IL SENSO DELLA REALTÀ (Conferenza tenuta a Roma il 26 febbraio 1920 da Arturo Reghini alla Società Teosofica) Tra le tante critiche ed accuse che mi ha sempre tirato addosso la mia lunga ed ardente attività spiritualista ve n’è una che sta per così dire alla base di tutte e che ancor oggi ogni tanto mi tocca a sentirmela appioppare. Dicono, nientedimeno che ho smarrito il senso della realtà! Anche a voi, o lettori, a qualcuno di voi almeno probabilmente sarà capitato lo stesso guaio. Ve lo dicono con le buone, con un misto di compassione e di dispregio, come se vi constatassero affetti da una specie di malattia incurabile; è tanto una brava persona, istruita, intelligente, per bene, ma poverino, ha la testa nelle nuvole, è fuori della realtà! E ve lo dicono con tanta sicurezza che si resta un po’ male; tanto più che la cosa suscita una certa apprensione, perché, dico io, se mi è capitata questa disgrazia di essere o di andare fuori della realtà, vuol dire che senza neppure accorgermene, devo essere dentro fino al collo nella irrealtà. Il poveretto non se ne era accorto, credeva di essere vivo ed era morto! E allora, siccome senza sembrarlo sono modesto, mi vien fatto di guardare con una specie di ammirazione e con un poco di invidia la sterminata falange della moltitudine che, fortunata lei, ha il senso della realtà, che sa cosa è il reale e l’irreale, che passa nella vita illesa ed immune da ogni illusione come la salamandra tra mezzo alle fiamme. E siccome non c’è gaglioffo alfabeta od analfabeta che non sia più che sicuro di tenersi alla realtà, al positivo, al sodo, dovrei arrivare alla poco confortante conclusione che qualunque gaglioffo sia in grado di insegnarmi cosa sia e non sia la realtà e quale sia il modo di vivere conforme o più conforme alla realtà. Se non che, quando si passa a chiedere al sullodato uomo normale che partecipi un poco della sua sapienza, ci si accorge che la sua sicurezza dipende solo dal non avere mai pensato alla questione, e che in fondo egli non è neppure in grado di capire il senso e la portata di quello che dice e se parla è solo perché Iddio dicesi abbia dato la parola all’uomo ed anche alla donna. Ma vediamo un po’ in che consiste questo famoso senso umano universale della realtà. In che modo l’uomo sente la realtà? Risponderò dicendo che egli sente la realtà conformemente alle sensazioni che il funzionamento dei suoi sensi gli fa provare. L’uomo è portato a concepire la realtà in modo tangibile e spaziale; il tatto e la vista gli danno il senso di una sostanza materiale, che ha una esistenza oggettiva, indubbia, reale; per il suo istinto il compatto è per così dire l’ideale del reale, il reale al superlativo, tipico, per eccellenza; e perfino di se stesso, della sua propria realtà, ha un concetto come di una cosa spaziale, materiale, corporea. E siccome per la sua esperienza questa e soltanto questa è la realtà, egli nega senza altro la esistenza di ogni altra realtà, o di ogni altro senso della realtà; oppure fa ogni sforzo per concepire e ridurre ogni altra realtà a questo suo senso umano della realtà. E quando incontra e annusa taluno che si è sentito pure toccare e turbare da un diverso brivido della realtà, dichiara imperturbabile che quel poveruomo ha perso il senso della realtà. Ma se si chiede ad un uomo cosa intenda per questo compatto, per questo campione di realtà, ci proverà dapprima a spiegarsi per mezzo delle parole solido, denso, massiccio e simili, ed infine non trovando parole adatte sarà naturalmente tratto ad esprimere col gesto di chiudere il pugno quel suo indefinibile senso di ciò che è compatto. Dopo di che resterà lì come un piolo col pugno chiuso ed a bocca chiusa; e con questo la manifestazione della sua sapienza è bell’è raggiunta. Si tratta in fondo della istintiva attribuzione di una realtà oggettiva alle cose, agli oggetti; ossia del riconoscimento che gli oggetti esistono per davvero e non sono illusioni; un muro esiste per davvero, prova ne sia che non si può passarci a traverso; la resistenza massiccia, la impenetrabilità ecco il carattere vero della realtà, il sigillum realitatis. In base a questo assunto la realtà si limita al complesso dell’esistenza oggettiva momentanea, e dico momentanea perché con questo senso della realtà bisogna escludere gli oggetti del passato che non ci sono più e quelli del futuro che non ci sono ancora. L’uomo viene compreso in questo complesso della realtà in quanto è anche egli una cosa reale e tangibile. Quale altra realtà si potrebbe, infatti, con coerenza attribuire all’uomo? Intorno a questa concezione che identifica l’esistente col resistente vi sono molte cose da osservare; tra le altre debolmente questa: che non è tanto semplice parlare neppure di una esistenza oggettiva limitata al momento presente, perché il presente non è che un limite, un punto di separazione fuggevole ed astratto tra passato e futuro. La realtà materiale di un universo istantaneo non è una cosa molto persuasiva. Ne risulta che la realtà è un insieme più complesso che non l’insieme delle cose esistenti oggettivamente nel tempo; tempo e spazio sono misteriosi elementi della realtà e non viceversa; e non è legittimo escludere la possibilità di sentire la realtà in modo inumano né limitare l’esistenza oggettiva al tipo familiare all’umanità. L’uomo è profondamente abituato al senso della realtà materiale terrena e simultaneamente al senso della propria identità; e sta benissimo anche se identifica questa abitudine con una conoscenza. Tutto quanto percepisce lo riporta a questi due sensi; la pretesa di spiegare il mondo analizzando i fenomeni e riferendoli a questi due sensi elementari corrisponde al bisogno istintivo di sfuggire dall’inconsueto aggrappandosi al consueto, al notorio, al conosciuto. Il senso della realtà contingente e quello della sua identità, confuso di solito con quello della individualità e con quello della identità personale, sono per l’uomo due solidissimi capisaldi cui tutto riferire per tutto spiegare. E’ ben vero che fenomeni da spiegare egli li percepisce mediante i sensi e che apparentemente i sensi possono ingannare. In fatto i sensi non si ingannano mai; è l’uomo che si inganna sopra le sue sensazioni, ed è poi per forza ed ancora coll’uso dei sensi che perviene ad accorgersi di avere ingannato se stesso. La funzione dei sensi è quella che è, non può dire una cosa per l’altra; può mancare per paralisi, ma se funziona è volta per volta tale e quale immancabilmente, meccanicamente si trova determinata ad essere. Dalla identità di due sensazioni la mente invece può erroneamente dedurre una identità tra cose, in realtà tra loro diverse e riconoscibili per tali in base ad una diversità tra altre sensazioni tutte riferentisi a quelle stesse cose. Quando Cimabue credette che sopra una tela di Giotto stava posata una mosca non venne ingannato dai propri occhi; anzi questi fecero esattamente quanto per forza dovevano fare suggerendogli quella sensazione precisa che nella sua mente era catalogata per mosca (e Giotto sapeva benissimo che gli occhi di Cimabue avrebbero visto una mosca e non una zanzara dove egli aveva alla perfezione dipinto una mosca); si ingannò invece Cimabue nel ritenere che questa assimilazione di sensazioni bastasse senza altro per concludere che si trattava proprio di una mosca; e quando poi volendola cacciare constatò coi sensi che era una mosca di una ostinazione tutta speciale, egli giunse coi sensi a rendersi completo ed esatto conto della realtà. I sensi non ingannano e l’uomo sa benissimo che rispetto ai sensi basta non essere tanto stupidi da illudersi; basta aver l’abilità di accorgersi di sbagliarsi per non restare ingannati; quanto a questo l’uomo positivo, che diamine, è sicuro del fatto suo, ed allora egli è certo di attenersi alla realtà, perché quando uno non si inganna vuol dire che ha acchiappato la realtà e ne possiede quindi il vero, il giusto, l’unico senso. E così senza aver la menoma coscienza di essersi fatto ingannare non dai sensi, ma dalla fatale imprecisione ed illusorietà del linguaggio che egli empiricamente adopera, l’uomo normale, pratico, positivo resta soddisfatto della sua perspicacia. Ad abbassar questa superbia e questa compiacenza vi è però da obbiettare che questo senso della realtà, conseguenza ed inerente ai sensi umani non è affatto suo monopolio. Anche per gli animali il senso della realtà è dato dalla resistenza e dalla impenetrabilità degli oggetti; anche un cane sa di non poter passare attraverso il muro, e quando lo vede sa che c’è il muro; anche il cane ha il senso dell’io ed impara ad attribuire a sé il nome che gli viene dato; anche il cane ha l’abilità di non illudersi sopra apparenti identità di sensazione e sa che non si può passare attraverso il vetro di una finestra, quantunque ci si veda attraverso, né attraverso uno specchio; e sa che il cane che vede in uno specchio non è un suo fratello in caninità con cui sia possibile nonché doveroso e morale, come di solito, scambiare l’osculum fraternitatis. L’uomo, questo portato massimo della evoluzione secondo quel che dicono i suoi scienziati, ha dunque un senso della realtà non gran cosa diverso da quello degli animali; uomini e bestie alla fine sentono il mondo nello stesso modo, colla sola differenza forse che le sole a non dire in proposito bestialità sono le bestie. Quanto sia connaturata e fatale questa visione materialistica della vita da parte dell’uomo è rivelato dall’analisi del linguaggio per cui vengono espressi ed ove si depositano, si stratificano e si fossilizzano le impressioni, le credenze ed i concetti della massa umana vivente nel tempo. Uno dei caratteri fondamentali del linguaggio, constatabile in tutte le lingue, è dato dal fatto che ogni concetto astratto trova espressione soltanto mediante la metafora. Il linguaggio esprime l’ideale solo mediante il materiale; per una necessità della mentalità e quindi del linguaggio umano è il concreto, il materiale che sta alla base e che dà il modo di esprimere l’astratto. Soltanto nelle voci riferentisi alla vita concreta il linguaggio offre denominazioni cui concordemente i parlanti una stessa lingua danno il medesimo significato preciso senza possibilità di equivoci; quando si dice pane, acqua, sole, madre, ecc., ognuno intende con sicurezza che cosa viene espresso con tali parole. Il linguaggio astratto consta di un continuo simbolismo, di una continua metafora per mezzo della quale si tenta raffigurare l’astratto mediante l’analogia del concreto. Talvolta questo simbolismo è agevolmente constatabile, tal’altra invece per l’antichità della voce può essere riportato alla superficie solo dalla linguistica. La natura necessariamente allegorica del linguaggio astratto arreca una più o meno grande imprecisione nel significato delle parole, imprecisione che può talora accentuarsi col tempo per la minore resistenza che tali parole presentano a tutti i fattori che incessantemente agiscono sul linguaggio apportandovi mutamenti nella forma e nella accezione delle voci. E per ovviare a questa tendenza alla imprecisione le scienze ricorrono alle definizioni ed alla elaborazione di termini tecnici, sempre riportandosi al concreto ed al materiale. Nella mentalità umana si ingenera per questo o meglio anche per questo una tendenza ad annettere ed a circoscrivere il senso della realtà al tangibile ed al materiale, a vedere nel concreto il tipo della realtà. Di questo fatto si trova prova nel linguaggio stesso. La parola realtà, ad esempio, deriva dal latino res che ha presso a poco il significato dell’italiano cosa. E’ chiara dunque la identificazione della realtà colle cose. La parola sostanza, dal latino sub-stantia, è parola di origine dotta, più recente; ed indica per se stessa una visione subordinata della sostanza; ma già oggi ha perso questo senso per opera della tendenza materialistica universale e nell’accezione comune l’essenziale, la sostanza e la realtà delle cose sono dei sinonimi. La materia, l’humus di cui ogni umano è figlio, è la mater, l’alma mater; e, siccome pare che nella arcaica accezione indoeuropea della parola la mater sia la massaia, la misuratrice, materia è la misurabile, la mensurabile da parte della mens. Lo spirito, l’anima non è in paragone che un soffio, un alito; quel che ha importanza reale è la materia. Per questo in inglese la parola material significa importante ed immaterial quel che non ha importanza; è l’espressione it does not matter, che letteralmente vuol dire non fa materia, si usa per dire: non importa. Anche questa analisi elementare del linguaggio mostra quanto naturalmente l’uomo sia portato ad identificare e concepire il reale come materiale. Ora questa identificazione più o meno cosciente e completa del reale col materiale, cui la filosofia materialista non ha fatto altro che dare una veste e spesso solo una apparenza di cultura, assume veste filosofica nella affermazione che l’intuizione sensibile del mondo è la visione conforme alla vera natura delle cose. Ed è proprio su questa affrettata conclusione che occorre fermarsi per vedere se è proprio sicuro che questo senso della realtà sia il solo possibile ed esistente e quindi il solo vero. Tanto più che con sensibile si suole limitarsi al consueto sensibile. E diciamo subito che affermare che un senso della realtà è vero od è falso, è pronunciare una frase priva di significato. Un modo di pensare può essere esatto o no, errato o no; un modo di sentire è sempre vero in quanto è. Se io dico che è freddo esprimo una opinione che potrà essere discussa e comprovata coll’uso del termometro; quando io dico che ho freddo affermo un modo di sentire, ed in questo non posso sbagliarmi, posso sbagliare nell’attribuire la causa di questa sensazione alla temperatura esterna mentre invece può dipendere dalla febbre; ma il modo di sentire è quello che è. Quindi non ha senso il dire che un modo di sentire la realtà è giusto od è sbagliato. E’ certo, in quanto c’è, che un senso della realtà è reale. E’ dunque inammissibile servirsi della così detta giustezza del senso umano della realtà per affermare che non possa esservi un senso della realtà di tipo diverso. Dichiarare che è fuori della realtà chi non abbia o non si limiti al senso della realtà contingente è arbitrario. Ed è anche assurdo perché come si fa ad essere fuori della realtà, può esservi realmente una irrealtà? Io dichiaro che non solo non capisco cosa significhi cotesta affermazione, ma che capisco benissimo che ciò non significa nulla. Il fatto che simili non sensi possano essere enunciati mostra anzi che l’umanità interpreta in modo assurdo una sua percezione vaga che taluno possa avere talvolta un senso della realtà che non è il senso ordinario, consueto, comune, normale, grossolano e volgare; vale a dire rivela un riconoscimento incosciente proprio di quel che si vuole negare, è un’implicita ammissione non solo della pura teorica possibilità, ma della effettiva esistenza di un altro modo di percepire il senso della realtà. Ma a questa negazione gratuita e presuntuosa di una possibile esperienza altrui diversa dalla propria, e che è solo confortata dal pregiudizio oclocratico cristiano di una eguaglianza di tutti gli uomini che misconosce le diversità e le differenze esistenti di fatto, è lecito opporre qualcosa di più della blanda smentita precedente. Mi sia lecito opporre la categorica affermazione basata sopra l’esperienza personale, che c’è anche almeno un altro modo di sentire, di vivere tipicamente diverso. Io sostengo che è possibile sentire sé e il mondo in un modo che per opposizione, e soltanto per opposizione, possiamo chiamare spirituale o trascendente; sostengo che si può avere invece od oltre il senso della realtà materiale il senso della realtà trascendente o spirituale, o per essere più etimologicamente esatti il senso della quiddità immateriale. Sostengo che si può aver coscienza della propria intrinseca netta incorporeità, che è possibile sentire la intima completa immaterialità dell’universo, e sentire interiormente la totalità delle cose. E del resto, senza salire tanto in alto, non è difficile vedere che vi sono delle gradazioni di grossolanità o di finezza anche nel modo consueto di sentire la realtà. Sopra il senso elementare delle cose che è fornito dai cinque sensi si può percepire, provocato e suggerito da essi, qualche altro senso in cui la materialità si attenua e quasi scompare. Il senso di profonda trascendenza espresso musicalmente da certe pagine di Beethoven non può confondersi col semplice senso del rumore fatto dall’orchestra e neppure col senso della sonorità, della melodia e dell’armonia. Ed un carattere spirituale si riscontra nel senso di perfezione sapiente di certi palazzi quattrocenteschi; nel senso di potenza ieratica, sfingea, sibillina, interiore, espresso da certe statue egizie od etrusche; nella melanconia religiosa dei tramonti, nella purezza delle albe, nella calma panica dei meriggi solatii, nella spettralità siderale inanimata di una notte serena in alta montagna. Non per caso Virgilio, dopo avere invocato gli Dei, quibus imperium est animarum, invoca i loca nocte tacentia late. Ma, si dirà, questo senso della trascendenza, se pure esiste, è rarissimo; tanto è vero che anche a giudizio degli uomini sono pochi coloro che smarriscono il senso della realtà; mentre il senso della realtà materiale è posseduto da tutti gli uomini sani. Ebbene, che cosa importa questo, che cosa prova a favore o contro l’uno o l’altro senso della realtà? Forse che la giustizia o la verità o l’esistenza di un concetto o di una percezione si possono dimostrare a colpi di maggioranza? Forse che la verità di un teorema si può riscontrare mediante una votazione elettorale? Forse che è possibile apportare nel campo della metafisica il criterio democratico? No, ci vuol ben altro che la spiritosa invenzione del progresso e dell’evoluzione per far diventare sinonimi la sapienza e la democrazia. Di simili allusioni ed espressioni si trova esempio o traccia negli scritti dei grandi filosofi italiani dell’antichità, della scuola pitagorica ed eleatica, che ebbero vivo e possente il senso della realtà trascendente. E sia detto di passaggio che è ora di smetterla col chiamare greci i grandi italiani come Pitagora, Empedocle, Parmenide, Archimede, per la sola ragione che non parlavano italiano ma greco. Neppure Cesare parlava italiano e con cotesta stregua non sarebbero esistiti italiani prima di tempi assai recenti. Lo spirito positivista sperimentale fu Il senso della realtà comune agli uomini ha diritto di cittadinanza nell’universo come ogni altro senso; ma gli uomini debbono tenere presente che nella casa di mio padre vi sono molte stanze; è una cosa che la sapeva perfino Gesù! Esiste anche un’altra esperienza del mondo per cui non vi sono più le cose né la gente nel senso mortale. Non vogliate negar l’esperienza Di retro al sol, del mondo senza gente. Anche qualche uomo afferra talora “una nota del poema eterno”, ma non è che un lampo, di solito, ed egli riprende poi a sentire il mondo secondo l’abitudine inveterata e resta tutt’al più un “picciol verso” a ricordare l’evento. Ma non è detto che debba essere un lampo per forza; ed è naturale che si possa assuefarsi anche a quell’altro modo di sentire il mondo. Coll’abitudine si ha anche, allora, il senso della normalità e della giustezza di tale percezione; e la sensazione permanente di questa intima incombente realtà è come il mantello di Apollonio che non è possibile scuotere di dosso. Naturalmente non è possibile spiegare con parole, a chi non ha l’esperienza del senso della realtà spirituale, cosa questo senso sia. Ed agli altri è inutile. Il linguaggio non è che un mezzo convenzionale col quale gli uomini alludono alle loro comuni esperienze, e presuppone ed ha per base un’esperienza similare comune. Esso si presta già male, e dà luogo a continui equivoci, quando si tratta di astrazioni e di concetti filosofici e scientifici; tuttavia, quando si passa al trascendente, è ancora possibile, mediante il simbolismo naturale del linguaggio, mediante la metafora dal concreto all’astratto, trovare il modo di alludere e quindi di esprimere anche l’esperienza sovrumana; ma questo inevitabilmente inter pares, inter nos, e non inter homines. E del resto se l’uomo normale, positivo, non è capace di spiegare cosa sia il compatto, quale mai pretesa è questa di voler avere la spiegazione di quel che non è compatto? Quando si vorrà rendersi conto che non c’è nulla da spiegare ma che c’è tutto da intuire? Di simili allusioni ed espressioni si trova esempio o traccia negli scritti dei grandi filosofi italiani dell’antichità, della scuola pitagorica ed eleatica, che ebbero vivo e possente il senso della realtà trascendente. E sia detto di passaggio che è ora di smetterla col chiamare greci i grandi italiani come Pitagora, Empedocle, Parmenide, Archimede, per la sola ragione che non parlavano italiano ma greco. Neppure Cesare parlava italiano e con cotesta stregua non sarebbero esistiti italiani prima di tempi assai recenti. Lo spirito positivista sperimentale fu carattere precipuo della scuola italica; il modo onde Pitagora giunse alla scoperta dei rapporti aritmetici tra le altezze delle singole note è il primo esempio tipico perfetto di metodo sperimentale che la storia delle scienze registri; le basterebbe questo per far presumere che questo medesimo spirito positivista egli e i suoi migliori discepoli portassero in tutti i campi di esperienza, anche in quelli dell’esperienza trascendente. Parmenide colla sua filosofia ontologica si pone nettamente nel piano della realtà trascendente. Empedocle tutto pervaso e vibrante di spiritualità trova un fratello solo nell’entusiasmo mirabile di Tommaso Campanella. La serenità luminosa ed ardente del cielo calabrese e siciliano si riflette nella serenità e nell’ardore della visione spirituale di questi grandi italiani. Ma questo senso della realtà spirituale va annebbiandosi ed ottenebrandosi via via che dalle scuole italiche si passa alle greche, e finisce col perdersi in Aristotele. Aristotele è in gran parte responsabile della materializzazione del senso della realtà in Occidente; per lui, osserva Nietzsche, l’oggetto individuale, il tòde ti è il tipo della piena realtà. Venne poi la ditata brutale ebraico-cristiana; ed era naturale che la cristianità dovesse ritrovare in Aristotele il filosofo del suo cuore. La mentalità moderna, che ha ereditato dalla Grecia il cerebralismo, il bisogno delle spiegazioni, e dal cristianesimo le debolezze sentimentali, il bisogno delle consolazioni, è istintivamente razionalista e materialista e sorda ad ogni senso della realtà immateriale. Il cristianesimo ha sentito il bisogno della resurrezione dei corpi per poter dar corpo anche al paradiso 1; e le varie scuole spiritualiste o meglio che pretendono di essere spiritualiste, sono inevitabilmente portate ad immaginare uno spirito divino od umano che è un surrogato, un duplicato della materia o del corpo, una veste od un nocciolo, una parvenza e non una essenza, una res e non un quid. Dante, oltre ad essere l’altissimo poeta ed il politico divinatore, è anche sommo filosofo e metafisico, e con linguaggio filologicamente adeguato ed appropriato spesso esprime la sua percezione della realtà interiore. Egli sa di essere in cielo e non in terra; e lo dice esplicitamente per esempio in Par. I, 89-92, e Par. XXII, 7. In tutto il poema sacro al quale han posto mano e cielo e terra, egli non fa che inoltrarsi, salire, illuiarsi, indiarsi, internarsi sino a poter dire: Nel suo profondo vidi che si interna Legato con amore in un volume Ciò che per l’universo si squaderna. Tra i moderni Nietzsche ha avuto forse più degli altri la forza di trarsi fuori dal mondo ordinario, di sentire la realtà. In Zarathustra, nella Gaia Scienza, e nella Volontà di Potenza traspare un senso trascendente della realtà. E l’incorporeità del nostro corpo in una visione spiritualista delle cose è chiaramente percepita dal Bergson che se ne serve per dimostrare la difficoltà del dare un carattere ed una sede materiale alla memoria: “Envisagé de ce nouveau point de vue, en effet, notre corps n’est point autre chose que la partie invariablement reanissant de notre représentation, la partie toujours présente, ou plutòt celle qui vient à tout moment de passer. Image lui mème, ce corps ne peut emmagasiner les images…” (Matière et Mémoire, Paris, 1903, pag. 164). ¤ ¤ ¤ E’ interessante osservare come, se da una parte l’attitudine istintiva umana è quella di attribuire realtà al solo senso materialista ristretto della realtà, alcune religioni ed alcune scuole filosofiche spingono ad un esclusivismo in senso inverso il loro riconoscimento puramente negativo, logico e non sperimentale della realtà trascendente, affermando la illusorietà intrinseca ai sensi umani. Esse dicono, per esempio, che l’acqua non è quel che appare ai sensi umani perché in realtà l’acqua è un insieme di atomi di ossigeno e di idrogeno in movimento i quali poi alla loro volta si scindono all’analisi in ioni, ossia in una materia che è viceversa della forza che non si sa che cosa sia, e avanti di quel passo. L’universo intero non è che una grande illusione di cui è specialissima vittima l’umanità. La parola Maya è sulle bocche di tutti. E ne esce fuori tutta una propedeutica per sfuggire a questa illusione, per sollevare il famoso velo di Maya, per liberarsi dal cieco carcere della carne sollevandosi dalla vita della materia a quella dello spirito. Così si crea un antagonismo artificiale tra i due modi di sentire la realtà, un feroce dualismo tra spirito e materia in cui la materia ne soffre e lo spirito non ne gode. Persino Kant, il torpido filosofo di Koenigsberg, cade in questo eccesso esclusivista della filosofia spiritualista, e pensa che per percepire il mondo come è realmente occorre superare l’intuizione sensibile, cosa che d’altra parte egli vede possibile solo colla morte. “Quando l’anima lascia il corpo, dice egli 2, noi non abbiamo più l’intuizione sensibile del mondo, non percepiamo il mondo come appare ora, ma come è realmente”. Di fronte alle aberrazioni ed agli eccessi della filosofia idealista, la filosofia materialista, meglio rispondente all’istintivo materialismo umano, ha avuto buon giuoco, e così si è profondamente radicata in moltissimi la persuasione che la sola conoscenza reale è quella fornita dalla loro intuizione sensibile. E c’è voluta tutta l’ondata dello spiritualismo moderno, che ha investito con formidabili assalti il materialismo esclusivista, e le necessità filosofiche cui le stesse scoperte della fisica hanno portato, per scuotere un poco la sicumera dei materialisti ad oltranza. La Società Teosofica, nei primi tempi, vale a dire quando era ancor viva la sua fondatrice, H. P. Blavatsky, prese a questo riguardo la giusta posizione. Come è noto la Blavatsky fu anti-materialista, anti-cristiana, anti-spiritista. Lo spirito che animava allora la Società Teosofica era veramente positivista, sperimentale, esoterico. Tra i sistemi filosofici indiani la Blavatsky prediligeva il Vedanta Advaita, che tanto ricorda il monismo di Bruno inspirato alla monade pitagorica. Poi, con l’evoluzione, son venuti altri tempi. Il Buddismo ha ricevuto le preferenze, grazie alla sua maggiore affinità coi pregiudizi cristiani. Nella loro esasperazione spiritualista buddismo e cristianesimo tendono entrambi a ripudiare il senso della realtà materiale per rifugiarsi in quello della realtà spirituale. Per l’uno il mondo è una valle di lacrime, per l’altro una causa permanente di guai, di dolori e di seccature. Il buddista è solo preoccupato di sfuggire alla ruota delle cause e degli effetti, e di sottrarsi alla catena delle reincarnazioni; o per lo meno si sforza di raggiungere il programma minimo di non farsi un cattivo Karma e di avere così una prossima incarnazione di sua relativa soddisfazione; il cristiano ripone le sue speranze in una giustizia misericordiosa che lo compensi in un paradiso ultra terrestre dei guai di questo mondo. Un dualismo antagonista tra anima e corpo sta alla base dell’una e dell’altra religione. Il buddismo ha mitigato ma non distrutto alla radice le aberrazioni e le esagerazioni cui si spingono talora certi yoghi indiani per raggiungere i siddhi; il cristianesimo ha raggiunto nella negazione della vita materiale la patologia. Si è concepito il corpo come un nemico, il pensiero come una tentazione del demonio, i desideri della carne come peccato mortale; e nell’attesa supinamente cieca di una grazia celeste che la macerazione e la mortificazione della carne, l’incretinimento della ragione e l’esasperazione morbosa dei sensi dovevano rendere possibile e meritoria, si prendeva per oro colato ogni più stravagante ed assurda visione. La Società Teosofica, mantenendosi sulla via tracciata dalla Blavatsky, avrebbe potuto mantenere il sano equilibrio esoterico tra spirito e materia; parimente avversa all’esclusivismo materialista ed a quello cristiano, avrebbe potuto come il trionfatore ermetico far procedere il suo carro regale condotto dalla pariglia bianca e nera. E’ deplorevole che questo non sia successo. Nella smania di voler dare ragione a tutti, di voler trovare accordo anche dove c’è antitesi, di fabbricare e spingere all’assurdo la pretesa unità fondamentale di tutte le religioni e di tutte le scuole, si è dimenticato che i punti di contatto non possono esistere che a causa dell’esistenza di zone che non sono in contatto. A questa smania si deve la bella scoperta del cristianesimo esoterico, che sta riportando all’ovile le pecorelle smarrite. La Teosofia va diventando a poco per volta un surrogato del cristianesimo. In Germania poi ve n’è un ramo che sta facendo addirittura una teosofia ad usum Societatis Jesus. E così si va sempre più lontani, ma molto lontani, dalla sapienza esoterica, che non ha mai avuto per compito e funzione di consolare l’umanità; ma sebbene ha avuto ed ha il compito di dissiparne i pregiudizi e di condurla e mantenerla ad una serena ed equilibrata visione della vita, e di rendere la convivenza sociale la meno peggiore possibile. Per quei pochi poi che drizzano il collo per tempo al pan degli angeli la sapienza esoterica si propone condurli all’esperienza positiva di ogni trascendenza, ed alla intelligenza di tutte le cose. La civiltà classica, pagana, seppe mantenere anche socialmente l’equilibrio esoterico, e non rinnegò lo spirito per la materia né la materia per lo spirito. Preposto alla iniziazione è il medesimo dio Dioniso o Bacco, che è dio dell’orgia e del vino; Cerere che è la dea dell’agricoltura è la dea dei misteri e delle cerimonie iniziatiche. Platone nell’apologia di Socrate per bocca di Alcibiade si sofferma con compiacenza sopra la sua resistenza al vino e sulle formidabili sbornie che prendeva insieme ai discepoli; oggi per questa e per altre ragioni si accuserebbe Socrate di corrompere la gioventù in altro senso, per cui lo stesso Anito non pensò ad accusarlo; e certo vi sarebbero poche associazioni spiritualiste che ammetterebbero tra i loro soci un individuo così immorale. Mens sana in corpore sano era l’ideale latino, ed i discepoli di Pitagora eccellevano anche nelle Olimpiadi. Questa serena e savia visione sapeva ad un tempo tenere presenti le due realtà; e sapeva dominarle entrambe come Ercole ed Hermes i due serpenti. I nostri antichi non smarrivano il senso della realtà spirituale per la materiale, né quello della realtà materiale per la spirituale; perché non smarrivano il senso superiore della duplicità della realtà. E di fronte all’affermazione cristiana che il paradiso è dei semplici, sia lecito affermare paganamente che il paradiso è dei duplici. Lo spiritualista pagano che si guardi intorno nel campo spiritualista vede oggi un tale spettacolo che è difficile dire se la pena possa più del disgusto, e la nausea del ridicolo. Non parliamo del feticismo selvaggio degno di bruti più che di uomini, quale, per esempio, quello ritratto dal Michetti nella grande tela che è al Museo di Valle Giulia; non parliamo delle madonnine miracolose che qui in Roma fanno concorrenza alle sonnambule di piazza e cui una turba di idioti lascia denaro non potendo lasciare giudizio; non parliamo dei santi miracolosi truffaldini ed espediti sul tipo di San Ranieri di Pisa; ma cosa è questa montatura sentimentale che spasima per le pene di Gesù, le quali, se anche vere, sono state infinitamente più lievi delle torture subite con tanto santo eroismo da migliaia e migliaia di martiri nostri morti di lenta agonia tra una trincea e l’altra o conficcati ad un reticolato? Cosa è questa croce su cui l’aberrazione masochista dei primi cristiani si compiacque di proclamare inchiodato il loro Dio, con scandalo dei pagani che mai avrebbero concepito che si potesse giungere a vedere nel disonore del Golgota il certificato regolare, ufficiale della divinità? Cosa è questa morbosa idea del peccato e delle sue conseguenze, questa mostruosità dell’ira e della vendetta di Dio e dell’inferno, per cui a milioni di uomini questa vita fu resa per davvero un inferno? Questa ipocrisia di una morale unica assoluta, fatta per uso e consumo dell’uomo volgare, e che in pratica si preoccupa solo di non dare scandalo e di sgusciare tra le maglie dei comandamenti e della confessione, tenendo sempre egoisticamente di mira il paradiso? Cosa è questo spirito di compassione per cui non si lasciano stare in pace i disgraziati, ma col pretesto della fratellanza li si obbliga a constatare che non tutti stanno male come loro? Questo precetto di fare agli altri quel che vorremmo che fosse fatto a noi, come se tutti avessero gli stessi gusti? Questo guardare in su per cercare il cielo, questo abbietto strisciar per terra, queste genuflessioni, questo battersi il petto, questo timor di Dio, questa compunzione ipocrita, questa unzione gesuitica, questo andar rasente i muri, obtorto collo, gli occhi bassi e le mani dentro le maniche quasi in perpetua attesa della caduta di una persiana dall’ultimo piano? Cosa sono questi biascicar paternostri, queste poste del rosario, queste litanie, questo segnarsi a dritta ed a manca, questo tuffar di mani in uno stesso recipiente col vantaggio non troppo visibile della salute dell’anima e di quella del corpo? Cosa è questo bisogno miserabile di una consolazione, di una giustizia compensatrice nell’al di là, questo proibire ai ricchi di spirito l’ingresso nel regno dei cieli, forse per liberarsi, almeno in paradiso, dai guastafeste? Che sono mai questi monasteri dove molti si radunano per star soli? No, questo non è senso della realtà spirituale, e non è più nemmeno sano senso della realtà materiale; è morbo, mania religiosa, meschinità, aberrazione, è la forma cattolica dell’infezione cristiana. Il lupus non produce sui volti umani rovine più ripugnanti. Se passiamo ai protestanti dalla padella caschiamo nella consueta brace. Se il paragone non vi piace, diciamo che da Scilla andiamo a Cariddi, che non è poi una gran distanza. Questa gente, nientedimeno, pretenderebbe di ragionare; ma come può fare a servirsi del proprio cervello, quando tutta la scatola cranica è ingombra da un libro, anzi dal libro, come essi lo chiamano? Che sembra paralizzi loro sino i centri nervosi del movimento, sì da obbligarli a camminare rigidi, impettiti, angolosi e seri come un funerale. Bibbia, bibbia e ancora bibbia. Questa religione da ruminanti conta al suo attivo la pruderie, lo shocking, il cant, il puritanismo, ed ora, eterni Dei, anche il proibizionismo. Con tutto il loro amore e la loro fratellanza cristiana dividono l’umanità in due razze, i bianchi ed i colored men. Negli Stati Uniti d’America, dove sessanta anni or sono c’era ancora la schiavitù, i negri ed i giapponesi (ed in parte anche gli italiani, i dagos) son tenuti a parte peggio dei lebbrosi non solo nei treni e nei cinematografi, ma nelle chiese cristiane e nelle logge massoniche e teosofiche. Non sarebbe meglio astenersi dallo stamburare ai quattro venti amor del prossimo e fratellanza universale? Ivi un tiranno dalla mandibola bestiale, dopo aver sbandierato una sua lega delle nazioni e il paradigma dei quattordici punti, nega sfrontatamente l’eguaglianza delle razze e contesta i più elementari diritti al popolo che può vantare le maggiori benemerenze antiche e recenti ed i più puri titoli di nobiltà. Meglio sarebbe sprofondassero in mare quella loro statua della Libertà, proclamassero il loro brutale egoismo, e si tuffassero nel senso della realtà economica, l’unico senso della realtà che questi business men sian capaci di concepire. Quanto alla religione greco-ortodossa, dicono in Toscana, accidenti al meglio! E questo è lo spettacolo offerto dalla grande massa della cristianità, sorda ad ogni senso di trascendenza immersa nella materia, nei pregiudizi, nella morale, nella paura, negli isterismi sentimentali, e nell’inerzia mentale e spirituale. I movimenti di natura spiritualista sorti di recente di fronte alla grande levata di scudi materialista del secolo scorso, ebbero nobilissime intenzioni, ma i fatti lo sono stati molto di meno. Che dire degli spiritisti che van cercando la prova materiale dell’esistenza degli spiriti? Sì che il fenomeno più ambito è la materializzazione dei fantasmi? Non solo non cercano di afferrare il senso della realtà spirituale, ma pretenderebbero che gli spiriti acquistassero il senso della realtà materiale. E se ne vanno in estasi, magari per quaranta anni di seguito, dinanzi ad una sedia ed un tamburello per il solo motivo che si muovono senza che nessuno li tocchi! Né i così detti occultisti delle molte scuole orientali ed occidentali pare che troppo si interessino al senso della realtà spirituale. Uno sente il Weitschmerz, il dolore del mondo, e quell’altro il bisogno di sacrificarsi, uno ci ha la chiaroveggenza e quell’altro esce in corpo astrale, uno si sdoppia e quell’altro si stripla, uno vi predice il passato e quell’altro evoca gli elementali ed i suoi nobilissimi defunti. Ogni proposito è buono per dire un sacco di spropositi. E studiano il sanscrito e l’ebraico per poter dire bestialità anche in sanscrito ed in ebraico. Bel vantaggio davvero riempirsi la testa coll’alchimia, l’astrologia, la cabala, i tarocchi, la magia, la stregoneria, il misticismo, il simbolismo, la storia, le filosofie, le religioni, le scienze comparate e non imparate, e persino, santissimi numi, colla quarta dimensione; quando non si ha la menoma idea di ciò che sia linguaggio e pensiero; quando nel cervello, nei nervi, e perfino nei sensi sovrasta e snatura tutto un’enorme, spessa e tenace crosta di incomprensioni, di valutazioni implicite ed incoscienti, di pregiudizi, di tradizioni, di superstizioni, di preferenze sentimentali, di torpori inerti, di eredità succhiate dal latte materno, dalla bocca dei maestri nelle scuole; dalle limitazioni e caratteristiche di un linguaggio, dalla mentalità peculiare ad un tempo ed a una razza, dalla religione, dalla moralità e dall’ignoranza dominanti! Tutta l’acqua della sorgente di Mnemosine, versata entro tutto questo sudiciume, non farebbe che rimestar sudiciume. Ed è proprio inutile per darsi e per dare l’illusione di essere iniziati ai grandi misteri, lanciarsi alla fabbrica dei romanzi della Lemuria, dell’Atlantide, del piano astrale con relativo serpente, della reincarnazione, delle catene planetarie e dei pianeti interni prima di Mercurio. Anche se qualcosa di vero c’è in tutto ciò, occorre sapere e non trastullarsi colle chiacchiere. Svelare ad un povero cervello umano, spesso digiuno di studi, il mistero di Sat, Cit, Ananda, quando quello è incapace del sillogismo più elementare e non sa parlare senza sgrammaticature, anacoluti e strafalcioni, mi pare una farsa di cattivo gusto. Far sospirare un disgraziato per una decina di anni, e poi ammetterlo all’ultimo grado della scuola esoterica per spiegargli, a muso duro come è congegnata la baracca delle catene planetarie, mi par quasi una cattiveria. Raccontare la storia della creazione; come il Signore, anzi essi il Signore prima creò le 22 lettere dell’alfabeto ebraico, poi i dieci Sefirot, poi le 78 lame del tarocco, poi Lilith, poi la foglia di fico, poi Adamo ed Eva con relativo pomo e serpente e su bel bello di questo passo, quando si ignora cosa c’è tre km. sotto terra e due minuti dopo il primo sonno; sarà una grande salvezza e una gran bella soddisfazione; a me fa l’effetto della girandola: gira, gira, fuoco e fumo, e da ultimo restan quattro pezzi di legno bruciacchiati che non son più buoni a nulla. E per correre dietro a tutte coteste storie si perde un tempo prezioso che potrebbe essere saviamente impiegato da coloro che sinceramente aspirano ad una conoscenza reale. Lunghi anni di paziente ed arduo lavoro richiede la grande opera della endogenesi. Occorre un indefesso, tenace lavoro per ripulire il terreno di tutte le erbacce che vi prosperano e vi marciscono, per esporre poi all’aria, al sole, a Dio sin le viscere e le zolle scavate dall’antico aratro; e fare maturare la divina messe, la spica, sacra a Cerere eleusina. Occorre ricordare che lo spirito dell’esoterismo non è intessuto né di fantasie, né di erudizione, né di languori. Ma è intessuto di esperienza, di esperienza, eppoi ancora di esperienza. Di fronte alle credenze, ai desideri, alle preferenze, ai bisogni, ai giudizi, alla mentalità umana, e persino di fronte alla logica ed alla scienza, il discepolo in occultismo è bene mantenga una santa diffidenza, un’attitudine eminentemente positivista. L’essere il pensiero inestricabilmente connesso al linguaggio, e l’essere il linguaggio foggiato ed improntato dalla mentalità media della razza che lo ha parlato nei secoli, fa di esso una continua fonte di errori e di illusioni; occorre anche qui la santa diffidenza; timor verbi initium sapientiae diceva argutamente Vailati. Tutto vagliando allo staccio della santa diffidenza, a forza di ripulir la testa, e di picchiare sui pregiudizi, sui desideri e sui sentimenti, a forza di sapone e di bastone, un bel giorno, Diis juvantibus, spunterà un raggio di sole. Il senso della realtà spirituale troverà il modo di destarsi nella coscienza. E sarà una cosa tanto semplice, tanto elementare, tanto evidente, che risulterà assurda, ridicola ed inutile la pretesa di pervenirvi o di spiegarla con tutta la farragine delle scienze, delle filosofie e delle religioni. Ad lucem per legem, ad legem per lucem. Arturo Reghini |
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