Dante Alighieri, Cavaliere
Templare
Un’accurata rilettura
critica della Divina Commedia, fatta da chi disponga di conoscenza profonda
della storia templare e del contesto in cui Dante si mosse e non perdendo di
vista gli anni in cui il poema venne composto, conduce ad una precisa certezza:
l’Alighieri appartenne all’Ordine Templare e visse il dramma della distruzione
di quell’Ordine con una intensità ed una passionalità che solo noi, Massoni e
Cavalieri Templari, possiamo comprendere e condividere.
La rilettura
dell’opera in questa chiave ci rivela la D.C. come perfusa di dottrina
prettamente templare, sia per quanto concerne gli eventi e i fatti delle
narrazioni, sia per i giudizi che Dante esprime sugli spiriti incontrati nell’al
di là, sia per la struttura morale della sua composizione.
Ed è singolare la
sbadataggine della maggior parte della critica dantesca, che non ha rilevato, o
ha trascurato, il Templarismo di Dante, rinunciando ad una chiave interpretativa
dell’opera che ne rende comprensibili anche gli aspetti fin qui considerati più
reconditi ed oscuri.
Eppure il Rossetti, il Foscolo, il Valli, e poi il
Benini e il Guenon avevano capito questo segreto e avevano cominciato a gettare
sprazzi di luce sui tesori del mondo spirituale di Dante, geniale sintesi
dell’insieme delle idee che allora occupavano gli intelletti e travagliavano gli
animi e che egli seppe fondere nel modo in cui noi oggi possiamo godere,
scoprendo cosa si cela “sotto il velame delli versi strani”.
Il pilastro
centrale della dottrina dantesca della salvazione consiste nella certezza del
poeta che l’Umanità debba tendere a due fini, proposti da Dio, di natura
diversa, ma talmente connessi tra di loro che il trascurare l’uno comporta
immancabilmente la perdita dell’altro. Essi sono la Felicità Terrena e la
Felicità Celeste, e . La meta celeste, suprema ed ultima per Dante teologo, non
è altro che la visione beatifica della Teologia, la visione di Dio nella luce
gloriosa dell’eternità. Ma il presupposto, la premessa concreta per
l’appagamento di questa aspirazione, consiste nella possibilità di raggiungere
prima . Cosa si intende per ? Un ordinamento, in terra, delle condizioni di vita
che assicuri ad ogni individuo la libertà di conformare e sviluppare la propria
esistenza secondo le sue personali capacità e disposizioni, nell’ambito della
Ragione e della Rivelazione.
Questa libertà non è però concepibile per Dante
senza la Pace, la Pace universale. Va notato che queste due beatitudini sono
raggiungibili, l’una mediante la filosofia, l’altra mediante la morale e gli
insegnamenti spirituali.
Dante sottopone al simbolismo della Croce e
dell’Aquila, che ricorrono continuamente nella D.C., dal principio alla fine, le
due forme di vita, la contemplativa e la attiva, le corrispondenti felicità
(quella eterna e quella temporale), nonché i due poteri che guidano l’umanità
nelle due direzioni: il Potere temporale e il Potere Papale.
Le ricorrenti
simmetrie allegoriche della Croce e dell’Aquila figurano nei punti più splendidi
del poema.
Orbene, l’Aquila congiunta con la Croce fu l’insegna di molti Gran
Maestri Templari, raffigurata nel loro sigillo. Dante riprende il simbolo e gli
conferisce un significato di ancor più grandiosa ricchezza, vedendovi
compendiato il suo ideale di felicità mutuato dal dettame templare.
Dante,
dunque, considera la Chiesa e l’Impero come due poteri-guida dati da Dio
all’umanità per condurla alla felicità terrena e a quella celeste.
Anche
queste concezioni sono comuni al pensiero templare, come lo sono quelle relative
alla teologia del peccato originale (di ispirazione tomistica) e le idee
gnostiche di Gioacchino da Fiore, abate cistercense, sulla Chiesa dello Spirito,
che ampiamente influenzarono Dante.
Ma più direttamente, vediamo i documenti
della D.C. che dimostrano l’adesione di Dante al templarismo.
E’ noto che la
condanna magistrale che represse l’Ordine dei Templari fu pronunciata dal
Concilio di Vienne del 1312. Questo Concilio dovette però anche occuparsi di
questioni teologiche. In esso furono condannate, come eretiche, talune
asserzioni dell’Olivi, fatte proprie dagli Spirituali, in materia di voto di
povertà, di interpretazione del Vangelo (il momento del colpo di lancia di
Longino) e sul quando perviene all’uomo la grazia santificante. Ebbene: Dante
nella D.C. fa esporre come loro inoppugnabili concezioni, una prima volta da San
Tommaso d’Aquino e un’altra volta da San Bernardo di Chiaravalle proprio quelle
tesi, che erano state respinte dal Concilio di Vienne, concernenti la ferita del
costato; mette in bocca a Stazio (Purg., C. XXV) un discorso definitivo sul
processo della animazione del corpo umano con l’esposizione di una dottrina
dell’anima perfettamente corrispondente a quella dell’Olivi; e, nel C. XXV del
Paradiso, fa pronunciare San Gragorio Magno in favore delle tesi francescane e
oliviane circa il battesimo, la grazia e la virtù.
E’ importante comprendere
che non è una spiccata predilezione di Dante per lo Spirituale Francescano Padre
Olivi a fargli accettare le tesi di costui sulla trafittura del costato di
Cristo, mentre era o non era ancora vivente, o sull’assenza dell’anima razionale
nella formazione del corpo umano, o sulla ritardata piena efficacia del
battesimo. Quello che al Poeta importava era di negare il proprio riconoscimento
a tutte le pronunce di quel Concilio, in modo velato, ma pure riconoscibile
dagli iniziati. Proprio questa è la ragione per cui Dante segue il teologo
spiritualista solo fin dove giunge la censura operata dal Concilio. Sui punti
dei quali il Concilio tace, la teologia dell’Olivi rimane indifferente al Poeta,
che ne segue la dottrina solo quanto lo esige il suo settarismo templare: non un
passo più oltre!
Se Dante sposava delle dottrine condannate dalla Chiesa,
dobbiamo dunque considerarlo un eretico? E lui stesso dove si collocava
opponendosi alle decisioni conciliari?
Diciamo subito che il 14 settembre
1921, Papa Benedetto XV, con l’enciclica In Praeclara, riconosceva Dante
come “un grande figlio della Chiesa e come una gloria dell’Occidente”. E questo
scioglie ogni dubbio: Ma Dante come si considerava?
Per Dante, la Curia di
Avignone, scandalosamente nel pugno di Filippo il Bello, non era più la Chiesa
di Roma, ma proprio quella che il Gioachimismo Francescano chiamava Ecclesia
carnalis. Ed è quella che Dante raffigura come la meretrice dell’apocalisse
sul carro trionfale di Beatrice.
Del resto, il Concilio di Vienne fu
considerato illegittimo da molti critici storici. Irregolare per forma di
convocazione, lo fu ancora di più per il suo svolgimento, perché “il Papa faceva
tutto di testa sua, sì che il Concilio non poteva né rispondere, né approvare…”
(Hemimburg, 1350). Il Damberger ne negò la ecumenicità. Per quanto concerne il
clima, si pensi che Filippo il Bello, durante lo svolgimento di tutto il
Concilio, si stabilì col suo esercito a Lione, che distava da Vienne un giorno
di marcia. A Vienne, secondo Dante e secondo la delegazione aragonese, il Papa
“non agit, sed agitur”.
Non fu dunque il pontificato di Bonifacio VIII per
Dante il culmine di ciò che è detestabile, bensì quello di Clemente V. La sua
dannazione è pronunciata da Beatrice (Paradiso, C. XXX), è predetta da Nicolò
III e ribadita ancora da Beatrice per altre tre volte e infine, confermata da
San Pietro.
Il suo pontificato fu dall’inizio sciagurata occasione di
nepotismo e simonia, come in precedenza lo era stato il suo cardinalato. Ma,
attenzione! In due lettere del 1310 e del 1311, Dante usa verso Clemente parole
di benevola attenzione, malgrado che le sue nefandezze dovessero esser già note
dovunque.
Era questo il momento in cui Papa Clemente si mostrava benevolo
verso il nuovo Imperatore Arrigo VII – forse Templare – che tante speranze aveva
acceso anche in Dante. Quando, dal 1311 in poi, questa benevolenza si cambiò in
opposizione e contemporaneamente venne soppresso l’Ordine del Tempio, contro
Clemente scoppia lo sdegno di Dante: quello non è il Papa, è l’usurpatore della
carica; e il verdetto di condanna è pronunciato da San Pietro, che urla (Par.,
C. XXVII):
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il
luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt’ha del
cimitero mio cloaca
del sangue e della puzza…
Si può
stabilire con maggior precisione quando Dante mutò così radicalmente opinione su
questo Papa, sì da passare da osservazioni cortesi nei suoi confronti alle sei
volte ripetute condanne? E’ possibile precisare addirittura la data. La data è
quella del 18 marzo 1311; quella in cui il Papa ordinò ai re, ai principi, ai
prelati e agli inquisitori di ricorrere alla tortura nei processi contro i
Templari, che dal 1307 venivano portati avanti in tutta Europa, ora con
maggiore, ora con minore convinzione e ferocia. Da quel 18 marzo 1311 fu chiaro
a Dante che il Concilio di Vienne avrebbe portato alla soppressione
dell’Ordine!
E qui cade opportuno rilevare quante volte Dante abbia mostrato
nella D.C. o nella sua vita, volubilità di giudizio, che lo ha portato a
modificare valutazioni già date in precedenza: poche, ma sempre per importanti
fatti e sempre riguardando la sua militanza templare.
Osserviamo: nei
confronti dei Conti Guidi di Romena, Dante aveva dichiarato, in una lettera del
1311, di essere debitore di molta gratitudine, per lunghe ospitalità ricevute e
per una non precisata precedente “collaborazione”.
Ebbene, nel XXX canto
dell’Inferno, il falsario Mastro Adamo maledice proprio questi Conti Guidi di
Romena, guarda caso, dopo che essi avevano compiuto dei passi contro i Templari
della loro regione.
Ancora: nel III canto del Purgatorio, Manfredi, uno dei
personaggi della D.C. più amati da Dante, appella i due re Giacomo II e Federico
II quali “l’onore di Sicilia e d’Aragona”. Parlando per bocca di Manfredi,
evidentemente è Dante che qui formula questo favorevole, sentito apprezzamento.
Ma l’elogio, ben presto, si trasforma in biasimo, espresso poi ben cinque volte
nei confronti di Federico e due nei confronti di Giacomo (Purg., C. VII e Par.,
C. XIX). Cosa era successo nel frattempo? Era successo che l’iniziale favore dei
due Re verso i Templari si era in seguito trasformato in spirito di persecuzione
che, in Sicilia (a Messina e Santa Maria) e in Spagna (a Casta-Vega, a Miravet e
a Monzon), si era concretizzato con spietati processi a suon di torture per gli
sventurati Templari locali. Ce n’è d’avanzo per un Templare sanguigno e settario
come Dante per mandare all’inferno i due, senza neanche darsi la pena di
correggere i giudizi precedentemente espressi!
Solo un Templare come Dante (o
un Dante Templare, il che è lo stesso) poteva accusare di avarizia e crudeltà
Federico II di Sicilia; solo un Templare, e non chi fosse soltanto un
Gioachimita, poteva condannare Clemente per sei volte all’inferno.
Andiamo
avanti. Solo un Templare, per illustrare l’avarizia di Carlo II di Napoli (che
aveva diviso con il Papa i beni confiscati ai Templari) poteva enfatizzare la
modestia della dote data alla giovanissima figlia Beatrice, sposa al marchese
Azzo d’Este, definito compratore della giovane. E’ chiaro che il biasimo di
Dante è mosso al persecutore dei templari e non al venditore della
figlia.
Altro passo non casuale nell’esplicitare la qualità di Templare in
Dante: il Veglio di Creta (inf., C. XIV), la statua che lacrima guardando Roma e
volgendo le spalle a Damietta, il luogo fatidico e sciagurato per il
templarismo, per la sconfitta attribuita alle milizie dell’Ordine, la prima
delle irreversibili catastrofi, che ne determinarono la fine; e per la
localizzazione in quelle città degli apocrifi ed equivoci statuti che,
sostituendo le antiche, sacre leggi templari, avrebbero trasformato l’Ordine in
una setta di eretici.
Quella statua lacrimante è la controfigura dei concetti
templari della felicità, propri di Dante. E’ essa stessa un Templare, che
respinge la responsabilità della catastrofe e che, con le membra rotte, ma la
testa intatta (la purezza e la dignità dei primi Templari), testimonia la
speranza nella restaurazione, pur piangendo sulla attuale miseria
dell’Ordine.
Ho voluto limitare questa mia esposizione ad una interpretazione
di giudizi, di espressioni, di episodi e di fatti riportati dalla D. C. alla
luce di un Templarismo di Dante che spiega molti aspetti, altrimenti
incomprensibili. Questa chiave di lettura costituisce la miglior prova
sull’appartenenza di Dante all’Ordine Templare come militante convinto,
profondo, coraggioso ed eloquente testimone dei tragici avvenimenti che
portarono alla fine dell’Ordine stesso.
FRANCO VALGATTARRI