LIBERTÀ, DIRITTI E CONVIVENZA
Dott.a Alexia Redini
Ricercatrice: Sistemi Politici e Cambiamento Istituzionale
«Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza»
(Karl Popper)
Nell’elaborare il mio intervento ho a lungo pensato al titolo di questo convegno che, a mio avviso, non racchiude soltanto stimolanti spunti di riflessione per gli iniziati, ma credo offra a qualsiasi profano l’opportunità di soffermarsi a ragionare sul significato di quali siano e di come possano essere rintracciati gli strumenti idonei a costruire un ordine di convivenza (la casa, appunto), tra uomini liberi e consapevoli.
Più in particolare, dal mio punto di vista, si tratta di una riflessione di natura filosofica sul concetto di ordine politico, inteso come costrutto spazio-temporale all’interno del quale la pacifica convivenza tra gli uomini si realizza sulla base della condivisione di regole che mirano a disciplinarne i comportamenti nel loro agire quotidiano. Dalla prospettiva poi di una studiosa di liberalismo l’indagine si concentra sulle caratteristiche che rendono possibile l’organizzazione dell’ordine politico intorno a ciò che viene considerato come valore precipuo e irrinunciabile: la libertà.
Per cercare di rendere in sintesi e in modo più chiaro la questione che pongo, vorrei qui utilizzare l’eloquente espressione del filosofo politico contemporaneo Leo Strauss: «Come è possibile conciliare un ordine che non sia oppressione con una libertà che non sia licenza?». Ecco dunque il problema che per lunghi secoli ha investito l’indagine della filosofia politica e soprattutto quella della tradizione liberale. Una questione che forse oggi risulta di soluzione ancor più complicata, di fronte a un mondo che sperimenta un vorticoso aumento della sua complessità, in seguito a quelle straordinarie scoperte scientifiche e tecnologiche concentratesi nel cosiddetto secolo breve, ma le cui conseguenze sociali, allora imprevedibili, si ripercuotono impietose in questo, accrescendone il grado di incertezza.
Naturalmente, l’incertezza è il prezzo che la “società aperta” (la società liberale) paga alla libertà, ma quello che oggi sgomenta è che quest’ultima, dinanzi alla difficoltà di mantenere un insieme di principi e valori generalmente condivisi, sembra essere diventata la sua principale nemica. Senza dubbio l’esistenza di una ‘struttura culturale’ comune favorisce negli individui percezioni e credenze condivise sui valori da salvaguardare e da sottrarre, quindi, alla disponibilità della logica democratica tout court. Ma quando questa impalcatura comune si sgretola sotto i colpi di un enorme e straordinario aumento delle conoscenze, capace di alimentare un costante flusso di novità, le possibilità di interpretare quei valori o di sostituirli con dei nuovi si dilata inesorabilmente. Il problema che allora si pone – se la nostra ambizione è tesa a salvaguardare la libertà e a evitare, contemporaneamente, le insidie del suo ‘paradosso’ – è di nuovo quello di riuscire a individuare un limite, ovvero un nucleo di regole condivise, ispirate da un insieme di principi metagiuridici che, seppure diversamente fondati, convergano il consenso al fine di fornire la saldezza necessaria a una società e al suo ordine politico.
Ecco dunque la sfida: ragionare sul limite, per garantire la possibilità di una convivenza pacifica nel rispetto del pluralismo, in un mondo ampiamente diversificato dal punto di vista culturale, etico e religioso, in quanto costantemente destabilizzato dall’emergere di novità (si pensi alle novità introdotte ad esempio dai flussi migratori, dalla globalizzazione o dalle scoperte scientifiche, etc.). Dopo un secolo in cui il concetto di valore era stato relegato al privato in virtù della sua incapacità a soggiacere alle leggi certe e universali della scienza – una possibilità accettabile per il fatto stesso che latente un consenso sui valori, comunque continuava ad esistere –, dopo anni trascorsi a relativizzarlo se non ad annichilirlo, oggi il concetto di valore torna ad affermarsi con forza non soltanto nella sfera privata, ma in quella pubblica, alimentando le possibilità di conflitto e di disgregazione all’interno della società. Chi vi parla è, infatti, convinto che le grandi battaglie di questo inizio di secolo si consumeranno proprio sul campo dei valori e che la sfida più grande sarà rappresentata dalla possibilità di raggiungere un ‘consenso per intersezione’ tra divergenti sistemi di valore.
Dal punto di vista politico, la possibilità di trovare un nucleo di regole condivise (perché ad essere condivisi saranno i valori che le ispirano) favorisce il sorgere di istituzioni maggiormente efficienti, poiché capaci di minimizzare quei ‘costi di transazione’ che inevitabilmente aumentano, quando l’interazione degli individui si realizza all’interno di un contesto di incertezza. Il ‘consenso per intersezione’ su valori e regole rappresenta infatti la cornice di prevedibilità sulla base della quale gli individui possono organizzare la propria vita attraverso la creazione di aspettative che si realizzeranno (o meno) entro i confini dei vincoli formali (le norme) il cui limite sarà dato dai vincoli informali (i valori): quelle ‘legature’ o ‘pratiche’ che uniscono nel tempo gli uomini e che concorrono a formare ciò che noi denominiamo civiltà.
Il ragionamento sul limite, ovvero sul tentativo di individuare un consenso sui valori, risulta un argomento determinante, quando si cerca di comprendere le difficoltà che oggi le democrazie occidentali incontrano nell’affrontare la crescente domanda di diritti da parte di cittadini messi nella condizione di ampliare continuamente il ventaglio dei loro desideri. Non vi è dubbio, infatti, che l’enorme quantità di conoscenza a disposizione degli individui in seguito alle nuove scoperte e ai nuovi fenomeni genera di riflesso nuove aspettative che chiedono alla politica di essere realizzate in tempi brevi e a costi pressoché nulli. Le aspettative diventano, così, pretese che esigono di essere trasformate indistintamente in diritti attraverso il processo democratico, ovvero per mezzo di un sistema decisionale a maggioranza che ripartisca su tutti i costi di una decisione che, al contrario, accontenta soltanto una parte della società (seppure la maggioranza). Le cose si complicano, quando a costituire l’oggetto della decisione sono valori e non semplicemente interessi, in questo caso, infatti, i costi della ripartizione sono particolarmente alti, se non inaccettabili, per la minoranza che, in quella decisione, non è disposta a riconoscersi. Senza contare il fatto, poi, che un incontrollato aumento dei diritti può rapidamente portare a sperimentare i noti pericoli del ‘paradosso della libertà’ ovvero di una situazione di conflittualità permanente. Ciò significa che: 1) il limite inteso come consenso su alcuni valori risulta indispensabile per la vita di una democrazia – poiché fornisce lo strumento per distinguere tra pretese e diritti, tra quanto attiene alle preferenze contingenti e quanto invece alla cornice di lungo periodo, 2) la discussione sul limite non può essere consegnata alla pura logica della decisione a maggioranza – poiché i costi sociali, come abbiamo visto, risultano troppo alti.
La democrazia, quindi, per evitare le sue forme degenerative, ha bisogno di un nucleo normativo di un fondamento. Ma è proprio su questo che sorgono le maggiori difficoltà, quando cioè si è chiamati a decidere su quali debbano essere i valori fondamentali da porre alla base del nostro ordinamento giuridico. In altre parole quando siamo chiamati a dover rispondere a domande di questo tipo: E’ possibile far convergere il consenso su un insieme di regole e, soprattutto, sulla base di quali principi o valori si può giustificarne l’accettazione? Può bastare il valore della libertà? Quale concezione di libertà? E quale il fondamento del limite alla libertà? O meglio quando si deve considerare giusto limitare la libertà?
Storicamente, come accennavo all’inizio, il pensiero liberale si è contraddistinto per aver ordinato le diverse visioni del mondo e giustificato le particolari scelte normative sulla base della superiorità attribuita alla libertà dell’individuo. Tuttavia, a stabilire, al suo interno, i confini tra le diverse posizioni è stata una diversa concezione della stessa, che ha visto opporre all’idea di libertà negativa: la ‘libertà da’ quella positiva intesa come ‘libertà di’. Tale distinzione non è stata secondaria nel determinare una diversa interpretazione del ruolo politico e normativo manifestatasi nei differenti tipi di costituzione delle democrazie liberali contemporanee. Mi riferisco a quelle che per sintesi possono essere definite da una parte come ‘costituzioni di garanzia’ – fondate sull’idea che la libertà dell’individuo possa essere garantita, limitando l’intervento del potere politico (appunto la libertà da) – e dall’altra come ‘costituzioni di indirizzo’ nelle quali invece il potere politico rappresenta lo strumento più idoneo a guidare e realizzare le condizioni di libertà attraverso una implementazione dei diritti. Una distinzione, che nella teoria del suo celebre autore (Isaiah Berlin), segnava il confine tra libertà liberale e libertà potenzialmente totalitaria, giustificata dal fatto che mentre la prima accezione mira a rimuovere gli ostacoli alle possibilità dell’agire umano, l’accezione positiva guarda alle effettive capacità degli uomini di raggiungere situazioni considerate e interpretate come condizioni di libertà; il che significa che in questo secondo caso la contrapposizione tra sfera privata e sfera pubblica viene continuamente offuscata dal dilatarsi della seconda nell’intento di rendere egualmente capaci di libertà individui naturalmente diversi, in un contesto di interpretazioni sulla libertà gerarchicamente ordinate da alcuni piuttosto che da altri. In altre parole, un ordine politico che fondi il suo principio associativo sul concetto di libertà positiva, favorisce un aumento continuo delle scelte collettive (decisioni vincolanti erga omnes) e quindi dei suoi costi sociali (per la libertà di chi non è d’accordo), soprattutto laddove una società sia caratterizzata da una profonda frammentazione e diversità.
Sono questi i motivi che mi inducono a pensare che oggi il vecchio adagio del liberalismo fondato sull’idea di libertà negativa: limitare le scelte collettive per garantire una più ampia sfera di libertà individuale, sia più che mai attuale e debba, pertanto, essere preso come punto di partenza teorico per nuove considerazioni. Se è vero, infatti, che neanche una concezione della libertà negativa esaurisce la questione sui valori, ovvero su quali di questi debbano essere lasciati alla decisione pubblica, è pur vero che, in mancanza di un’idea di bene comune condivisa, la strada più percorribile sembra essere quella di un ordine i cui termini associativi mirino a ridurre le opportunità di conflitto. Una possibilità che parte della tradizione liberale considera attuabile attraverso un particolare tipo di norme: le norme cosiddette non strumentali la cui caratteristica principale è quella di indirizzarsi all’aspetto modale dell’azione più che a quello sostantivo. Le norme non strumentali permettono, infatti, di ridurre il campo delle scelte collettive, poiché non impongono fini sostantivi da realizzare, ma modi di comportamento. (Si pensi alle regole del codice stradale, ma anche a quelle del linguaggio). Si tratta di una possibilità ambiziosa, che tuttavia presenta problemi sia teorici che pratici aperti alla necessità di ulteriori riflessioni, nella cui discussione, però, non mi addentrerò ulteriormente.
Libertà negativa e norme non strumentali rappresentano, a mio avviso, le premesse per un ordine politico liberale, ma, come ho precedentemente detto, non risolve il problema su quali siano, e sul perché dovrebbero essere considerati giusti i principi metagiuridici, i valori a fondamento delle sue norme e della sua possibilità normativa.
Vorrei qui ricordare che la decisione su che cosa sia giusto è sempre la conseguenza di una scelta da parte degli uomini e che nessuna teoria è in grado di fissare criteri universalmente validi e condivisi per stabilirne in via definitiva la bontà. La teoria è lo strumento attraverso il quale cerchiamo di comprendere in modo coerente la realtà, ma essa non può fornirci verità ultime e certezze eterne su quale sia la via che conduce alla salvezza. Pereat veritas fiat vita, ammoniva un grande filosofo contemporaneo ormai scomparso (Michael Oakeshott), sostenendo che è nella nebbia della vita pratica e non nella limpidezza delle verità teoriche che si realizzano le più grandi conquiste umane; convinto che le teorizzazioni ammantate di universalismo non fossero meno pericolose di qualsiasi altra forma di dogmatismo e che, dunque, la teoria politica che avesse a cuore la libertà individuale, dovesse innanzitutto ridimensionare il ruolo dell’attività politica, trasformandola da strumento di guida e di realizzazione di una qualche ‘verità’ in spazio di confronto e mediazione tra interessi molteplici e contrastanti.
Così, la risposta alla domanda quale il limite? O meglio, quali i valori da difendere? Non credo sia rintracciabile in una teoria ineccepibile e definitiva, ma nelle infinite scelte che lungo il corso del tempo gli uomini hanno compiuto e continueranno a compiere. E tuttavia, affinché la possibilità di discutere sui valori resti aperta occorre almeno difendere i presupposti che hanno reso possibile il realizzarsi di un ordine liberale. E qui la riflessione deve, allora, volgersi agli uomini.
Sono serviti lunghi secoli e dure battaglie alla civiltà occidentale per affrancarsi da schiavitù, assolutismi e fondamentalismi. Ed è grazie agli uomini che hanno costantemente coltivato la libertà, che hanno creduto nel significato di responsabilità e dignità, che hanno vissuto la loro vita quale avventura di autorealizzazione lungo i sentieri della comprensione del sé e dei suoi limiti, che noi oggi possiamo guardare alle nuove sfide con la consapevolezza della preziosa eredità che ci hanno lasciato. Di fronte al sorgere di nuovi fondamentalismi, di natura religiosa, etica, scientifica, l’Uomo, l’Individuo (leggi con la “u” e “i” maiuscole) è colui che preferisce la via del dubbio al dogmatismo, la via del dialogo e della continua ricerca di sé nel riconoscimento degli altri. E’ l’uomo coraggioso che, privato della sicurezza di verità ultime, avverso a trasformare ogni aggettivo in un ‘ismo’, ogni idea in una dottrina, guarda al futuro ergendosi saldo sui percorsi tracciati dalla storia della sua civiltà, consapevole del fatto che la sua unica certezza, in un mondo inesorabilmente soggetto al cambiamento, è data dalla comprensione di quello che è arrivato ad essere. E’ l’uomo che guarda attraverso le porte del tempio di Apollo e coglie la saggezza delle sue iscrizioni: Γνωθι Σεαυτόν (conosci te stesso) e Μεδέν Αγαν (nulla di troppo), cammina sulle strade di Roma, ascolta Mosé, accarezza l’umanità del Cristo, si libera delle superstizioni nell’era dei lumi, è l’uomo che, custodendo tutto ciò quale prezioso compagno di viaggio, imbocca la propria esistenza come meravigliosa avventura aperta a infinite possibilità, ricordando costantemente di essere figlio delle conquiste morali e intellettuali dell’immaginazione dei propri predecessori.
A questo uomo, allora, non mancheranno gli strumenti per guardare al futuro con la ragionevolezza dettata dalla propria ragione e la consapevolezza che il superamento del Πέρας (il limite) conduce inesorabile alle funeste tenebre dell’Aπειρον (l’indefinito, l’irrazionalità del caos).