VIRTUTE, CONOSCENZA E FRASI FATTE

VIRTUTE, CONOSCENZA E FRASI FATTE

Sono in Massoneria per cercare la Luce, e questo sta scritto nel Rituale, che tra i documenti massonici è forse il meno lontano dalle fonti antiche. I Rituali di cento o duecento anni fa sono diversi dai nostri per molti aspetti minori, ma non per questo simbolismo. A me sembra che la luce sia ovviamente un simbolo di conoscenza. Nella luce vedo, quindi so, conosco.

Nel ventiseiesimo canto dell’Inferno il Poeta rievoca il viaggio dell’eroe Ulisse oltre le colonne d’Ercole e in quelle terzine ci dice perché inseguire la conoscenza, con le parole che mette in bocca a Ulisse: “Considerate la vostra semenza. Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtude e conoscenza”. Poco più avanti, Dante ci dice altro: c’è tutto in quelle terzine. Ci dice in modo simbolico l’oggetto e il modo della ricerca. Ulisse vuole conoscere le stelle dell’altro emisfero. “Tutte le stelle già dell’altro polo vedea la notte”. Ecco il fascino che su tanti esercita la Croce del Sud. E per conoscerle si avventura nell’oceano con poveri strumenti: “Dei remi facemmo ali al folle volo”. Sono i logori arnesi di cui parla Kipling: poveri strumenti i remi per attraversare l’oceano, maneggiati da uomini già vecchi, ma non paghi, come Ulisse ci descrive i suoi compagni, che altrove significativamente chiama fratelli. “Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi”.

Prima ho scritto “Dante ci dice perché inseguire la conoscenza”. Ma è proprio così? forse ci dice soltanto perché Ulisse perseguiva la conoscenza. Certo è che, per il supercattolico Dante, il folle volo poteva solo finire in un naufragio. Presa dal turbine la nave girò tre volte e poi affondò, “come altrui piacque, infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso”. Notare il rispetto e il ritegno di quell”‘altrui”: il Dio che non si nomina.

Per la ricerca di Ulisse, Dante ha rispetto, ma, a avviso di alcuni, nessuna simpatia. Comunque, la condanna come frutto di orgoglio satanico. E quel satana, io credo, che aveva in mente il Fratello Carducci quando scrisse il suo “Inno a Satana”, che scandalizzò i benpensanti e peggiorò i nostri rapporti col Vaticano. Ed è in quella condanna che sta, a mio avviso, la differenza di fondo tra la via iniziatica e quella devozionale.

Per me, comunque, quelle terzine sono sufficienti: c’è dentro il motivo per cui io cerco luce.

Tomiamo alle finalità del nostro lavoro. Nei testi massonici non trovo altro se non questo: la ricerca della luce. Poi trovo delle raccomandazioni di carattere morale e comportamentale e rituale e metodologico. Una soprattutto, quella di squadrare la propria pietra, simbolismo così chiaro che non mi ci soffermo anche perché, se il simbolismo è semplice, le implicazioni però sono complesse e prenderebbero molto tempo. Diciamo che per me squadrare la pietra significa avvicinarsi a quella “virtude” senza la quale la conoscenza diventa inaccessibile.

Cosa intendevo per “testi massonici”? Rituali, Landmarks, Antichi Doveri nonché il vasto corpus di scritti che Massoni hanno dedicato alla dottrina e che costituiscono il corrispondente massonico di quello che la Chiesa chiama consenso dei fedeli, o qualcosa del genere.

In tutto questo corpus non ho trovato altro e, in particolare, non ho trovato affatto che l’obiettivo proposto al Massone sia quello di “diventare dio”: di questo infatti si tratta quando nel nostro tempio usiamo il temine “realizzazione”. Non ho mai trovato questo, se si fa eccezione per l’opera di un uomo che nella Massoneria passò come una meteora.

Diventare dio sarà forse possibile, non ho elementi per negarlo. A me non è dato e se anche fosse lo sarebbe a un prezzo così alto, che non sono disposto a pagarlo. Ben più alto che non il prezzo ridicolo che adesso sto offrendo: venire qui una volta alla settimana a chiacchierare con voi piacevolmente, e a praticare, in modo molto imperfetto, dei rituali che non ho avuto nemmeno la buona volontà di imparare a memoria, cosa che sarei perfettamente in grado di fare, se solo avessi sufficiente buona volontà.

Se quella fosse la mia intenzione, non mi consolerei certo con formulette stereotipe come ne sento ogni tanto. Ricordo una sera che si parlava di egoismo. Il Fr. Scld era uscito con uno dei suoi paradossi. Anche fare’ del bene può essere una forma di egoismo, se nel fare del bene io trovo gratificazione, disse. Obbiettai che ovunque si può vedere dell’egoismo, anche nella ricerca della realizzazione iniziatica. Dopo di che un fratello apprendista mi spiegò che questo è impossibile, perché realizzazione significa dissoluzione dell ‘ego, e quindi dell’egoismo.

Personalmente, dispero di dissolvere il mio ego, convinto come sono che questa operazione comporta solventi di potenza straordinaria, attualmente non reperibili su questo mercato. La frase del Fratello apprendista era perfettamente illogica, in quanto se anche ammettiamo che “realizzazione” comporti “dissolvimento dell’ego”, fino a quando tale traguardo non ho raggiunto, le mie azioni sono determinate dal mio ego e quindi dai miei egoismi. Ma assai più dell’illogicità mi preoccupava l’accettazione acritica di una frase fatta: cosa dalla quale sopra ogni altra il Libero Muratore dovrebbe imparare a rifuggire.

Se con gli strumenti ridicolmente inadeguati dei quali dispongo, mi propongo di diventare dio, il risultato non può essere che fallimento e frustrazione. E questa frustrazione è stata certamente già sperimentata da fratelli anche di questa loggia, ed è causa di crisi passate e future.

Se non frustrazione, certamente confusione. Me ne sono accorto una sera quando, alla fine di una discussione sulle opere dei Massoni, un altro Fratello apprendista mi ha detto “in fin dei conti, Buddha mica costruiva ospedali ed asili notturni”. Il che è verissimo, e sarebbe pertinente se Buddha fosse un massone e se la Massoneria avesse qualcosa a che fare col Buddhismo.

In conclusione, essenzialmente, resto in Massoneria perché credo che nel nostro bagaglio simbolico e nel nostro metodo ci siano barlumi di una sapienza antica, che può portarmi avanti in un cammino di conoscenza. Ma ci sono ragioni sussidiarie e che ritengo niente affatto ignobili. Una è che qui incontro uomini di desiderio, il che significa uomini di qualità superiore, di buona semenza, per usare le parole di padre Dante. E penso che la mia qualità umana sia stata migliorata dal contatto con questi uomini. Un’altra ragione è che il modo e la disciplina del lavoro massonico sono un potente strumento di affinamento anche semplicemente a livello mentale. Un pre-requisito per squadrare la propria pietra.

Molti anni fa (certamente qualcuno se ne ricorda), un Fratello ci raccontò un famoso apologo di Ciuang Tzè intitolato “La Quaglia e l’Uccello Peng”. Eccolo, per chi non c’era.

Nel nudo e gelido settentrione è un uccello che si chiama Peng: Il suo dorso pare il monte Tai, le sue ali le nuvole che vengono dal cielo. In un turbine sale a gran ruote per centomila miglia fin dove terminano aria e nuvole e sul suo dorso è solo l’azzurro nero del cielo. Allora volge il suo volo al sud verso l’oceano. Sulla sponda di una palude una quaglia rise di lui e disse: “O dove vuole andare? Io frullo su per qualche metro e torno giù per i cespugli della macchia: questa è la perfezione del volo. Ma quella creatura dove vuole andare?”

Ecco, se un giorno abbandonerò il tempio, sarà perché si sono affievoliti sia il mio desiderio di vedere le stelle dell’altro emisfero, sia la forza di remare e dei remi fare ali “al folle volo”. Chissà che non possa consolarmi come la quaglia dell’apologo.

TAVOLA  SCOLPITA  DAL  FR.’. R. Scch

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