LA MASSONERIA E LA RIVOLUZIONE DEL 1799 A TARANTO

LA MASSONERIA E LA RIVOLUZIONE DEL 1799 A TARANTO

di

Francesco Guida

Una rivoluzione massonica?

Già è difficile considerare la rivoluzione napoletana come rivoluzione giacobina in senso stret to, ovvero impostata sul modello della rivoluzione francese. Non si può parlare di giacobinismo in senso stretto in quanto il giacobinismo in Francia era stato già disperso, ma il movimento napoletano, secondo Franco Venutri, è “un derivato della fusione della grande tradizione della cultura illuministica napoletana e delle forze morali che le idee della rivoluzione francese hanno saputo suscitare” (Tommaso Pedio, Massoni e Giacobini nel Regno di Napoli, ed. Montemurro, Matera 1976, p.85).

Strettamente parlando non si può parlare di Massoneria quale regista della rivoluzione napoletana. Quando la corte di Napoli venne a conoscenza della situazione a Parigi, con una lettera giunta il IO ottobre 1789, dell’invasione delle Tuileries, lasciando intendere che l’artefice fosse il principe Luigi Filippo d’Orleans, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, la stessa regiria Maria Carolina, sorella della regina di Francia, Maria Antonietta, cambiò immediatamente opinione e sentimento sulla Massoneria divenendone acerrima nemica. Fu lei a sobillare il marito Ferdinando IV ad emanare l’ editto del 3 novembre 1789 contro la Massoneria. In seguito a tale provvedimento l’Istituzione cessò di esistere. Pertanto, le varie obbedienze come la Gran Loggia Nazionale, da Diego Naselli, le logge “inglesi” e quelle “francesi” chiusero i battenti. Dalle logge “inglesi”, le più attive con componenti di estrazione borghese, sorsero i “clubs” giacobini, formati da ex massoni come Mario Pagano, Pasquale Baffi, Giuseppe Albanese, Domenico Cirillo, Francesco Caracciolo (E. Stolper; La Massoneria settecentesca nel regno di Napoli, in Rivista Massonica 1975 pp.410-411; Fulvio Bramato, Napoli Massonica nel Settecento, pp.64-65).

Conseguenza dell’ editto del 3 novembre è la persecuzione di ogni “unione o società”. Uno degli episodi più eclatanti, e non ancora ben esaltato, fu il processo ai giacobini del 1794, in seguito al quale fu giustiziato il martire massone Emanuele De Deo di Terlizzi. Comunque, nonostante l’editto alcune sporadiche logge continuarono a lavorare nella clandestinità abbracciando i principi della Rivoluzione Francese. Nel marzo 1793 si scoprì che le logge erano organizzate in clubs di sei elementi ciascuna per non essere scoperti (Antonino de Francesco, Vincenzo Cuoco – una vita politica, Laterza 1997, p. 145).

Nell’ agosto 1793 Carlo Lauberg radunò a cena una ventina di Fratelli e qui decisero di abolire tutte le logge tradizionali e di unire in società “li massoni di ultima organizzazione”: si concluse all ‘unanimità che tutti i massoni formassero clubs di non più di undici soggetti (Giuseppe Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo, p. 393). Tali clubs erano suddivisi in quattro livelli: i clubs elementari, che erano le cellule base della struttura, di stanza periferica, si potevano moltiplicare in numero indefinito senza superare gli undici componenti, e se raggiungevano il dodicesimo dovevano scindersi in due clubs proprio per permettere una gestione agile e quanto più al sicura dalle persecuzioni.

Il club era retto da un presidente, un dq)qt.ato ed un segretario. Il candidato Veva essere presentato da due commissari elementari, quali erano #lli scelti tra i più antichi affiliati ed avevano la cura e l’ onere di verificare il curriculum del richiedente.

Il club dei deputati era formato da affiliati di provata fede e capacità. A seconda delle necessità i deputati si riunivano in gruppi composti al massimo di undici elementi, come per esempio per eleggere i commissari dei deputati, per poi sciogliersi subito dopo.

I clubs elettorali erano composti dai commissari dei deputati con il compito di scegliere nel loro ambito i membri del comitato centrale. Non si scioglievano come il club dei deputati in quanto funzionavano come organo di raccordo tra il club centrale ed i deputati, rappresentando le loro istanze al club centrale, vigilavano sulla sicurezza e controllavano i deputati. Il club centrale era il massimo livello dell’ organizzazione, con i membri conosciuti solo da pochi altolocati giacobini. Le disppsizioni erano rese verbalmente ai commissari, da cui erano trasmessi nello stesso modo ai propri deputati, e da questi riferiti per l’esatta

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esecuzione ai clubs elementari (Oreste Dito – L’influenza massonica nella storia calabrese – Ed. Brenner 1988, pp. 14-15). Molto suggestiva si rivela ai nostri occhi la procedura di elezione del presidente del club centrale: ognuno dei venti deputati, disposti in circolo, lasciava a turno il proprio cappello ai piedi del prescelto “a punto d’unione de’ deputati”, di modo tale che chi raccoglieva maggiori suffragi veniva eletto quale “punto centrale”. Un punto iscritto nel cerchio. ln conclusione, non si può dedurre che artefice della rivoluzione sia stata la Libera Muratoria perché era stata disciolta come organizzazione, ma si può affermare che furono i Liberi Muratori che portarono avanti le idee dell’istituzione nella Rivoluzione.

Prodromi massonici in terra jonica

(Giuseppe Grassi – Il tramonto del secolo XVIII in Martina Franca Taranto – Tipografia Arcivescovile: 1926). In Martina i Liberi Muratori venuti da Padova e da Roma avevano fondata la loro prima sede (P. Palumbo Ris. Sal. pag. 13). Non si sa chi sia stato il fondatore. In qualche manoscritto si fa il nome di Bonaventura Fighera, ma è frutto della confusione con altro Bonaventura Fighera, nipote di quel pittore gravinese che si stabilì a Martina. Da Martina i Liberi Muratori si propagarono in tutta la Terra d’ Otranto (così allora si chiamava la provincia di Lecce). Secondo una memoria storica i propagatori furono il francese Francesco Barbaris, Matteo Caro di Messina, Raffaele Mille con la moglie Teresa Gallo, venuto da Napoli per questo scopo. In Taranto fu massone Filippo Ceci (P. Palumbo, op. cit. p. 14).

Ma Nicola Vacca contesta tale riferimento del Palumbo nonché quello di Cesare Teofilato, secondo il quale la Massoneria esisteva nel Salento già nel 1785. Secondo il Vacca, non potendo fruire di fonti certe è invece molto probabile che esponenti locali siano stati affiliati in Napoli, come ad esempio il principe Michele Imperiali di Francavilla Fontana, affiliato a Napoli tra il 1750 – 1770 (Memorie Metalliche Salentine, Napoli – Agar 1962 pag. 25). Invece la prima documentazione certa sulle logge massoniche tarantine risale attualmente solo dal decennio francese, a partire dal 1804.

Esaurita questa premessa doverosa per inquadrare le azioni dei massoni tarantini, è opportuno tratteggiare, seppure in grandi linee. il contesto sociale della città di Taranto in quel periodo. È sufficiente ricorrere alla descrizione fatta da un viaggiatore svizzero, il conte Ulisse de Salis Marschlins, che passò da Taranto nel 1789. Dalle sue osservazioni emerge un quadro deprimente di una città sporca e maleodorante, composta da circa ventimila abitanti in uno stato di ignoranza e semi-abbrutimento: da tale plebe era vano aspettarsi in caso di rivolgimenti sociali un lucido contributo al cambiamento ma solo anarchia. Come nelle altre province del regno, i rampolli delle famiglie altolocate emigravano nella capitale napoletana per attendere agli studi. Da questa ristretta cerchia di intellettuali, formati alla scuola del massone Gaetano Filangieri, del massone Domenico Cirillo e dell’abate Antonio Genovesi, uscirono i protagonisti della rivoluzione del 1799, non a caso definita come rivoluzione massonico-giacobina (Cfr. Antonio Lucarelli, Puglia nel Risorgimento, vol. II pag. 142).

Anche Taranto ebbe la sua breve repubblica, portata da un pugno di uomini e durata appena ventinove giorni. Ma, diversamente da altri tragici epiloghi, come a Martina Franca, Altamura, Matera e tante altre province, Taranto fu risparmiata dallo sterminio e dalla violenza cieca, grazie al sacrificio morale e sociale di un uomo: l’ arcivescovo Giuseppe Capecelatro. Molto si è scritto in loco su questa figura di prelato che fu un personaggio tipico della mondanità napoletana a cavallo del secolo.

Nominato giovanissimo, all’età di 34 anni arcivescovo di Taranto, allora importante diocesi del regno, su interessamento del ministro Bernardo Tanucci, Capecelatro portava uno spirito nuovo ed originale nel mondo ecclesiale tarantino. Per nulla superstizioso, impresse una svolta innovativa nella diocesi che durerà per molti anni. Era portatore di idee gianseniste, che in quel contesto storico ecclesiale significava essere tacciati anche per massone: “La singolare alleanza e l’esplicita simpatia tra massoni e giansenisti, erano determinate dalle affinità dei rispettivi programmi. In alìre parole, despotismo illuminato, da un canto, episcopalismo e chiesa nazionale, dall ‘altro…. L’abate Pietro Tamburini, capo riconosciuto del Giansenismo lombardo affermò, nel 1793, che la Libera Muratoria, di cui non vuole giudicare né bene né male, era avida di riforme religiose, per nulla nemica dello Stato, propensa alle teorie gianseniste e perciò ritenuta affine al giansenismo’ .

Innovò il Seminario, luogo di formazione culturale prima teologica, con l’ istituzione delle cattedre di agronomia e medicina, dotandolo di docenti aperti alle innovazioni culturali, lontani dal curialismo e dalla soggezione romana ma immersi nella realtà socio culturale del territorio. Alcuni di questi preti vicini a

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Capecelatro saranno coinvolti nei moti del 1799 e successivamente in sette massoniche e carbonare.

Il primo della lista è don Giovambattista Gagliardi, famoso naturalista ed agronomo cui fu affidata la originale cattedra di agricoltura, il rettore del Seminario don Vincenzo Sebastio, il superiore degli Agostiniani padre Colella, il cappellano militare don Nicola Abbraciavento, il canonico Giuseppe Antonio Ceci, il frate Guglielmi. Tutti massoni? Non si ha alcuna certezza, ma Gagliardo certamente lo era. Fallito dopo appena un anno l’ esperimento dell ‘insegnamento dell’ agricoltura al Seminario, Gagliardi, intorno al 179091 andò a Napoli ove conobbe tra gli altri Mario Pagano, Domenico Cirillo, Melchiorre Delfico, ed è molto probabile che in questo periodo venne affiliato alla Massoneria.

Durante i moti fu sentito esclamare di essere giacobino da sette anni. Questa è una traccia interessante per scoprire l ‘ appartenenza massonica del Gagliardo. Se il movimento giacobino era stato disperso in Francia nel 1 794 con una legge del Direttorio, come può Gagliardo dichiarasi giacobino nel 1799? Forse la risposta si può trovare nel fatto che a Napoli non sono esistiti giacobini nel senso stretto dell ‘accezione perché il giacobinismo napoletano ha una propria fisionomia.

Per inserire il ruolo di Gagliardo nella rivoluzione del 1799 è opportuno dare qualche cenno sugli avvenimenti politici del regno di Napoli.

L’occasione della rivolta

Nel loro disegno di occupazione i Francesi occuparono Roma nel 1798 facendo prigioniero il papa Pio VI e costituirono la Repubblica Romana. In forza di trattati vigenti Ferdinando IV, re di Napoli, mandato il suo esercito comandato dal generale Carlo Mack ad accorrere a Roma per liberare il pontefice, vi fece ingresso trionfale. Ma i Francesi contrattaccarono, guidati dal generale massone Championnet, sconfiggendo l’esercito borbone e mandando in fuga Ferdinando TV. Quindi occuparono Napoli, il 21 gennaio anche se strenuamente difesa da orde plebee, i Lazzaroni, provocando nuovamente la fuga del re borbone, che il giorno di Natale del 1798 aveva raggiunto Palermo. Il 22 gennaio i patrioti napoletani proclamarono la Repubblica, riconosciuta il 24 gennaio da Championnet. Le conseguenze di tali avvenimenti si riflettevano in tutto il Regno con l ‘ anarchia derivante dai disservizi. Si interruppe il servizio postale per cui non si avevano notizie dalla capitale né dal Preside del capoluogo si avevano indicazioni su come comportarsi in tali frangenti. Gli animi del popolo non erano inizialmente favorevoli al nuovo corso.

La Rivoluzione a Taranto

A fine dicembre 1798 finirono a Taranto provenienti da Barletta alcuni emigranti corsi, al servizio dell’ Inghilterra, tra i quali il conte F. A. Rossi, con la moglie e figlia, che furono scambiati per Francesi. Questi furono trattati con ostilità dal popolo, e chiarito l’equivoco furono ospitati dall’arcivescovo Capecelatro nel suo palazzo per circa diciotto giorni.

Intanto il 9 gennaio erano giunti a Taranto sette corsi, non altolocati come il conte Rossi, tra i quali Francesco Boccheciampe, Giovambattista De Cesari, Raimondo Casimiro Corbara, inviso al conte Rossi che si rifiutò di portarli con sé.

Essi restarono a Taranto sino all’otto febbraio, quando dovettero fuggire nell’isola di San Pietro. Era accaduto che il sei febbraio si era impiantato l’ Albero della Libertà a Martina Franca, ed il giorno successi vo I ‘ arcivescovo Capecelatro ne venne inforrnato.

L’ otto febbraio arrivò finalmente la posta con la clamorosa notizia. L’ arcivescovo Capecelatro ricevette un fascio di stampe da consegnare al “noto liberale” Michele Gennarini. Giunse da Napoli anche Saverio Miglietta, “propagandista rivoluzionario”. All’ arcivescovo venne intimato di collaborare col nuovo regime, con la pubblicazione di una pastorale in suo favore. l’ adesione del Capecelatro fu immediata, convocò il governatore, il Comandante del Castello e gli elementi rappresentativi dei diversi ceti, consigliandoli di istituire il nuovo governo. Quindi inviarono un banditore per le vie delle città che invitava il popolo a radunarsi davanti l’ arcivescovado. Parlò per primo Capecelatro che invitò il popolo ad adeguarsi al nuovo sistema, poi presero la parola incisivamente Giovambattista Gagliardo e Michele Gennarini, che lessero i proclami e le stampe pervenute da Napoli, commentandole e condannando l’ operato del re.

In particolare Gagliardi dichiarò pubblicamente di donare alla nascente repubblica settecento ducati. La mattina dell’8 febbraio si procedette all’ elezione del presidente della Municipalità nella persona del patrizio Francesco Antonio Calò, che seppur riluttante dovette accettare la carica, del segretario e di

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