. Per questo motivo l’abside è la
parte più antica e integra. La maestosa facciata invece è in prevalenza
ottocentesca e mescola stili diversi: sculture rinascimentali, finestroni e
portali barocchi, guglie neogotiche.
Nel corso dei lavori per la
sua costruzione sì dovettero demolire due chiese preesistenti: Santa Maria
Maggiore(la cattedrale invernale) e Santa Tecla (la cattedrale estiva). Tracce importanti
di entrambe le strutture si sono conservate nei sotterranei. Negli scavi
archeologici trasformati in museo permanente si notano fra l’altro la
pavimentazione di epoca romana e la vasca paleocristiana dove, secondo le
cronache, sant’’Ambrogio battezzò sant’Agostino nel 387.
Milano come Parigi A prima vista questo colossale edificio
caratterizzato da elementi in stile gotico francese, collocato però a sud delle
Alpi, pone un enigma: perché avviare, nel cuore della Milano medievale, un
cantiere che per stile
e dimensioni risultava quasi
visionario rispetto alle tradizioni locali?
Per dare una spiegazione a una
decisione tanto azzardata dobbiamo considerare il momento storico in cui ebbero
inizio i lavori. A quel tempo il signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti
(1351-1402), era impegnato in un
progetto politico vasto e
complesso: voleva creare un regno d’Italia prendendo in parte a modello la
Francia. Puntava cioè a unificare l’infinità di stati e feudi in una grande
entità politica che abbracciasse i territori della pianura padana e oltre. Per
soddisfare le sue ambizioni si appropriò in primo luogo dell’intero feudo
visconteo, per metà spettante allo zio Bernabò, sposandone 1° figlia in seconde
nozze ed eliminando il suocero è rivale cinque anni dopo il matrimonio. In
quegli annisi diffuse la leggenda secondo la quale una notte d’inverno il
signore di Milano avvertì puzza di zolfo e rumore di zoccoli nella sua stanza
da letto. Svegliatosi di soprassalto, vide il demonio che minacciava di
portarlo all’inferno se non avesse avviato subito la costruzione di una grande cattedrale
decorata con immagini diaboliche. Con questa storia si voleva forse fornire una
spiegazione fantasiosa per giustificare le garguglie mostruose e i doccioni di marmo con forme paurose e
bizzarre, sculture invece del tutto in linea con lo stile gotico. AI di là delle
leggende, il duomo rappresentava, assieme all’espansione perseguita da
Visconti, un elemento chiave per la creazione di uno stato unitario con
capitale Milano. Trail XIV e il XV secolo, grazie a un’accorta politica di guerre,
patti e vassallaggi, la città seppe assoggettare un territorio assai più vasto
della Lombardia: nel periodo di massima espansione Milano governava anche Pisa,
Siena, Verona, Piacenza e Bologna, costituendo di fatto un grande statofra
norde centro Italia. Milano come Parigi: questo era il magnifico progetto di
Visconti. A coronarlo, una cattedrale che avrebbe superato in dimensioni e
magnificenza anche la meravigliosa cattedrale di Notre-Dame: il duomo.
Un’opera monumentale
Per dare impulso ai lavori, nel 1387 Visconti creò
la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, tuttora operante, € da subito le
assicurò un fornitore di marmo: le cave di Candoglia, oggi in territorio
piemontese. Il prezioso materiale estratto in Val d’Ossola veniva caricato su
chiatte e trasportato dal lago Maggiore lungo il fiume Ticino. Da qui arrivava
in città attraverso il Naviglio Grande, il canale artificiale completato nella
seconda metà del XITI secolo per dotare Milano di un sistema di trasporto
fluviale.
Perla costruzione del duomo
vennero coinvolti i migliori architetti e operai specializzati d’Italia e
d’Europa € nel corso di pochi decenni fu completato il primo tratto verso l’abside.
Nel1418 — appena quarant’anni dopo l’inizio dei lavori — papa Martino V, di
ritorno dal Concilio di Costanza, poté consacrare
l’altare maggiore e aprire il
tempio al culto.
Nello stesso anno, nella parte
appena costruita avevano preso il via letture pubbliche
della Divina Commedia di Dante
Alighieri su modello delle audizioni letterarie avviate da Giovanni Boccaccio a
Firenze. Mentre dunque l’edificio iniziava ad albergare riti religiosi al suo
interno, all’esterno cresceva un cantiere che avrebbe svolto un ruolo di
primaria importanza nel tardo Medioevo, funzionando come un formidabile volano
economico e tecnologico per la città. D’altra parte l’avvio dei lavori del
duomo aveva anche una finalità sociale: mobilitare l’intera cittadinanza per migliorarne
la coesione.
L’edificio, che divenne motivo
di orgoglio per tuttala città, vanta numeri da record: lungo oltre 158 metri e
largo novantatré, è abbellito da 3.400 statue, 200 bassorilievi e
cinquantacinque immense vetrate con 3.600 figure fra santi, martiri, diavoli e
personaggi storici.
Verticalità e statica
La straordinarietà di queste
cifre comportò però diversi problemi di statica fin dal XV secolo: i muri
perimetrali, privi di archi rampanti esterni di contro-spinta, tendevano a divaricarsi
a causa del peso della struttura. Il complesso si regge perché al suo interno
furono inseriti tiranti di ferro e acciaio, che si possono notare percorrendo
lo spazio che separa la cupola interna da quella esterna, entrambe inglobate
dentro la guglia maggiore che sostiene la Madonnina. L’intero monumento è dunque
invisibilmente imbragato dentro una gabbia metallica, che trasforma il duomo in
Una “montagna incatenata”.
Nel corso dei secoli diversi
direttori dei lavori si avvicendarono attorno alla costruzione del duomo: ai
primi, provenienti da Parigi o dal Reno, a partire dal XV secolo subentrarono architetti
lombardi come Giovanni Solari e il figlio Guiniforte, Giovanni Antonio Amadeo, Pellegrino
Tibaldi, Francesco Maria Richini, solo per citarne alcuni. Anche Leonardo da Vinci
presentò una proposta per risolvere i gravi problemi di stabilità che
interessavano le navate e il transetto. Nel decennio 1480-90,
mentre soggiornava presso la corte di Ludovico Sforza detto il Moro, il
genio toscano mise a punto un modello in legno per il tiburio, la struttura
esterna che copre la cupola. Non si sa
cosa avesse concepito Leonardo, ma sem-bra che la Fabbrica non apprezzò
particolarmente la sua proposta, che fu poi ritirata,
Cinque secoli di soluzioni
Il duomo è dunque frutto di
cambi di programma e soluzioni modificate in corso d’opera, e rappresenta una
stratificazione millenaria. I finestroni barocchi della facciata suggeriscono
che nel XVII e XVIII secolo si pensasse a un insieme architettonico assai diverso
da quello attuale. Se lo scorrere dei secoli faceva evolvere lo stile, i gusti
le tecniche costruttive, la verticalità
della struttura priva di adeguate controspinte aveva lasciato in parte
irrisolti alcuni problemi di statica. Anche per questo motivo i lavori
procedevano a rilento: all’avanzare progressivo delle navate, la piazza
preesistente sparì e dalla fine del XVII secolo la facciata d’ingresso rimase
quasi completamente in mattoni a vista. Ci vollero quasi trecento anni perché
si completassero i lavori del tiburio, della cupola interna e della guglia centrale,
terminati nel 1774. In quell’anno, sulla sommità dell’edificio — a 108 metri d’altezza
dal suolo — venne collocata la celebre Madonnina, la statua dorata alta più di quattro
metri diventata simbolo della città. Eppure il duomo non era affatto concluso.
Soltanto agli albori del XIX secolo,
con Napoleone Bonaparte, arrivò l’impulso decisivo.
Nel1805 infatti l’imperatore
francese aveva innalzato Milano a
capitale del suo Regno d’Italia, che comprendeva buana parte del settentrione.
Pur in forme moderne, l’unificazione territoriale si realizzava di nuovo come
sotto i Visconti: il duomo ritrovava in qualche modo il ruolo simbolico delle
origini. Non a caso Napoleone scelse proprio questo luogo per farsi incoronare
re d’Italia il 26 maggio 1805.
Con una solenne cerimonia il
corso riceveva la corona ferrea altomedievale. Nel 1813, poco prima che
l’imperatore cadesse in disgrazia, la facciata fu completata a tempo di record ma
tagliando sui costi, al punto che pochi decenni dopo si dovette rimettere mano
ad alcune parti già pericolanti.
Se ne può avere un’idea
ripercorrendo le stampe, i quadri, i modelli in legno e i documenti custoditi
nell’archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo e nel museo a poca distanza.
In alcuni progetti la facciata avrebbe richiamato l’abside con grandi vetrate e
una prevalenza di trafori rispetto alle masse murarie. Secondo altre ideazioni
invece si sarebbe sviluppata più in orizzontale, con torri-campanile laterali
ad appiattire in qualche modo il frontone a triangolo.
Dopo l’Unità d’Italia si pensò
finanche di uniformare stilisticamente il complesso. A
tale scopo nel 1886 fu indetto
un concorso. Lo vinse il giovane architetto Giovanni Brentano, che però morì
prematuramente: il suo progetto venne messo da parte e il prospetto fu
completato soltanto nel 1892 mantenendo l’accostamento fra manierismo, barocco e
neogotico.
Nel corso di tutto il XX
secolo andò avanti la stratificazione stilistica e si aggiunsero
altri decori, alcuni dei quali
del tutto inconsueti: solo a titolo di esempio, in un angolo delle terrazze si possono
notare delle racchette da tennis — curioso omaggio agli sport moderni — i
ritratti di personaggi dell’attualità come i campioni di pugilato
Primo Carnera ed Erminio
Spalla, poco visibili in mezzo alla foresta di riccioli e pinnacoli sulla
sommità.
Restauri senza fine
Nonostante i secoli di lavori,
le vicissitudini del duomo non erano finite. Durante la
Seconda guerra mondiale
l’edificio subì pesanti bombardamenti. Nella notte tra il 12 e il 13 agosto
1943 la capitale lombarda divenne il bersaglio di decine di ordigni lanciati dagli
aerei alleati. All’alba, mezza città era in fiamme e il duomo in rovina: guglie
pericolanti o decapitate, statue a pezzi, il fianco sud i portali tra le
macerie. Persino l’organo davanti all’altare mostrava lo scheletro di legno tra
canne sparpagliate. Miracolosamente, diverse preziosissime vetrate rimasero
intatte, così come la Madonnina. La statua dorata infatti era stata coperta in
precedenza, soprattutto per evitare che il rivestimento luccicante potesse
costituire un punto di riferimento per i bombardieri. ZOONAR
Quando gli ordigni cessarono
di fischia re sui tetti di Milano e vennero terminati i restauri e le
ricostruzioni del dopoguerra, il duomo fu interessato da un nuovo problema: lo
smog. L’inquinamento ne corrose i marmi e la struttura assunse un colore
grigionerastro che ne rese necessaria la ripulitura.
La prima volta che la facciata
del duomo fu ripulita, nel 1972, i milanesi rimasero a bocca aperta. Nessuno
infatti ricordava più la tonalità rosa-ambrata dell’edificio, la cui superficie
marmorea fu resa più resistente da ulteriori sabbiature successive. Ma îl marmo
di Candoglia contiene venature soggette a infiltrazioni e corrosioni: per
questo motivo, dopo oltre sei secoli dalla sua fondazione, la Veneranda
Fabbrica del Duomo è tuttora in attività e provvede instancabilmente al rifacimento
e alla sostituzione di guglie e parti della struttura deteriorate, in un
circolo virtuoso che ha saputo conservare nel corso dei decenni antichissime
competenze artigianali altrove scomparse. Per permettere questa continua opera
di manutenzione sono state lanciate iniziative come “Adotta una guglia” e
“Adotta una statua” grazie alle quali i finanziatori legano il proprio nome al capolavoro recuperato. Uno speciale accordo
con la Sovrintendenza alle Belle Arti prevede persino che alcune sculture
restaurate în laboratorio possano trovare temporanea ospitalità presso la casa
0 l’azienda dei benefattori.
È vero quel famoso detto
secondo cui i lavori del duomo sono lunghissimi. All’ombra
dell’edificio rimangono vive
le concezioni originarie: l’ambiziosa spiritualità ben rappresentata dal
verticalismo che punta al cielo e uno stile gotico cosmopolita in sintonia con l’Europa a nord delle Alpi.
Kalendimaggio Affrontare un tema legato al calendario rappresenta sempre l’enorme difficoltà di selezionare la ricchezza di contenuti e di riferimenti relativi. Credo che il metodo più corretto sia quello suggerito da Dante Alighieri, di cercare nelle parole e nelle forme il significato letterale, quello morale, il legame analogico ed infine far agire il simbolo nella sua misteriosa potenza. Così il tema delle kalende di maggio deve innanzitutto essere presentato nei fatti. Kalende deriva dal greco “caleo” (latino calo) che significa “convocare” e si riferisce al fatto che il primo giorno di ciascun mese, nell’antica Roma il pontifex minor convocava il popolo per annunciare l’inizio del mese e fissare le nonæ (5 o 7 giorni dopo) e le idi (13 o 15 giorni dopo). Le kalende erano giorno sacro a Giunone, presso il cui tempio avveniva la convocazione, così come le idi erano sacre a Giove. Maggio è il quinto mese dell’anno civile, deriva il proprio nome dalla Dea Maja, madre di Mercurio, Dea della terra e della fecondità. Fino dai tempi più antichi l’inizio di maggio era caratterizzato da feste in onore della natura che si risveglia: ai primi tre giorni corrispondevano le Floralia, feste in onore della Dea Flora, che erano caratterizzate da aspetti particolarmente licenziosi e, contemporaneamente, da ludi agonistici. Nel medioevo ritroviamo la festa del primo maggio caratterizzata dall’albero giovane piantato davanti alle case delle ragazze da marito, come dichiarazione d’amore, oppure nelle piazze in segno di auspicio di fecondità. L’ultimo ricordo ad oggi rimasto è nell’albero della cuccagna che ha sostituito, in taluni casi, l’alloro, l’ulivo, il tiglio o la quercia, oppure che ha sostituito alla tradizione latina quella celtica. Per i Celti il 1° di maggio era la festa chiamata Beltania in onore di Beleno, Dio del sole. L’antica tradizione ci dice come fosse di rito piantare per terra un albero, rappresentante l’asse del mondo, alla cui sommità veniva infissa una ruota fatta di rami fioriti, che rappresentava il sole fecondante che portava la ricchezza dei raccolti attraverso il suo matrimonio con la terra fecondata. Sarà quello stesso albero che verrà bruciato con un grande fuoco ed un rito molto particolare al solstizio d’estate. In Italia ritroviamo manifestazioni che ricordano la festa della fecondità e dell’amore; a Firenze, in particolare, ricordiamo le processioni di fanciulle con corone di fiori sul capo che percorrevano le vie della città con un ramoscello fiorito in mano: era il Calendimaggio. Qualche segnale che non si tratta di una data o di una festa qualsiasi iniziamo a coglierlo attraverso la semplice osservazione che il primo maggio cade esattamente 40 giorni dopo l’equinozio di primavera. Ci troviamo ancora una volta di fronte a quel numero 40 che tante volte compare nella storia sacra, quasi sempre come tempo di purificazione, di penitenza, in preparazione di un momento misterioso e meraviglioso al medesimo tempo. Ci è facile ricordare la quaresima cristiana, i 40 giorni di Gesù nel deserto; sia concesso ad un lettore di alchimia di ricordare che S. Anna abbandona le sue nere vesti dopo 40 giorni di ritiro nel deserto di suo marito, pronta ormai a dare alla luce Maria, la Vergine Bianca e Immacolata che sarà la Madre di Dio. D’altro canto sono bene un ariete ed un toro quelli che compaiono nella quarta figura del famoso Liber Mutus, indicando il tempo nel quale i volonterosi si dedicano a raccogliere la rugiada. Una ulteriore osservazione ci fa ricordare che il mese lunare di 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 10 secondi, cioè il periodo di tempo intercorrente tra due noviluni, è tale solo perché, nel frattempo, la terra si è spostata sull’eclittica: in realtà il tempo che la luna impiega a compiere un giro attorno alla terra è di 27 giorni e qualche ora. Sembrerebbe che 40 indichi una luna e mezza, dal novilunio al secondo plenilunio successivo, oppure l’aver visto tutti i segni dello zodiaco una volta e metà di essi due volte. La stessa cosa accadrebbe a chi entrasse in un tempio tradizionale, con la porta ad occidente e l’altare ad oriente, e percorresse un giro completo del tempio prima di raggiungere l’altare: nelle deambulazioni tradizionali solo a colui che officia spetta tale ruolo, tutti gli altri o si arrestano prima di raggiungere l’altare o si fermano dopo. Si direbbe che solo all’officiante è riservato il punto di equilibrio centrale, corrispondente alla posizione del sole che si leva ad oriente. Morale significa “relativo ai costumi” (da mos) e quindi al comportamento umano, alle cose che l’uomo deve fare, al come deve farle e al quando deve farle. Mi pare che le osservazioni fatte sino ad ora siano appunto in questa ottica. Il limite è che, purtroppo per motivi di tempo, cerchiamo di cogliere dei significati a se stanti in un disegno, il calendario appunto, che è un continuum non fatto di punti isolabili.23 È bene il 21 marzo, giorno dell’equinozio di primavera, che nel profondo della terra si risveglia, secondo la leggenda, Demogorgone, il vecchio drago dormiente nel fuoco e sarà il 23 aprile, esattamente 7 giorni prima delle kalende di maggio che egli verrà trafitto dalla lancia in ferro di S. Giorgio, così come sarà per tutto il mese di maggio che diverse religioni, in diversi tempi, in paesi lontani si accorderanno per venerare Maja figlia di una Pleiade, Gea figlia della Tellus Mater, Brigid figlia di Dagda, Maria figlia di Anna, le cui madri hanno tutte la caratteristica di essere raffigurate di colore nero. Il nero è il colore della morte e della putrefazione, quelle stesse che sono necessarie a qualunque seme per far germinare una pianta, quelle stesse che sono necessarie a Lazzaro per risorgere, quello stesso nero di cui gli antichi maestri affermano: “quando l’oscurità della notte raggiunge il suo massimo, rallegrati! La luce è vicina”. Se allegoricamente. dopo 40 giorni, le kalende di maggio rappresentano il momento della luce e dell’allegria, come testimoniano i riti festosi, l’allegoria dell’albero con la ruota di rami fioriti alla sommità è ancora più commovente: il sole (la ruota) penetra sessualmente (il palo) la materia bruta (la terra) allo stesso modo che un cavaliere rivestito di una lucente armatura aveva penetrato alcuni giorni prima il drago, forza bruta rappresentazione del caos, con una lancia. Questa operazione di accoppiamento violento è ben quella cui l’alchimista serve da operatore esterno, tra il solfo solare e la materia bruta, o quella cui il mago sovrintende, munito della bacchetta tradizionale di nocciolo, o quella che un esperto Maestro delle Cerimonie, munito di regolo, compie in modo semplice penetrando in un tempio-microcosmo e permettendo, con questo suo atto, alla luce di installarsi: “come il sole sorgendo ad Oriente illumina la terra, così …”. Giorno di luce dunque, questo kalende di maggio, che cade in segno di Toro, femminile e terrestre, nel quale la luce, sgorgata dalla gola del drago – caos primordiale 7 giorni prima (fiat lux) – da testimonianza delle sue opere quando si accoppi “incestuosamente” con lo stesso caos da cui è stata separata. Giorno di testimonianza, ma soprattutto di speranza e di promesse per chi lo sappia cogliere, per chi, guardando se stesso, al medesimo tempo mago-alchimista e materia bruta, sappia aprirsi alla luce, permettere l’accoppiamento sublime e diventare la vergine nera che deve partorire quella immacolata. In che modo? Ogni cavaliere che partiva alla ricerca del Graal aveva la sua armatura, la sua lancia e incontrava il suo drago, mentre l’iniziazione ricevuta gli indicava la via e gli dava la forza necessaria per superare le prove: la conquista del Graal era, a questo punto, un problema di realizzazione e vittorie personali. Alcuni, al pari di Ercole e di Teseo, compivano le fatiche, vincevano tutte le battaglie e conquistavano il vello d’oro; altri cedevano alle lusinghe di una vita piacevole e mondana, addirittura dimenticando la propria origine; altri cadevano nella battaglia. In quale modo agisca il simbolo della luce, al di là dei suoi significati letterale, morale ed allegorico, su ciascuno di noi non ci è dato esprimere. La ragione taccia riverente, la bocca ammutolisca, ogni parola sarebbe di troppo. Lasciamo che solo la Fede arda e apriamoci al simbolo senza riserve, lasciandolo agire e lasciandoci condurre, sull’esempio di coloro che hanno permesso a interventi di dei, fate, ninfe di capovolgere situazioni umanamente disperate.
L’Alchimia nel simbolismo della decorazione del Tempio Mi è stato fatto un grande onore chiedendomi di incidere questa tavola e, al contempo, un grande piacere, poiché mi viene concesso di esprimere alcune idee su un argomento che mi è tanto caro e che giudico meritevole di tanti sforzi e di tante notti insonni, nella speranza che il Grande Architetto mi giudichi degno, un giorno, di ricevere l’inestimabile “donum dei” che apre la porta dell’adeptato. Contemporaneamente mi sia dato di esprimere il senso di esitante preoccupazione che assale inevitabilmente un discepolo ai primi passi della sua via, invitato a parlare in quella via medesima, che conosce ancora tanto poco, che ama però con il suo spirito, preoccupato di non dare adito a male interpretazioni, con le sue parole tanto povere ad esprimere l’inesprimibile; preoccupazione ancora accresciuta dal rumore profano che oggi si fa attorno a questo argomento, avvilendolo, talora, a livello di speculazione commerciale e, comunque, contribuendo ad accrescere la confusione delle idee che caratterizza il tempo presente. In primo luogo, cercherò pertanto di chiarire i termini del vocabolario ed in particolare quale è il significato che attribuirò alla parola “Alchimia”. Non credo di saper trovare parole più stringate, e al contempo chiare, di quelle di Fulcanelli (cfr. “Demeures philosophales”, Ed. Jacques Pauvert, pag. 79, cap. v): “la chimica è la scienza dei fatti, come l’alchimia è quella delle cause. … Se l’una ha per oggetto lo studio dei corpi naturali, l’altra tenta di penetrare il misterioso dinamismo che presiede alle loro trasformazioni. In ciò consiste la differenza essenziale fra le due e ci permette di dire che l’alchimia, comparata alla nostra scienza positiva, è una chimica spiritualista, perché ci permette di vedere Dio attraverso le tenebre della materia”. Quelle che ci accingiamo ad evidenziare nel simbolismo massonico sono quindi la tracce e le indicazioni relative a una Scienza, ad una scienza esatta che ha tutte le caratteristiche delle nostre scienze positive, più qualcuna. Tra queste caratteristiche mi limiterò a citare, a titolo di esempio, la ripetibilità di ciò che accade, indipendentemente dall’operatore, ma, a differenza elle scienze positive, non dalle condizioni in cui si trova l’operatore, che nella nostra scienza non è né indifferente osservatore, né presuntuoso creatore, ma umile demiurgo, strumento volontario e volente di una nascita microcosmica che coinvolge tutto il suo essere di uomo e che, pertanto, non può prescindere dalle condizioni in cui si trova. “La verità sulla superficie della terra, non può essere che positiva, e per ciò medesimo, scientifica, affinché si a possibile all’uomo scoprirla” (Canséliet, “Considerations liminaires à l’Alchimie et Révélations crétienne”, par Séverin Batford, pag. 17). Che l’iniziato riceverà, sotto forma simbolica, tutte le istruzioni relative alla via da percorrere, gli è annunciato fin dal primo contatto con l’Istituzione, ancora prima dell’iniziazione vera e propria, nel gabinetto di riflessione. Qui gli sono presentati una serie di oggetti e di scritte, tutti sormontati da una banderuola, o meglio da un filatterio, sul quale è scritto “vigilanza e perseveranza”. Anche se l’iniziando non conoscesse l’uso tradizionale del filatterio che accompagna un’immagine, sia essa scolpita o dipinta, per indicarne un senso nascosto, un’interpretazione non solamente letterale, la parola “vigilanza” lo pone ancora sull’avviso, richiedendogli di “aprire bene gli occhi”, di non essere tra coloro che “pur avendo occhi per vedere, non vedono e orecchi per intendere, non intendono”, mentre la parola “perseveranza” gli indica una delle principali virtù delle quali deve essere dotato per penetrare la simbologia e porre in atto l’insegnamento, malgrado i numerosi insuccessi e i tentativi falliti. Pare di sentire riecheggiare il “Lege, lege, lege, relege, ora et labora” che appare sulla prima tavola del “Mutus liber” .In alto, la ben nota formula di Basilio Valentino: V.I.T.R.I.O.L., da leggersi “Visita Interiora Terræ, Rectificando Invenies Occultum Lapidem”, ricorda all’iniziando il motivo per cui egli si trova in quell’ambiente oscuro, simbolo appunto della “Interiora Terræ”, ossia della miniera da cui estrarre la materia bruta e della caverna dove avverrà la nascita meravigliosa del rebus, minerale non più minerale, frutto dell’unione fisica del solfo e del mercurio, attraverso la mediazione di quel potente catalizzatore che è il sale. La falce, emblema di Saturno, pare indicare in modo abbastanza trasparente l’origine della materia prima, mentre la disposizione a triangolo della coppa di zolfo, di quella del sale e della falce stessa, quando il gallo, consacrato a Mercurio ed annunciatore di luce, li sovrasti, rappresenta in modo mirabile l’azione misteriosa che un Cielo benigno può compiere sulla natura con l’aiuto dell’Alchimista. La candela e la clessidra si completano a vicenda: “se la candela rischiara poiché porta luce, la clessidra appare come la dispensatrice di quella luce, la quale non è affatto ricevuta tutta d’un colpo, ma a poco a poco, progressivamente, con l’aiuto del tempo.” (Fulcanelli: “Demeures philosophales”, II, pag. 207). Canséliet ci raccomanda “quanto importi che l’alchimista operi al livello più alto dell’onda, che è quell’acqua secca che i classici tenevano nella più grande considerazione e che è il fattore unico ed onnipotente della sapiente armonia del mondo. Quest’acqua che è dappertutto e senza la quale nessuna forma di esistenza sarebbe possibile, il Cosmopolita la chiamò acqua del nostro mare, l’acqua che non bagna le mani,” (Canséliet: “L’Achimie expliquée sur le textes classiques”, pag. 195), mentre più oltre lo stesso Canséliet ci sottolinea che “l’artista, ai suoi inizi, si sbaglierebbe grossolanamente se gli venisse l’idea che occorre gettare, come inutile e senza valore, quel caos sorprendente e curiosamente omogeneo, che è anche chiamato ‘testa di morto’” (Ibidem, pag. 205) e che compare ad uno degli stadi iniziali dell’opera: orbene, nel gabinetto di riflessione proprio del teschio e una brocca d’acqua paiono attirare la nostra attenzione su questi due punti tanto essenziali. L’ultimo oggetto che l’iniziando ha ancora davanti è un tozzo di pane, cioè il risultato della cottura della farina, acqua, sale e lievito: la legge dell’analogia, base della scienza dei simboli, indica così la via per ottenere il risultato cercato, una volta conosciuta la materia che darà origine al pane di vita. Avendo così avuto, in un unico colpo d’occhio, i simboli della materia prima, dell’agente e del modo di operare, l’iniziando, dopo aver volontariamente aderito alla via che gli è presentata, ancora nella completa oscurità, rappresentata dalla benda, cercando di porre i piedi ove li pone la sua guida, a cui è legato da una corda, intraprende il suo viaggio alla ricerca della luce. È il famoso pellegrinaggio a Santiago de Compostela, meta di tutti gli alchimisti, che l’iniziando compie come un pellegrino, scalzo e con gli abiti in disordine, durante il quale gli verrà data la luce, che lo renderà un giorno Compos Stellae, padrone delle stelle, appunto. Ma è anche il viaggio della materia bruta che dovrà essere introdotta in un tempio-forno, nel quale le verrà comunicata la luce, e, dopo un certo tempo di cottura, sarà anch’essa Compos Stellae, padrona della stella, dominatrice della stella. Caduta la benda, le indicazioni del lavoro da svolgere si fanno più precise. “Gli antichi hanno paragonato la materia dei saggi al caos della creazione, dove gli elementi e i principi, le tenebre e la luce si trovano confusi, mescolati e fuori dalla possibilità di interagire. Per questo motivo, gli antichi hanno indicato simbolicamente la materia prima nel suo stadio iniziale con l’immagine del mondo, che conteneva in sé i materiali del nostro globo ermetico, o microcosmo, riuniti senz’ordine, senza forma, né ritmo, né misura.” (Fulcanelli: “Demeures philosophales”, pag. 167). Ed è un globo terracqueo, appunto, quello che sormonta la colonna B, che unanimemente gli autori massonici fanno corrispondere all’elemento femminile e passivo. Ma come portare il tanto prezioso materiale allo stato di purezza che a noi interessa? Colpendo tre volte il ferro, come il simbolo puntualmente insegna nel rituale di iniziazione al grado di apprendista, attraverso i tre colpi di maglietto sulla pietra grezza. La pietra cubica, posta in posizione simmetrica ci indica il risultato del primo lavoro. È quella stessa pietra cubica che Fulcanelli illustra nel bassorilievo di Chateau Dampierre (“Demeures philosophales”, II, pag. 32) “dove si vede la pietra cubica degli antichi Liberi Muratori che galleggia sull’onda marina. Malgrado una tale operazione paia impossibile, essa non cessa tuttavia di essere naturale, poiché il nostro mercurio porta i sé il principio sulfureo solubilizzato, al quale si deve la sua ulteriore coagulazione” e più oltre “… ci troviamo in effetti davanti a un reale mistero, per il suo svolgimento, contrario alle leggi chimiche, mistero che, né il sapiente più istruito, né l’Adepto più esperto saprebbe spiegare . … Questa pietra cubica la natura la genera dalla sola acqua – materia universale del peripatetismo – e l’arte ne deve tagliare le sei facce, secondo le regole della geometria segreta”. Dalla stessa parte della pietra cubica la colonna J, tradizionalmente riconosciuta maschile e sormontata da tre melograni spaccati: la scorza ruvida che racchiude il liquido rossastro nel quale sono annegati dei granuli bianchi è, al contempo, splendido simbolo del frutto ermetico cui il coltivatore alchimista dedica tante cure e trasparente rappresentazione del modo di estrarre il mirabile catalizzatore che benedice l’unione del solfo e del mercurio. Ma la simbologia sarebbe incompleta, se si dimenticasse il fuoco, l’elemento più importante che entra in gioco fin dall’inizio della lunga elaborazione filosofale: il triangolo che, tradizionalmente, indica l’elemento, compare con frequenza nel tempio ed in particolare nella forma dell’ara e nel segno sovrastante il tronetto all’oriente, circondante la lettera G: quella lettera G, settima dell’alfabeto, che è l’iniziale della materia prima, sostiene Fulcanelli. La profusione con cui il triangolo compare nel tempio pare ricordare all’iniziato che il fuoco, sotto le varie specie, è attore costante dell’opera filosofale e senza di lui nulla potrebbe essere fatto, né il sole e la luna che compaiono ad oriente, simboli dell’oro e dell’argento filosofici o del solfo e del mercurio, il che è lo stesso, potrebbero mai congiungersi. L’albero secco è sempre stato, nella tradizione ermetica, il simbolo del metallo arrestato nel suo sviluppo verso la perfezione rappresentata dall’oro. L’alchimista è tradizionalmente invitato a riprendere il lavoro dove la natura lo ha lasciato, quando, per qualche accidente, l’albero metallico si è seccato. In realtà l’azione di essiccamento è avvenuto perché è venuto a mancare il principio maschile, attore dello sviluppo, o comunque è stato, per così dire, reso impotente. Un metallo in tali condizioni è una materia orbata del suo principio maschile, una materia “vedova” del suo solfo o oro, così come lo è in particolare la nostra materia prima. Quale toccante simbolo, racchiuso nell’atto più materiale che si possa compiere in tempio, al limite più profano, che quello di introdurre del denaro, cioè dell’oro, nel “tronco della vedova”! Di scienza dunque si tratta, di una scienza che, a differenza delle discipline moderne, tiene conto dell’agente igneo, principio spirituale e base dell’energia, sotto l’influenza del quale si operano tutte le trasformazioni materiali. “Voi credete – scrive Henri Hélier a Louis Olivier (cfr. “Lettre sur la philosophie chimique” in Revue des schiences, 30 dicembre 1896, pag. 1227) – alla fecondità infinita della esperienza. Senza dubbio; ma sempre la sperimentazione è condotta seguendo una teoria preesistente, una filosofia; teoria molte volte quasi assurda all’apparenza, filosofia talora bizzarre e sconcertante”. Credo che, anche nel nostro caso, sia importante notare che al di là di qualsiasi interpretazione, solo morale o solo di elevazione spirituale, la azione celata sotto i simboli non è null’altro che la prassi operativa della più pura tradizione occidentale, nella sua espressione, per così dire, “ottimistica”: l’ermetismo. Gli studi del Warburg Institute e, particolarmente, i contributi del Festugère hanno posto in rilievo come il pensiero esoterico occidentale si sia diviso, con l’avvento dell’era cristiana, in due grandi filoni, talora chiaramente distinti, talora inestricabilmente uniti, quello che, per usare la terminologia del Festugère, chiameremo “visione pessimistica del mondo” e quella che chiameremo “visione ottimistica del mondo”. Secondo la visone pessimistica, il male è qualcosa di insito nel creato, opera di un demiurgo, se non malvagio, quanto meno imperfetto e privo del sostegno della Sapienza Divina; lo Spirito è stato imprigionato nella materia per errore o per una colpa iniziale e il suo unico obiettivo è la liberazione dalla materia stessa, vissuta come catena, sofferenza e impurità. Così i Catari giungevano al rifiuto, alla negazione della materia, rifiutando la procreazione e, talora, la vita stessa, quando i “Perfetti” si lasciavano morire di fame, in un atto di estrema coerenza alla loro teoria. Secondo la “visione ottimistica”, invece, la materia è sostanzialmente buona, come qualunque opera del Creato, anche se affetta da una malattia, da un principio distorcente e malvagio: esso è però eliminabile e la materia è salvabile in unione intima con lo spirito, del quale essa segue il destino in modo inscindibile. Genericamente proponiamo il riconoscimento della prima teoria nello Gnosticismo e in tutte le sue manifestazioni; mentre la seconda è propria dell’Ermetismo. Secondo quest’ultimo – afferma in un suo recente discorso un maestro che mi onora della sua amicizia – è perciò naturale conseguenza della bontà sostanziale del creato che “lo studio della Natura, la conoscenza del senso segreto delle cose, ci può condurre a una conoscenza più alta, quella del suo Creatore o, come si suol dire, quella del suo Nome Ineffabile. Cosicché, se nello Gnosticismo si può parlare di una iniziazione come di quel processo che aiuta lo Spirito imprigionato a liberarsi dal mondo della materia, e dai cattivi demoni che lo suggellano, per raggiungere una conoscenza che sarà negazione di questa realtà e vittoria sui demoni – gli Arconti delle sette sfere, per semplificare -, nell’Ermetismo, la Saggezza è conoscenza di questa realtà completamente accettata, sempre intravista in una profondità non comune; il problema che ci si porrà sarà quello di aiutarla a perfezionarsi, eliminando un male, per altro, solo contingente. Il processo iniziatico sarà perciò prassi attiva, che non potrà mai prescindere da un operare nel mondo stesso”. La conclusione è ovvia. Nella misura in cui la Massoneria si fa veicolo di trasmissione della tradizione esoterica occidentale – e, secondo noi, essa è oggi l’unico veicolo organizzato, per così dire, di tale tradizione – i suoi simboli e i suoi rituali sono l’espressione fedele della Scienza, a disposizione di coloro che, avendo occhi per vedere, vedono e orecchi per sentire, intendono. Il dubbio che lasciamo sospeso a mezz’aria è se valga la vecchia distinzione tra Massoneria operativa e Massoneria speculativa, nella quale la prima si sarebbe trasformata, o se in realtà, anche oggi, come sempre, la Massoneria operativa, la Scienza operativa, non sia una realtà pratica estremamente attuale.
Marmolada: la causa della crisi climatica non sono i
cittadini, ma le loro finte libertà
Marmolada: la causa della crisi climatica non sono i
cittadini, ma le loro finte libertà
di Gianluca Pinto
Prendo spunto da alcuni luoghi comuni (ascoltati a latere
della tragedia sulla Marmolada) in cui si sostiene che la causa del cambiamento
climatico siamo noi tutti, con i nostri comportamenti. È una lettura totalmente
errata e strumentale quella che scarica in toto la responsabilità del disastro
ambientale sui singoli individui (i ‘consumatori’); ovviamente nulla c’entra
questo con il fatto che esista realmente una diseducazione da questo punto di
vista e che il comportamento individuale abbia un enorme peso, ma questa è solo
una parte (e non la maggiore) del racconto. È la solita ributtante manfrina del
capitale che trova l’alterità su cui scaricare gli oneri (l’’utente finale’,
che oggi sta anche per ‘colpevole’ finale). È lo stesso principio per cui le aziende
affondano gli artigli sul denaro della collettività (l’insieme degli ‘utenti
finali’), privatizzando i profitti e socializzando (idem) le perdite.
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Marmolada, ricerche anche via terra: ritrovati i resti della
decima vittima. L’Ue: “Ultimo esempio dei rischi legati a cambiamenti clima”
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Ci è stato imposto, ogni singolo istante della nostra vita,
il principio che si debba ‘consumare’ e non solo, che sia necessario consumare
‘sempre di più’ (e quindi produrre di più, con aumento dell’entropia
ambientale). Chi è che giornalmente ci educa con il Pil e con il rilancio dei
consumi? I consumatori? Chi sono coloro che si rifiutano di valutare il costo
ambientale, nell’ambito della cosiddetta ‘scienza economica’ (che, ricordo, non
è proprio catalogata come scienza esatta, senza contare gli assiomi su cui si
fonda): i ‘consumatori’ o i portavoce dei padroni? Chi è che non vuole
contemplare la voce in più nei ‘costi’, rappresentata dall’’usura ambientale’:
I cittadini?
Oggi si fa largo ricorso alla parola ‘libertà’ che ha
assunto un valore assoluto, ideologico, persino bellico. Mi spiace molto
doverlo ricordare, ma tutta questa libertà l’uomo non l’ha mai avuta. Non ha la
libertà di vivere in eterno, ad esempio. Non ha la libertà di non ammalarsi mai
(questo per ‘natura’). Non ha, inoltre, la libertà di tagliare la gola al
vicino o di prendere a randellate ad mentula canis chi vuole (questo per il
principio umano di regolazione dell’entropia sociale). Non sarebbe ora di
ragionare su limitazioni di altre ‘libertà’ dannose, come quelle che hanno
portato il genere umano sull’orlo dell’estinzione? Magari limitare la libertà
di troppo pochi di arricchirsi troppo; limitare la libertà di ‘produrre troppo’
(con effetti sull’uso di energia e sull’impatto ambientale della nostra
presenza su questo pianeta).
Non sarebbe il caso, insomma, di ragionare sulla limitazione
della odierna totale libertà di devastare l’ambiente e ridurre sempre più in
povertà il genere umano (‘crisi ambientale’ e ‘povertà’ sono collegati ed hanno
la stessa causa)? Sarebbe anche ora, inoltre, di smetterla di strumentalizzare
il concetto di libertà per garantire la possibilità degli áristoi di fare e
disfare la vita di tutti (ad esempio agendo il mondo solo in funzione di
profitto senza valutare null’altro) e di usarlo dolosamente come equivalente di
‘liberismo’ o ‘democrazia’, al fine di imporre l’idea che toccare il liberismo
significhi toccare la democrazia (che funziona sulla base di ‘leggi’ e quindi
su limitazioni della libertà di fare indiscriminatamente quello che che ci
pare) o toccare la libertà vera, che è la libertà di tutti di vivere responsabilmente
il nostro pianeta.
Marmolada, nel 2006 pubblicavo una foto con dei tipi da
spiaggia sul ghiacciaio. Quello scatto fa riflettere ancora
Chiunque continui a sostenere che tutta quanta la
responsabilità sia solo in capo ai comportamenti dei singoli individui che sono
cattivi consumatori sostiene il falso. L’ambiente è un sistema integrato con
l’uomo (che si nutre di parti dell’ambiente in cui vive), non una zona ‘vuota’
dove l’uomo può riversare l’entropia prodotta dalle sue azioni. Chi ha fatto e
scritto la storia, soprattutto in questi ultimi 30 anni, è il potere economico
e i portavoce la divulgano. Che sia anche giunto il momento di cominciare a
raccontare la realtà e quindi la storia tramite altri scrittori magari
inserendo, come punto di riferimento in più, il depauperamento ambientale?
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