ROMA. LA PAURA DELLA MORTE E DEI MORTI

La paura della morte e dei morti

La convivenza con il pensiero della morte dunque è particolarmente difficile per il mondo romano che, in opposizione all’ottica cristiana e misterica, interpreta il momento del trapasso come l’annientamento più o meno definitivo dell’uomo. Le grandi tombe, i mausolei che il ceto dominante si fa costruire con grande dispendio di denaro non sono che la conferma di questo terrore di non “essere più” : con questi monumenti imponenti i dedicatari cercano di riaffermare e rendere visibile quello che essi sono stati fra i vivi e in tal modo lenire l’angoscia del distacco dalla vita.

Ma questo non basta. Ecco allora la necessità dell’emarginazione, della rimozione sociale e psicologica del problema. Questo fenomeno comunque non si verifica soltanto nella Roma pagana ma in tutte le civiltà classiche, e paradossalmente esso si è accentuato, pur con alterne vicende, con il passare dei secoli. L’attuale società occidentale, sottoposta alle ferree leggi del profitto e della produzione, tende a vivere come un fallimento la morte di un suo membro e per questo cerca di nasconderla, di relegarla negli asettici padiglioni per malati terminali, discrimina ed esclude quelli che vengono colpiti da malattie “infamanti”, dando così un giudizio morale, prima ancora che scientifico, sul comportamento di queste persone che vengono viste con sospetto per la loro ambigua condotta sociale e sessuale. Ed ecco legati in una pericolosa simbiosi i due grandi tabù di sempre: il sesso e la morte, argomenti di cui si parla poco, argomenti di cui non è bene parlare, argomenti nascosti nell’angolo più buio della nostra cattiva coscienza. Siamo dunque ben lontani dalla lezione dei primi cristiani che celebravano le liturgie nelle catacombe anche per essere vicini ai loro morti, e che del giorno della morte avevano fatto il primo giorno della loro nuova vita in Dio. Questa lezione, in una cultura occidentale che si dice in larga parte cristiana, si è persa, offuscata e sommersa dall’individualismo e dal materialismo.

Anche la Roma tardo-repubblicana e proto-imperiale nei confronti della morte vive tensioni e paure simili alle nostre, ma, ed è questo che deve indurci a riflettere sulle contraddizioni della nostra società, non conosce o minimizza il messaggio catartico delle religioni orientali e del cristianesimo. La morte è angoscia, incertezza, fallimento; rimuoverne l’idea, eliminarne le tracce, diventa una necessità, se non si vuole cadere in uno schizofrenico conflitto psicologico fra la certezza di quello che siamo e la percezione di quello che saremo (o potremo non essere). Il mondo romano tende ad esorcizzare l’idea della morte perchè essa – con il suo universo di riti magici, di divinità crudeli ed inesorabili, di luoghi tetri ed orribili – rappresenta una realtà altra ed incontrollabile rispetto ad un mondo ordinato come quello della res publica: il civis si muove esclusivamente entro i confini spazio-temporali dell’impero, gli unici ad essere reali, difendibili, espandibili.

Tutto ciò che esula da questi limiti è pericoloso, è una minaccia per l’ordine sociale, e come tale deve essere eliminato. Questo tipo di atteggiamento si riscontra agevolmente nelle prescrizioni legislative che pongono al di fuori della cerchia urbana i luoghi destinati ad accogliere le tombe per evitare contaminazioni, o che stabiliscono dei giorni rituali in cui gli spiriti dei morti possono tornare sulla terra per ritrovare i loro cari, a patto però che non vengano a turbare la tranquillità dei viventi per tutto il resto dell’anno. La stessa idea di separazione di ciò che è pericoloso e diverso da ciò che invece è puro, dalla parte sana della città nel nostro caso, è espressa con molta chiarezza dalla legislazione penale riguardo al parricida. Colui che si è macchiato dell’orrendo crimine dell’ assassinio di un familiare viene espulso dalla comunità in modo definitivo: chiuso in un sacco ben sigillato ed impermeabile in compagnia di quattro animali, il serpente, il gallo, la scimmia ed il cane, ritenuti oscuri ed inquietanti, viene gettato nel Tevere o nel mare affinché l’acqua gli impedisca di tornare nel mondo dei vivi.

Si coglie subito in questa procedura che ciò che sta più a cuore ai Romani non è la punizione del crimine, ma l’espulsione di un monstrum che, con il suo gesto folle, ha reso impura tutta la comunità, violando i sacri legami della famiglia. Roma vuole separare nettamente ed in modo inequivocabile il mondo dei vivi da quello dei morti, perchè i defunti non hanno più diritto di cittadinanza su questa terra. Anche se un tempo furono cittadini romani ora essi sono altro: spiriti, “lemures”, “larvae”, “manes”; appartengono insomma al mondo della morte, sono diversi, o meglio, non sono. Su questa alterità si gioca tutto, è questo il nocciolo fondamentale dell’atteggiamento romano nei confronti della morte. L’uomo cessa, nell’istante stesso del suo decesso, di essere tale, perde tutte quelle caratteristiche che nell’ottica classica fanno di un insieme di carne e di muscoli un essere pensante ed intelligente. La più importante di queste peculiarità è senza dubbio quella della parola.

La morte è il regno del silenzio, è il luogo in cui si viene privati della parola, naturale mezzo di comunicazione fra i vivi, tanto più a Roma dove sappiamo l’importanza che hanno l’oratoria politica e l’arte retorica. Il morto stesso in molte epigrafi si definisce come colui che ora tace. L’impossibilità di comunicare, dovuta all’interdizione dalla parola, è uno dei tratti più agghiaccianti per la cultura romana, poiché sancisce l’impossibilità di agire e di essere quindi parte attiva nello svolgimento delle vicende umane. La negazione della parola fa regredire l’uomo al livello animale (ricordiamo la distinzione fatta da Varrone, parlando di schiavi, per cui l’unico elemento che conferiva dignità allo schiavo rispetto al bue o agli strumenti di lavoro era il fatto di essere un instrumentum vocale, di avere cioè la capacità di parlare).

Il tempo stesso della morte viene ad assumere connotazioni completamente differenti rispetto a quello terreno. Il mondo romano considera concluso il tempo di un individuo non nel momento in cui esso muore, ma quando questa morte viene codificata in modo definitivo ed inequivocabile nell’incisione della lapide: l’epigrafe rende ufficiale la fine quando il dedicatario decide di farsi ricordare, quando si passa dalla non più vita alla storia e quindi alla memoria di sé. E’ lo sbalzo che proietta il morto in una dimensione temporale nuova e diversa da quella terrena. A partire dall’età imperiale, infatti, sulla lapide viene riportata, generalmente con grande precisione, la durata della vita di una persona: con essa la storia di quella persona nel mondo dei vivi appare finita, il suo tempo è stato sancito. Qualunque azione, pensiero, o attività vitale quest’uomo possa avere avuti essi non sono più di questa terra e non si verificano più nel tempo terreno; di conseguenza non riguardano più la res publica, sono fuori dai suoi confini spazio-temporali, sono altro, e come tali vanno emarginati e rimossi. Il tempo della morte diventa, invece, tempo della vita nel cristianesimo e in alcuni culti orientali fra cui il mitraismo ed il culto di Iside. Tutti i culti misterici di derivazione orientale si pongono in una posizione nuova e di palese superiorità escatologica rispetto alla religione tradizionale di Roma.

Essi infatti offrono ai fedeli, attraverso la partecipazione ai riti ed alle cerimonie iniziatiche, la promessa della salvezza nell’aldilà e la prospettiva di una beata immortalità. Ecco il motivo per cui il culto di Iside a partire dal I secolo a.C. ed il mitraismo dal II secolo d.C. incontrano un così grande successo fra la popolazione romana: essi vengono a supplire alle carenze della religione tradizionale incapace di dare una risposta adeguata alle angosce della gente. Il culto di Iside proviene dall’Egitto e tramite le rotte commerciali si propaga in Italia attraverso la Sicilia e le coste meridionali intorno al I secolo a.C. Il carattere “democratico” di tale religione – essa infatti rivolge la sua predicazione soprattutto verso i ceti inferiori ed apre i suoi templi anche alle donne – sconcerta e preoccupa le autorità romane che alla metà del I secolo a.C. intervengono pesantemente distruggendo i luoghi di culto.

I magistrati, molto tradizionalisti, avversano questo movimento religioso perchè lo ritengono molle e corruttore dei costumi, inoltre le riunioni segrete dei fedeli, la maggioranza dei quali di bassa estrazione sociale, rappresentano agli occhi del potere costituito una potenziale ed occulta minaccia per gli equilibri politici. Tutto ciò comunque non ferma l’enorme diffusione di questo culto che si spiega con il fascino delle sue dottrine escatologiche e delle forme esteriori del rituale. L’apertura solenne del tempio ogni mattina e l’altrettanto solenne chiusura ogni sera, la sfarzosa vestizione della statua della dea, l’ammissione delle donne alle liturgie, sono senza dubbio elementi capaci di attrarre l’attenzione della società romana. Ma ciò che contribuisce maggiormente al successo di questa religione è la sua capacità di offrire ai fedeli una luminosa speranza di salvezza ultraterrena. Riprendendo il mito di Osiride secondo cui la divinità – sconfitta in un primo tempo dalle forze del male, riesce poi, tramite l’intervento delle divinità superiori, a riacquistare la vita e a trionfare sulla morte – il culto di Iside propone l’identificazione dell’iniziato con la figura di Osiride, e gli garantisce dunque la resurrezione e la vita eterna. Di origine indoiranica invece, il mitraismo si diffonde in tutta l’Asia minore grazie alle conquiste del regno persiano e viene in contatto con Roma nel II sec. D.C. Il culto di Mitra si configura immediatamente come una religione misterica volta a garantire agli iniziati – solo maschi – la salvezza e la felicità dell’anima nel mondo ultraterreno. Il fedele, tramite la rivelazione dei misteri, può liberarsi già sulla terra delle impurità che opprimono la sua anima, ma è soprattutto dopo la morte che grazie alla sua fede l’iniziato può, attraverso i sette gradi progressivi di purificazione, ottenere la vita eterna in comunione con il suo dio. Ciò ovviamente è appannaggio dei soli aderenti a questo culto perchè per coloro che non credono alla parola salvifica di Mitra dopo la morte non vi sarà che tristezza e grigiore.

Il cristianesimo offre a sua volta una risposta trascendente alle attese più forti degli uomini sostenendo che, grazie alla fede nella resurrezione in Dio, il giorno del decesso chiude definitivamente solo la parentesi della vita terrena, ma apre all’uomo una dimensione nuova, infinitamente più grande: la possibilità di vivere finalmente in Dio come una cosa sola. Questo elemento risulta molto evidente dal confronto fra l’epigrafia pagana e quella cristiana. Nelle iscrizioni paleocristiane troviamo infatti, per la prima volta in modo generalizzato, un dato che nelle epigrafi pagane era quasi completamente assente: la data della morte. Il mondo romano attraverso l’iscrizione vuol far sapere al lettore quanto ha vissuto, quanto è stato il tempo che ha passato su questa terra, visto che è proprio questo l’unico elemento che abbia qualche valore: lo spazio fra due limiti precisi, quello della nascita e quello della morte, al di là dei quali c’è il nulla. Il mondo cristiano invece afferma con forza in tale modo che per l’uomo, nato alla vera vita con il battesimo, il giorno della morte, o meglio della depositio, la sepoltura, è anche il giorno della rinascita, è il momento in cui il fedele entra a far parte di un progetto salvifico nuovo e meraviglioso.

Espressione di questa idea è la consuetudine della chiesa di onorare le feste dei santi nell’anniversario della morte e non in quello della nascita. L’universo della vita, come abbiamo potuto notare, è in simmetrica antitesi con l’universo della morte poiché quest’ultima, come afferma Angelo Brelich, è considerata dall’animo irrazionale come un fenomeno negativo a priori, rappresentando la fine di ciò che invece è valutato a priori positivo: la vita. L’antitesi fra giorno e notte, fra luce e oscurità, illustra bene il contrasto fra la vita e la morte. In moltissime attestazioni epigrafiche appare, del resto, il tema della luce come identificazione e rappresentazione della vita: ” sit tibi lux dulcis et mihi terra levis “.

La vita è luce. Se la luce è dunque la condizione naturale che sembra esprimere pienamente il senso dell’esistenza, risulta evidente che la morte ed il suo regno, inesorabili avversari della vita, vengano caratterizzati dall’oscurità e dalle tenebre. Al momento del decesso l’umbra abbandona il corpo e raggiunge il regno degli Inferi dove tutto è tenebra e dove è negato il confortante chiarore della luce. Il buio genera paura e tensione nell’uomo: le tenebre si immaginano popolate dai più inquietanti fantasmi. Anche per questo motivo a Roma esistono degli schiavi, cosiddetti lanternarii, il cui compito è quello di illuminare la via davanti al padrone. Questo costume viene ripreso anche dall’arte funeraria, per cui è facile trovare, raffigurato sulle tombe, un lanternarius che illumina il cammino del defunto attraverso le tenebre della morte.

La notte e l’oscurità sono poi i naturali alleati di figure inquietanti come le streghe e i negromanti. Le pratiche magiche di questi ambigui personaggi sono condannate e represse nel mondo romano poiché vanno a toccare uno dei più grossi tabù di ogni cultura: la sacralità e l’inviolabilità del riposo dei morti. Le streghe, infatti, si pongono come inquietante trait-d’-union fra il mondo della vita e quello della morte attraverso la pratica dell’evocazione degli spiriti dei defunti per negromanzia. Il morto, una volta concluso il suo tempo sulla terra, viene posto ai margini della società dei vivi con il rito della sepoltura; posando sui resti del suo corpo una pesante pietra tombale si intende bloccare qualsiasi tentativo del defunto di ritornare fra i vivi. La tomba è un luogo sacro; è un’ara e profanarla è una delle azioni più spregevoli che un uomo romano possa compiere. Colui che commette questo grave sacrilegio passa immediatamente nella categoria dei maledetti, poiché il suo gesto ha offeso il culto delle divinità infere cui di norma la tomba è dedicata. La grande maggioranza delle tombe romane di età proto-imperiale reca infatti la formula dedicatoria DM / DMS, Dis Manibus / Dis Manibus sacrum, che le consacra al culto di queste potenti entità ctonie e quindi le pone sotto la loro protezione, al sicuro dalle ingiurie di potenziali profanatori.

La protezione del sepolcro viene affidata anche ad un simbolo che, a partire dal I secolo d.C., spesso vi troviamo raffigurato: l’ascia. Il valore sacrale di tale rappresentazione si esprime pienamente nella volontà del defunto di assicurarsi per l’eternità l’intoccabilità e l’inalienabilità della tomba affermata con forza dalla dedica sub ascia del monumento funerario. La tomba per il diritto romano è una res religiosa ed il luogo in cui sorge assume la qualifica di locus religiosus e perciò stesso di inviolabile. In quest’ottica dobbiamo vedere la grande importanza attribuita alla precisa determinazione degli spazi sepolcrali: essi sono i confini invalicabili al vivo, sanciti e consacrati dalla partecipazione del morto alla natura divina delle entità infere. Non sempre però questa procedura è sufficiente per tenere lontane alcune categorie, come le bustuariae, prostitute che fanno dei monumenti funebri il luogo di incontro con i clienti, o altri individui che utilizzano le tombe per espletare le loro necessità fisiologiche.

L’epigrafia funeraria romana è ricchissima di imprecazioni e maledizioni, alcune delle quali molto divertenti, ed anche di provvedimenti concreti (uno per tutti quello che Trimalchione fa addirittura incidere sulla sua tomba: “praeponam enim unum ex libertis sepulcro meo custodiae causa, ne in monumentum meum populus cacatum currat”), contro coloro che facevano un uso così poco nobile dei monumenti funebri. Il mondo romano è terrorizzato dal fatto che, evocato con oscure pratiche magiche, lo spirito del morto possa tornare sulla terra a perseguitare i vivi. La grande angoscia è proprio questa: l’irruzione di una forza sconosciuta ed incontrollabile in un mondo ordinato e codificato. Nella concezione dell’Urbe, il defunto, all’interno della tomba, per quanto bella e ricca questa possa essere, conduce un’esistenza grigia e triste, priva di qualsiasi dimensione corporea, tanto è vero che la sua condizione è spesso assimilata a quella di un’umbra.

Nella sua incorporeità il morto non può godere delle gioie materiali, che invece sono appannaggio dei vivi: ciò suscita la sua invidia, e spontaneamente, o invocato con pratiche magiche, può tornare sulla terra, come un fantasma, per perseguitare i suoi nemici. L’invidia e la nostalgia della vita sono dunque i tratti determinanti del mondo oltretombale. Da ciò deriva dunque un altro dei grandi tabù legati alla morte: quello della negazione o dell’impossibilità della sepoltura. Il morto che non ha un sepolcro o per il quale non sono stati eseguiti tutti i riti funebri, vaga, potenzialmente minaccioso, come un’anima in pena fra il mondo sotterraneo e quello dei vivi, in attesa che una mano pietosa getti sui suoi resti una manciata di terra. E’ infatti opinione diffusa fra gli antichi che lo spirito di un insepolto non possa, nell’ Ade, attraversare il fiume Acheronte e venga quindi privato del riposo eterno. La sepoltura è dunque la condizione insostituibile che permette al defunto di vivere in pace nel mondo infero. Una morte in queste condizioni è ritenuta, dunque, una della peggiori, poiché il defunto non riesce a trovare pace e, allo stesso tempo, è pericolosissimo anche per i vivi, poiché si aggira come un fantasma a perseguitare coloro che ritiene responsabili della sua mancata sepoltura. Per tale motivo è praticamente considerato un sacrilegio lasciare un cadavere senza sepoltura: una sommaria tumulazione, un pugno di terra non si negano a nessuno.

Questo costume viene rispettato anche sui campi di battaglia dove, alla fine di uno scontro, i caduti vengono sepolti in fosse comuni, e anche ai nemici, a determinate condizioni, non si rifiuta la restituzione dei cadaveri per i pietosi riti della tumulazione. E’ un caso raro e deprecabile quello di Verre il quale si rifiuta, nonostante le condanne palesemente arbitrarie, di restituire ai familiari i cadaveri dei giustiziati per la sepoltura. La fede nell’aldilà, pur se temperata da tanti dubbi e incertezze, il riposo almeno nella morte, dopo che la vita è passata fra dolori e stenti: sono appunto queste le motivazioni che portano uomini, generalmente di condizioni economiche disagiate, ad aderire ai numerosi collegia “funeraticia”, che assicurano, con modica spesa, un funerale ed una tomba ai propri soci, scongiurando così la temuta eventualità di morire insepolti.

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