IL LABIRINTO E IL MINOTAURO

“Il Labirinto e il Minotauro”

Il carissimo Fratello Francesco Indraccolo in questa sua opera d’ingegno datata 1987 e pubblicata su Hiram n.5 nel mese di Maggio dello stesso anno, esamina come gli archetipi che simboleggiano un percorso ed una vittoria interiori, sono presenti in tutte le culture mediterranee.

Il documento è opera d’ingegno del Fratello ed il suo contenuto non riflette di necessità la posizione della Loggia o del G.O.I. Ogni diritto è riconosciuto. 

© Erasmo Editrice

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L’etimologia è incerta, le forme sono le più varie, gli scopi,enigmi spesso indecifrabili. Eppure il Labirinto ha una forza di affascinazione quasi ipnotica che parla al profondo di ogni essere umano più di ogni altro simbolo. Questo mitologema subliminale,che ricorda con i suoi percorsi spesso sinuosi e suscettibili di produrre smarrimento, il grembo, le viscere, la grande madre Terra, la morte e contemporaneamente la vita, la resurrezione, il rinascere o la possibilità di rigenerarsi, è un messaggio dell’uomo per l’uomo, valido come “Istruzioni per l’uso” per chiunque percorra la via dell’iniziazione, della ricerca del numinoso interiore, o di ciò che possa corporificare lo spirito e spiritualizzare il corpo. Ciò è vero, per lo meno, qualora si riesca ad afferrare il senso più alto e inaccessibile nonché occulto del labirinto (e di ogni altro simbolo degno di questo nome, che serva cioè a “unire”). Per chi si accontenta invece di un’indagine superficiale, il mitico manufatto attribuito all’ingegnoso architetto Dedalo può dischiudere un mirabile mondo di eroi e di dèi antichi e moderni.

Il fatto è che i veri simboli (da non confondere con gli “emblemi”) sono come la punta di un iceberg o più prosaicamente come la cipolle. A guardare da vicino e in profondità o a togliere gli strati successivi, i simboli disvelano (e ri-velano, cioè velano di nuovo) realtà e conseguimenti coscienziali che a parole – fonetizzate o trascritte – non si possono dire. Da qui la necessità “tecnica” e, quindi, “artistica” del segreto e del silenzio iniziatici. Come può qualcuno capire da una descrizione il sapore di un frutto che un altro sta mangiando? Non resta che provare di persona; e, qualche volta, riprovare.

Tornando al labirinto, i filologi sono ancora incerti sull’etimo e sul significato ad esso correlato: c’è chi lo fa derivare da labrys, l’ascia bipenne di pietra venerata a Cnosso come attributo di Zeus Ideo, riprodotta nella favolosa reggia di Minosse dalla pianta assai complessa di vastissime proporzioni e che, perciò, si pensa venisse chiamata “palazzo della labrys”, da cui labirinto.

Pare sia stato Erodoto a usare per primo il termine labirinto a proposito di una tomba faraonica risalente al 450 a.C. e composta di 12 grandi sale e 3.000 stanze minori. Plinio il Vecchio poi descrisse come labirinto la tomba monumentale del re etrusco Porsenna vicino a Chiusi. Ma forse, in entrambi i casi il termine usato per antonomasia era diventato già generico.

Un’altra etimologia proposta è quella di labra o laura, indicanti sia la cava, sia la caverna e la miniera e i loro rocciosi cunicoli. “L’attuale e l’antica Laurion – spiega Paolo Santarcangeli nel suo insuperato ‘Il Libro dei labirinti’ edito dalla Vallecchi – che è miniera di piombo ne è un esempio; dalla radice lau-lav vengono ‘lava’ e “la(v)tomia”.

“Eccome se non bastasse – prosegue Santarcangeli – pare che ci fosse a Creta (e certamente in Asia Minore) un culto di Zeus Labrandos, Labraundos o Dolichenus, di cui ancora nel 1844 esisteva in Caria un santuario ben conservato. Poi c’è la radice laòs = popolo; e il fulmine di Zeus, che deriva dal nome della selce: indi il nome del luogo dove dimora la dea ctonia toû lábrous; quindi caverna consacrata a una dea litica”.

A ben seguire il filo di questo discorso (non ancora quello di Arianna) si può vedere che la pietra, perfino la lapis, la caverna, la miniera con i suoi “metalli”, la divinità femminile terrestre a cui poi si sostituì Zeus, noto per la sua “giustizia”, per il suo fulmine e per le sue “aquile”, sono tutti compresenti nel labirinto, si saldano ai riferimenti (fatti negli articoli precedenti) alle caverne, ai mitrei e agli antri delle Sibille, e si proiettano sia verso situazioni latomistiche, cioè muratorie e architettoniche, sia verso situazioni ermetico-alchemiche. In pratica, il labirinto dà molto di più del motto VITRIOL: Visita Interiora Terrae Rectificandoque Invenies Occultum Lapidem.

La forma e la tipologia dei labirinti è la più varia: possono essere naturali, artificiali e misti; a una o più vie; bio tridimensionali; geometrici (a pianta rettangolare, quadrata, circolare, spiraliforme, ecc.) o irregolari; con uno o più centri o senza centri. Queste e altre distinzioni sono dipese dai “modelli” cosmogonici utilizzati con maggiore o minore fantasia, dagli estri e dalle mode artistiche e dalla partecipazione sociale compatta o scarsa, finalizzata alla realizzazione di monumenti o di un semplice fregio sul verso di una moneta. E tuttavia straordinaria la presenza di questo archetipo non solo nella cultura, nella civiltà e nella storia mediterranea ma anche nelle più antiche società indo-europee e in quelle dell’America precolombiana.

Si pensi che i mandala hanno spesso forma labirintica, ma se è vera l’ipotesi che fa risalire questi disegni geometrici a sfondo sacrale ai mudra, cioè ai gesti e ai movimenti (per esempio quelli delle cerimonie rituali), lo stesso ragionamento può essere valido per il labirinto e i suoi meandri da percorrere in processione nelle grandi feste stagionali (anche danzando imitando il passo delle gru) e nel riti di passaggio.

Fino a pochi anni fa era facile vedere ancora disegnati labirinti semplici nel cortili e nelle piazze di ogni paese per il gioco dei bambini chiamato “mondo” per il quale si usa una pietra piatta e un’andatura saltellante, su un piede solo.

Gli scopi del labirinto, sia esso raffigurato su un pavimento a mosaico o su un soffitto o eretto in muri di mattoni o in siepi di giardino, non sono quelli di proporre un quiz né una gara di abilità. Comunque, ricorda Santarcangeli: “chi attraversa il labirinto, deve passare per gli intrichi e gli inganni dell’oscurità per vincere la morte: così come gli Ebrei fecero per ‘sette’ giorni il giro delle mura di Gerico, così come gli Achei assediarono Troia per ‘sette’ anni. I rigiri delle viscere e le linee tracciate sul fegato sono uno specchio microcosmico del corso delle costellazioni celesti. Tale corso cosmico fu riprodotto nella ‘danza’, trasponendo nella categoria del tempo la rappresentazione spaziale. Giace nelle profondità la rappresentazione misterica dei grande alvo materno e del labirinto in cui dovrà vagare l’uomo esposto all’impegno della vita”. Grazie a questi chiarimenti è più facile comprendere perché i labirinti sui pavimenti delle cattedrali francesi venivano chiamati chemins de Jerusalem ed erano percorsi in ginocchio dal fedeli a commemorazione del calvario.

Al labirinto di Cnosso sull’isola di Creta è strettamente legata la leggenda o, meglio, l’allegoria del Minotauro, l’essere dal corpo umano e dalla testa taurina nato dal connubio bestiale di Pasifae, moglie di Minosse, con un magnifico toro bianco inviato da Poseidone. Una variante propone che il “mostro” si chiamasse Taurominos e avesse testa d’uomo e corpo taurino; in ogni caso, “galeotto” del connubio contro natura fu Dedalo, fabbricando una forma lignea di giovenca in cui si nascose la regina. A Dedalo sarebbe poi toccato costruire il labirinto per imprigionare il Minotauro, al quale Minosse ogni “nove” anni sacrificava “sette” ragazzi e “sette” vergini, fatti mandare come tributo da Atene da lui vinta in battaglia.

A questo punto si inserisce Teseo l’eroe solare per tanti versi simile ad Eracle e a Gilgamesh, presunto figlio di Egeo ma in realtà progenie di Poseidone. Teseo, che già aveva vinto il toro di Maratona (e si veda quanto già detto a proposito di Mitra), si unisce agli altri 13 ostaggi e va a Creta. Un sogno l’avverte che dovrà invocare l’aiuto della dea dell’amore e il presagio diventa chiaro quando Arianna Glaucopide (anch’ella con lo stesso attributo di Atena, nata dalla testa di Zeus) si invaghisce di lui e gli dà il gomitolo (o il fuso) da srotolare all’interno del labirinto per ritrovare la via d’uscita, nel caso fosse riuscito a vincere il Minotauro.

Dal “Liber Floridus” (1060 circa) di Lamberto di Saint Omer

Tutti sanno come andò a finire: Teseo riuscì ad afferrare il sopracciglio del mostro e ad affondargli la spada nel petto; uscì dal labirinto e fuggì da Creta con Arianna, ma non la sposò, contrariamente a quanto promessole, e l’abbandonò sull’isola di Dia, dove dovette scendere Dioniso con il suo carro alato trainato da linci e da tigri per salvarla e farla sua.

Non sappiamo quante e quali siano le stratificazioni di questa allegoria divenuta semplice affabulazione dal significati moralistici. Certo è ben strano che un “eroe”, sia pure “fuggitivo”, si comporti da fedifrago. Come è strano che Arianna (o Ariadrie, Airagne, Aracne) si faccia sedurre e abbandonare come una tapina (mentre dovrebbe avere avuto una grossa valenza pari a quella di Penelope), dopo aver aiutato Teseo a uccidere quello che, in fondo, era suo fratellastro e guarda caso si chiamava anche “Asterios” (cioè “astro”, per indicare – secondo Santarcangeli – la concezione sidereo-luminosa del temibile uomo-toro). É infine sorprendente che un Dioniso, alter ego di Apollo, vada a soccorrere la derelitta.

É molto probabile che l’allegoria primigenia, mito essa stessa, narrasse la vittoria sulla parte animale e oscura dell’uomo-eroe, il quale sa dipanare (o tessere) il filo della propria coscienza e così, ottenendo anche il “distacco” dalla propria parte animica, si trasforma in un processo di indiamento che gli fa attingere le massime e impensabili (come indica la coincidenza misterica Apollo-Dioniso) virtù spirituali da ritrasformare sul piano animico e fisico, anche a beneficio dell’umanità.

Questa interpretazione può non essere soltanto teorica, né tanto meno “mentale”, ma operativa, solo che si sappia ritrovare il filo (le filet, dicono i Francesi) di un percorso iniziatico che, in ogni tempo e paese, si può coprire con tanti schermi che servano ad allontanare i profani e gli intrusi. A volte, come abbiamo già detto ad abundantiam, il mito viene riverniciato o restaurato perché si vuole che resti una traccia dei cambiamenti politici o religiosi da cui una societas trae nomen, numen e ragione di esistere finché non sarà sopraffatta da un’altra. Ma anche la società vincitrice tende ad auto tramandarsi inglobando e ritoccando a proprio vantaggio la storia e la mitologia dei vinti fino a renderle contraddittorie e quasi incomprensibili. Questi, per lo meno, sono i limiti delle allegorie, delle leggende, delle saghe, delle affabulazioni e, in fondo, della parola. Il simbolo, invece è valido in ragione del suo e del nostro silenzio ed è perciò universale.

In questa ricerca sul simbolo, assai scarso è l’aiuto che viene dalla psicologia più o meno alla moda. Altri sono gli strumenti scientifici da usare con un granellino di “sale”: prime fra tutte l’indagine storica, che tenga conto sia del sociale sia del sacro, e la filologia. Quest’ultima, in particolare, unita alla storia dell’arte, potrebbe fornire qualche chiave interpretativa nel sotto-mito di Dedalo e di suo figlio Icaro, rinchiusi da Minosse nel Labirinto e di lì sfuggiti con le ali di cera e di piume. Il primo con prudenza e bravura riuscì ad atterrare in Sicilia; il secondo con orgoglio e imperizia precipitò in Sardegna, dando forse un grosso contributo alla civiltà nuragica. Ma questo è un altro spunto da analizzare meglio in seguito, parlando delle civiltà megalitiche

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