I FIGLI DELLLA VEDOVA

I figli della vedova di Giuseppe Scaglia

Il Piemonte, da sempre, è il laboratorio nel quale prendono vita iniziativc culturali, sociali, politiche, economiche, che aprono la strada, e le menti, a veri e propri terremoti ideologici e di costume.

Non sto a ricordare che da noi è nato il cinema, che dal profondo delle barriere torinesi mossero le prime giuste rivendicazioni operaie alla fine del secolo scorso; che i primi scioperi, dopo vent’anni di oppressione fascista, presero avvio dalle officine della FIAT “Lingotto” nel 1943; che è dalla “Regal Torino” che due giovani intellettuali, uno piemontese di nome Gobetti, l’altro sardo, chiamato Gramsci, all’alba degli anni ’20 di questo secolo, idealizzavano una loro “Città del sole” in un “Ordine nuovo” liberal-socialista.

E potrei continuare!

Non c’è, quindi, da stupirsi che anche la Libera Muratoria abbia seguito il medesimo destino.

Già verso la metà del ‘700 alcune logge, tra le prime nella penisola, erano presenti in Torino, ma è soprattutto nel corso del successivo XIX secolo che l’attività latomistica ebbe rigoroso sviluppo nelle terre del Re di Sardegna, cosicché non era certo strano ritrovare tra le colonne i più bei nomi della politica, della scienza e della cultura subalpine.

Molti furono i letterati che indossarono guanti e grembiulino e, tra essi, un posto particolare lo riveste Luigi Pietracqua. Nato a Voghera nel 1832, e morto a Torino nel 1901, fu collaboratore di alcuni tra i più prestigiosi quotidiani dell’epoca, dalla “Gazzetta del Popolo” alla ‘Gazzetta Piemontese” (l’odierna “La Stampa”), al “Fischietto” di cui fu anche direttore.

Fecondo autore di testi teatrali (“Le sponde del Po”, 1862 / “El pover paruc” / “Nona Lucia”, 1872 / “Le fije povre”, 1881), rivestì un ruolo singolare nella letteratura regionale per i suoi numerosi romanzi in “lingua” piemontese tra cui citerò “La coca del gamber” “Don Pipeta l’asilè’ “1j misteri ed Vanchija”, “L’ultim dij Castelvert’ , “La bomba ed via Arsenal” ecc.

Convintissimo massone, non fece mai mistero della sua appartenen-

za alla libera muratoria e, specialmente in “Don Pipeta” e ne “1j misteri ed Vanchija”, la sua profonda vocazione alla libertà, il suo innato istinto di libero pensatore eternamente in lotta contro la prepotenza ed il sopruso liberticida (assai spesso rappresentato dall’inquisizione ecclesiastica che, a Torino, aveva la sua tristemente nota sede presso la Chiesa di San Domenico in via Milano) vengono prepotentemente a galla.

L’iniziazione massonica

Un intero capitolo viene dedicato, in “Don Pipeta l’asilè”, alla descrizione accurata della cerimonia di iniziazione come veniva condotta verso la metà del ‘700, epoca in cui l’autore situa la trama del romanzo.

La vicenda pone in rilievo il ruolo storico della Massoneria come opposizione “liberale e libertaria” all’assolutismo politico e religioso. Su tutto, l’inquietante ombra dell’lnquisizione sempre pronta a colpire come eretico chiunque palesasse quelle idee di libertà, uguaglianza e fratellanza che tanto disturbavano il potere costituito (politico e religioso).

Il protagonista, appunto Don Pipeta l’asilè, ha avuto l’intera famiglia sterminata dai birri dell’lnquisizione ed ha trovato nella Libera Muratoria non solo l’approdo ideale, ma anche l’appoggio, la solidarietà, la forza che lo ha aiutato a superare le tristi avversità. Chiaro che il nostro faccia, come diremmo oggi, del “proselitismo’ e cerchi di avvicinare alla Massoneria persone che, per ideali, stile di vita e comportamento diano a vedere di esserne degni.

Oltretutto, vista l’epoca ed i rischi che correva chiunque indossasse grembiule e guanti bianchi, i “profani” dovevano anche essere dotati di notevole coraggio e di sprezzo del pericolo e, quindi, a maggior ragione individui “sicuri’ .

Nel racconto tutto ciò è ben evidenziato dalla narrazione della cerimonia iniziatica che, aldilà dell’aspetto rituale, sottoponeva il candidato a vere e proprie prove che richiedevano sangue freddo e nervi saldi e ciò proprio, ripeto, per la necessità di non avere, tra le proprie fila, persone pronte a cedere al minimo spirar di vento. La narrazione inizia col “prelevamento” del neofita, dal piemon-

tesissimo nome di Stefano Borello, al proprio domicilio da parte di due “Fratelli” (uno dei quali è il già citato Don Pipeta) che, dopo aver brindato col profano, iniziano con il farsi consegnare gli “ori”. I tre si avviano nel buio della notte, ben attenti a non farsi scoprire dalle ronde dei birri, e, dopo una ” …buona mezz’ora di marcia, si sono trovati sui bastioni della cittadella”.

A questo punto Don Pipeta, tratto un fazzoletto dal taschino, benda gli occhi del sempre più spaurito Borello e ricomincia il “viaggio’

” …che viaggio lungo e complicato, che non finiva più. Per un po’ han camminato sulla strada, poi sembrava che entrassero sotto un ponte… perché i piedi avevano cessato di camminare sull’umido e adesso camminavano sull’asciutto e sembrava che la volta rimbombasse sotto i passi di tutti e tre…

Stefano, atterrito, ha la tentazione di interrogare i suoi compagni d’avventura, ma, accorgendosi che tutto il tragitto è stato compiuto senza che una parola gli sia giunta, decide di resistere anche se la paura dell’ignoto lo attanaglia vieppiù.

Dopo un altro quarto d’ora di marcia ecco il terzetto giungere ad un primo “blocco”: il nostro impaurito profano sente come un brusio di fondo, un altro rumore come di armi, e poi una voce tonante intimare il “Chi va là!’

“Figli della vedova” è la risposta… e si va avanti.

Si, ma dove?? Stefano, sempre bendato, deve totalmente affidarsi alle sue guide, anche se, ad un tratto un terribile rumore di cascata sembra assordarlo sempre più.

Il rumore si fa via via più forte, via via più vicino, sempre più insopportabile e l’angoscia sale a tal punto che il nostro povero Borello sviene.

Rinviene… ed ora lo scenario è mutato. Ogni rumore è cessato ed il profano, sbendato, si trova in una stanzetta debolmente illuminata, senza porte né finestre, unicamente arredata da due sedie ed un tavolino con l’occorrente per scrivere.

…ma, vicino al calamaio, cosa che non aveva niente di rassicurante, c’erano un teschio ed una spada…

Il profano fa appena tempo a chiedersi, ad alta voce, dove si tro-

vi che ottiene immediata risposta da una “lunga figura nera ed incappucciata” che gli dice “sul limitare del tempio della luce! “

Costui, con tono imponente, gli chiede se veramente sia deciso ad “entrare nel tempio” ed avendone avuta timida conferma, ordina al timoroso Borello di scrivere il suo testamento, dicendogli: “l’uomo, al nascere, acquista tre debiti forti e sacrosanti… il primo verso Dio, il secondo verso se stesso, il terzo verso i propri fratelli… ebbene bisogna che tu scriva in che maniera intendi soddisfare a questi tre debiti! “.

Datagli mezz’ora di tempo, la “figura in nero” torna a prendere il testamento e sparisce, di nuovo, alla vista.

Dopo un paio di minuti un’altra figura incappucciata gli si presenta innanzi, torna a bendargli gli occhi e, qui, ricomincia un tortuoso e lungo peregrinare accompagnato da rumori sordi, da grida d’aiuto, da clamori di spade che s’incrociano, da ostacoli tali che, a volte, è quasi costretto a strisciare per terra, a camminare a quattro gambe e così via.

Infine una voce tuonante ingiunge un fortissimo “basta! “

“Dove va questa carovana?”

“In pellegrinaggio per trovare la luce! “

“Chi la compone?”

“Due veri seguaci d’Hiram ed un profano! “

“E cosa vuole questo profano? “

“Entrare sotto gli auspici della vedova! “

“E si è preparato?”

“Ora non ha più ori con sé ed i suoi sentimenti li ha scritti su una

“Però la sua gamba sinistra è ancora calzata! “

“Aspetta solo un ordine del fratello terribile per scalzarla! “

“Avanti! “

Dopo questo dialogo, “svestita” , diciamo così, la gamba sinistra fino al ginocchio, il profano viene fatto sedere su una poltrona, che improvvisamente, sembra precipitare nel vuoto.

Poi la poltrona si ferma, il nostro eroe risente, sotto i piedi, la terra, ma la sua tranquillità dura assai poco.

Di nuovo la voce imperiosa di prima, quella del Venerabile, gli chiede cosa desideri più ardentemente ora.

Il neofita chiede, quasi con disperazione, di essere liberato dalla benda che gli impedisce di vedere la luce. “E sei persuaso che, anche se ti liberassimo delle bende, potresti qui vedere la luce?’

Il Borello non risponde, ed ecco che gli viene tolta la benda! Ma, quale terribile sorpresa! , L’oscurità più fitta lo circonda! Solo un piccolo punto luminoso resta e lì, guardando attentamente, il profano vede una lunga fila di persone vestite con candidi mantelli che gli sorridono.

Non fa in tempo a rasserenarsi che, subito, lo spettacolo cambia totalmente: stavolta si tratta di una terribile processione di scheletri e cadaveri mutilati e straziati.

Pronta arriva la spiegazione del Venerabile che gli ricorda ciò che ha visto ammonendolo sulla triste fine che aspetta chiunque iniziato, tradisca l’organizzazione.

Dopo un terzo viaggio, anche stavolta accompagnato da un forte rumore di cascata che via via va attenuandosi, finalmente il profano riceve la “mezza luce”.

Ma l’iniziazione non è ancora terminata.

“Ora, o profano — aggiunge il venerabile — dovrai con noi assistere al funerale d’Hiram!

Infatti ecco apparire, in mezzo alla sala, una specie di apparato funebre con tanto di catafalco e torce nere, sul quale il povero Borello vede a malapena una serie di strumenti tipici dell’arte regale: squadra, compasso, maglietto e, tra loro, un ramo d’acacia.

Due fratelli conducono il postulante vicino alla bara e lo fanno inginocchiare verso il trono del Venerabile: a questo punto, dal feretro, s’alza una specie di “spettro” (che vorrebbe rappresentare il maestro Hiram Abi) che, a palma distesa, batte tre colpi sulla schiena dell’iniziando.

Questo era veramente troppo!

Stefano Borello si volta e, con un grido soffocato, cade mezzo svenuto a terra.

Ma è l’ultimo ostacolo: fatto rinvenire, il profano viene, finalmente, condotto nel tempio ove riceve la “luce”.

E lo spettacolo, ora, è completamente mutato! Più nessun apparato funebre… “La sala sembrava, come per incantesimo, totalmente cambiata per quanto brillava tutt’intorno di ogni ornamento simbolico! Tutto aveva un’aria splendida, imponente maestosa… A cominciare dal trono del Venerabile che sembrava un altare rilucente d’oro e porpora… Tutti i fratelli avevano deposto i cappucci e si presentavano solo più con le loro rispettive decorazioni ed insegne che formavano un bellissimo e variopinto quadro d’insieme… “

Il resto è cronaca, direbbe qualcuno… il profano, fatto avvicinare all’ara, viene consacrato ufficialmente “framassone” dal Venerabile che lo inizia a “fil di spada” e gli fa indossare grembiule e guanti. Una triplice batteria dei fratelli chiude la cerimonia.

Commento finale

Indubbiamente la narrazione, di cui ho volutamente fatto un riassunto condensato, tralasciando particolari sui vari viaggi, che comunque chiunque può comodamente leggersi acquistando il libro, seppure per forza di cose “romanzata” è comunque un Interessante documento su come venivano iniziati i nostri fratelli duecento anni orsono.

Oggi una cerimonia di tal fatta, che senza dubbio, doveva durare, presumo, tutta una nottata non avrebbe più senso, però credo che, ugualmente, qualcosa ci possa insegnare.

Fortunatamente i tempi oscuri dell’lnquisizione sono finiti ed i massoni non rischiano più di abbrustolire a fuoco lento su di una pira in piazza Castello additati al pubblico ludibrio come “servi del demonio” e, quindi, non è più necessario che il profano giuri segretezza a scapito della propria gola, tuttavia anche ai giorni nostri la cerimonia Iniziatica deve essere intesa in senso esatto.

E ciò non tanto dall’iniziando, che chiaramente non può capire nulla di quel che sta accadendo, ma da chi l’iniziazione stessa conferisce, principalmente da chi si fregia della maestria.

Perché, purtroppo, m’è capitato di sentire alcuni profani sbuffare di noia durante la cerimonia, come se tutto fosse scontato ed inutile.

Chiarisco: ritengo sia naturale e logico che chi entra tra di noi voglia informarsi sull’iniziazione (e le librerie abbondano di testi che ne descrivono ampiamente tutti i particolari!), ma in tutti i casi l’esperienza, il vissuto deve travalicare ogni lettura: perciò credo sia compito di chi “inizia” far vivere al profano sensazioni, esperienze ed emozioni tali che non possa più scordarsi il primo passo.

Per questo è indispensabile che noi per primi si sia convinti di stare facendo qualcosa di grande, di stare effettivamente dando la luce ad un nuovo fratello, di contribuire a diffondere sempre più i nostri alti ideali.

Questo e non altro deve essere, a mio avviso, il senso dell’iniziazione: l’apposizione di un nuovo mattone nell’edificazione continua del tempio.

Ecco perché anche un racconto letterario, se colto nel suo profondo aspetto ideologico-simbolico, se vissuto quasi con totale identificazione, può e deve essere uno sprone, un aiuto, un invito a diventare, ogni giorno di più, dei veri liberi muratori.

Nota bibliografica

LUIGI PIETRACQUA, Don Pipeta l’asilé, Romans storich popolar, Viglongo & C. S.r.l., Torino, 1976 (ln lingua piemontese).

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