UN MASSONE RIFLETTE SUL PATER
La lingua parlata da Gesù era l’aramaico. Tuttavia i Vangeli sono stati scritti in greco e solo successivamente tradotti in latino nella Vetus Itala, poi rivisitata da san Gerolamo, l’autore della famosa Vulgata. Pertanto, per l’esegesi dei testi occorre fare riferimento innanzitutto al testo greco. Per questo lavoro è stato compulsato quello di Matteo, il più completo e adottato ufficialmente dalla liturgia cattolica, riprodotto nell’edizione bilingue curata dal Merk.
Osservo, preliminarmente, che la preghiera si compone di due parti. La prima contiene l’identificazione della divinità, la sua essenza, la sua azione in questo mondo; la seconda, invece, attiene al rapporto che intercorre con l’uomo ed alle modalità comportamentali di quest’ultimo.
Padre nostro, che sei nei cieli. S’incomincia con l’invocazione al Padre, facendo seguire il sostantivo dall’aggettivo “nostro”, cioè “di tutti noi”. L’aggettivazione è oltremodo significativa, perché sottolinea la comunione universale fra tutte le creature. Questa interpretazione è rafforzata dalla proposizione susseguente: “che sei nei cieli”, al plurale, quindi. Perché? Anche chi non è addentro all’astrologia, come il sottoscritto, si è imbattuto in altre occasioni in questa terminologia. Ricordo che nella Divina Commedia la struttura del Paradiso è formata da nove sfere, o ‘cieli’, che prendono il nome dei pianeti allora conosciuti, ai quali si aggiungono il cielo del Sole, della Luna e quello delle Stelle Fisse; tutti questi cieli sono contenuti in quello del Primo Mobile, che li trascina nel movimento; infine l’Empireo.
Nell’astrologia tradizionale i pianeti e le stelle vengono in considerazione non tanto per sé, quanto per la funzione che svolgono sull’uomo e sull’ambiente; indicando i “cieli” s’intende quindi fare riferimento alla funzione armonizzatrice della divinità in ogni aspetto della creazione, considerata unitariamente, sì da apparire una teofania: cæli enarrant gloriam Dei, canta il Salmista, cioè la natura, il mondo, l’universo intero esaltano la gloria di Dio, del quale sono un’emanazione. Sarebbe superficiale identificare questa concezione come “panteismo”, credo invece sia più esatto definirla “panenteismo”, pàn en theò, tutto è in Dio.
Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà. Se la traduzione latina ci lascia perplessi, quella italiana ancor di più.
La forma verbale adoperata nella Vulgata è il congiuntivo esortativo, laddove in greco si adopera l’imperativo aoristo passivo. Il tempo aoristo – aorìstos chrònos – indica l’azione accaduta in un tempo indefinito; la parola “aoristo” etimologicamente significa “senza mettere confini”, a-orìzein. Una forma particolare di questo tempo, usata per indicare un’azione extra-temporale, è quella dell’aoristo “gnomico”, da ghnòme, sentenza: veniva usato per conferire autorità al discorso, indicando una verità o una norma, legale o di vita. La lingua greca è molto ricca di sfumature, sicché la traduzione necessita spesso di perifrasi, come ben sanno gli studenti.
Tutto ciò significa che tutte le azioni, alle quali l’orazione si riferisce, non devono auspicabilmente accadere in futuro, bensì che sono state già compiute, una volta per tutte, in una dimensione eterna, atemporale, nel tempo senza tempo!
Assolutamente fuorviante è la traduzione italiana “sia fatta la tua volontà”, quasi che sia compito dell’orante operare o cooperare per questo scopo. Tanto il latino fieri quanto il greco ghìghnomai significano principalmente “essere”, “nascere”, “divenire”, “compiersi”. Inoltre, nel testo greco l’azione verbale è espressa nella seconda persona singolare: il soggetto che l’ha compiuta è quindi il medesimo Padre al quale ci si rivolge, intendendosi così che Egli ha voluto che il suo nome fosse santificato, il suo regno instaurato, la sua volontà compiuta!
Come in cielo così in terra. Questa volta “cielo” è singolare, in antitesi a “terra”, per rendere meglio l’idea della verticalità, il filo a piombo del Grande Architetto, il sûtrâtmâ della tradizione indù, simbolo ‘assiale’ della manifestazione, il quale unisce fra loro gli stati molteplici dell’Essere e li congiunge contemporaneamente al Principio superiore, dal quale provengono ed al quale armoniosamente si ricongiungono.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano. In Matteo, testo latino, non si usa l’aggettivo “quotidiano”, bensì supersubstantialem, “che sta sopra la sostanza”, dunque spirituale; nel testo greco epioùsion, participio presente di epeimi, “sopravvenire”, “sopraggiungere”, in questo senso “quotidiano”; ma anche di epeimì, letteralmente: “che sta sopra: epì – l’essere: eimì”. L’avverbio sémeron significa “oggi”, “ogni giorno”, esprimendo compiutamente l’idea della quotidianità. Azzardo allora la seguente traduzione: dacci oggi il nostro nutrimento spirituale, che è ben diverso dalla pagnotta. Forse, però, entrambe le traduzioni sono esatte: tutto dipende dall’evoluzione spirituale raggiunta da chi chiede.
Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Anche su questo punto c’è qualcosa da dire. Innanzitutto, tanto la traduzione italiana “rimettiamo”, quanto quella latina dimittimus, è errata: nel testo greco è scritto afékamen che è la forma verbale del tempo perfetto: si deve quindi tradurre “abbiamo rimesso”. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Gesù era un ebreo, come tale aveva un fortissimo senso della giustizia: non si può chiedere per sé più di quanto non si sia già dato agli altri. Ma è tutto qui? Credo si possa aggiungere qualcosa d’altro.
Innanzi tutto, il sostantivo ofeléimata è stato esattamente tradotto “debiti”, ma si sarebbe potuto rendere anche “obblighi”. “Obbligo” è ciò che ci “lega” (ob-ligo). C’è una differenza, il debito essendo conseguenza dell’obbligo. “Rimetti” è la traduzione di àfes, letteralmente “portare via, lontano; rimuovere”. Giustamente, allora, Arnold Bittlinger propone un’interpretazione psicoanalitica: rimuovi ciò che ci lega (male) gli uni agli altri, cioè il rancore che ci corrode all’interno e che ci fa vivere male, facendoci sprecare energia. È un concetto ben noto ai buddisti, i quali insegnano il valore della meditazione, la cui pratica serve per purgare la mente dalle negatività che ci causano frustrazioni e sofferenze. Inoltre, recenti studi in campo medico hanno dimostrato la connessione esistente tra le malattie “dell’anima” ed i tumori, perché la corrosione interiore provocata dalle prime altera il processo di rinnovamento biochimico delle cellule, che così restano maggiormente esposte al rischio di degenerazione tumorale. In questo senso, il perdono appare cosa assai diversa da quella propostaci dall’imperante buonismo: si può perdonare, si può cioè rimuovere il ‘legame’, senza per questo aprire le porte delle carceri a chi non ha dato alcuna prova di pentimento per il passato e di ravvedimento per il futuro.
Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Anche questa traduzione ci lascia del tutto insoddisfatti, se non addirittura sconcertati. Non riusciremo mai a capire come la massima espressione d’amore possa giocare crudelmente con noi, sue imperfette creature, tentandoci per vedere se ci caschiamo e magari rallegrarsene. Di una simile divinità non sentiamo proprio il bisogno.
In realtà, peirasmòn ha il significato di “prova”; il verbo peiràzo significa “mettere alla prova”. La prova è concettualmente cosa diversa dalla tentazione, non c’è la spinta verso il male; Giobbe fu messo alla prova, Eva fu invece tentata dal serpente; il soggetto messo alla prova conserva sempre la libertà di scegliere tra il bene ed il male, senza ricevere sollecitazioni né in un senso né in un altro.
Il ‘male’ di cui si parla è solo quello metafisico? O non è anche il “male di vivere”, quello, quotidiano, esistenziale, che può farci pensare di essere stati abbandonati dal Padre al nostro destino? Il dubbio è legittimo: nell’Apocalisse le battaglie escatologiche sono precedute da eventi catastrofici quali guerre, pestilenze, carestie, ecc., che toccano da vicino la condizione umana. Non si può neppure escludere che nella mente dell’ebreo Gesù pesassero inconsciamente i ricordi delle umiliazioni patite dal suo popolo in Egitto, delle fatiche causate dalla traversata del deserto, delle sofferenze dell’esilio babilonese; ovviamente nulla a confronto della Shoà che sarebbe sopravvenuta dopo quasi duemila anni. Ma, anche senza giungere a tanto, sappiamo purtroppo che la vita ci offre innumerevoli esempi di prove che, alla lunga, possono compromettere irreparabilmente il nostro equilibrio psicofisico. Sarebbe perciò sufficiente che queste prove ci fossero risparmiate o, almeno, che ci fosse dato sufficiente sostegno per superarle indenni, se non nel corpo, almeno nello spirito.
Proprio questo, come iniziati, credo si debba chiedere al Grande Architetto. Consci che il nostro sé individuale è una parte del Sé universale, dobbiamo pregare per trovare in noi stessi la ‘forza’ necessaria per non smarrire questa consapevolezza, per essere sempre sorretti dalla volontà di procedere, anche tra mille ostacoli ed altrettante insidie, nel nostro lungo, doloroso ma pur sempre cosciente e fecondo cammino verso il Tempio radioso che racchiude i valori eterni dell’Armonia e dell’Amore universale.
Giovanni Lombardo