COLLODI MASSONE

Collodi  Massone (Ricerca di G. N.i)

“C’era una volta….

—   Un re  — diranno subito i miei piccoli  lettori

No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta unpezzo di legno.

Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.”

La mia abitudine a mettere da parte poesie, letture e tavole varie, massoniche e no, mi ha dato lo spunto per realizzare questa miscellanea. Di mio non c’è proprio nulla, solo la fatica di riscrivere argomentazioni e commenti  di FFr.’.  sui significati, più o meno esoterici del capolavoro Collodiano: “PINOCCHO”.

Tutto quello che dirò è stato tratto da sei lavori di FFr.’.

      1)  Viaggio con Pinocchio  Hiram n. 2  Aprile 1985  (Paolo Pisani) 

  • Pinocchio  Ottobre 1990. (A. Menzio) 
  • E  luce sia….  Lab. n. 30  1997 (Roberto Cabib) 
  • Riflessioni  su Pinocchio. Lab. n. 33  1997 (Roberto Cabib)
  • Dov’è  il Paradiso di Pinocchio  Gradus n. 26 1999 (Lorenzo Lucchesi)
  • La giustizia di Pinocchio Lab. n. 17-1995 (Delfo Del Bino)

Viaggio con Pinocchio (Hiram n. 2 Aprile 1985)

Da un pezzo di legno a ragazzo in carne e ossa: da profano ad Iniziato

(di  Paolo  Pisani)

L’interpretazione di un’opera lettera­ria offre, in certi casi, aldilà del valore ap­parente e del significato più popolare, contenuti ed esempi simbolici ed esoteri­ci inseriti, magari, in maniera volutamen­te disorganica, ma accertabili ed indivi­duabili. E il caso di quel “Pinocchio”, scrit­to da Carlo Collodi, pseudonimo di Car­lo Lorenzini che, laudato da generazioni di commentatori e considerato come uno dei capolavori della letteratura per l’in­fanzia, può essere rivisto con angolazio­ne alternativa, operando un lavoro esege­tico sul mito, sulla ritualità e sulla sim­bologia. Non è, pertanto, una violenza della fantasia, l’andare ad analizzare og­getti, momenti e personaggi di questo co­nosciutissimo libro, con spirito ed atteg­giamento massonico.

Partendo, dunque, dalla genesi collo-diana, quel “pezzo di legno”, a cui po­tremmo anche riconoscere “virtù metal­liche”, connesse ad un diorama filosofico-­simbolistico del “percorso”, assume l’i­deale significato di “pietra grezza” che, presa forma di burattino, si ribella al la­voro di Geppetto (figura dell’Iniziato). Pertanto, Pinocchio potremmo interpre­tarlo come un suo sdoppiamento: la par­te più profana, meno tollerante, più egoi­sta, di tanto in tanto, però, recuperata e lievemente “levigata”: come quando, tornato a casa – cap. VII -, Geppetto dà al burattino la colazione e nel successivo capitolo rifà i piedi a Pinocchio e vende la propria casacca per comprargli l’abbe­cedario (simbolico mezzo di conoscenza e ricerca).

Gli stessi doveri del Libero Muratore, di “.. .soccorrere il proprio Fratello, alle­viare le sue disgrazie…”, non sono estra­nei al comportamento di Pinocchio. È il caso dei burattini di Mangiafoco – cap. XI

– che non solo difende, ma che salva dal­le fiamme, offrendo anche se stesso, in una sorta di spontaneo e generoso frater­no olocausto. Un gesto che non è occasio­nale, ma che ritroviamo, con contenuti più vasti, a favore della “bella Bambina dai capelli turchini” (la Fatina). Un per­sonaggio, questo, basilare nella storia del libro, in cui ci imbattiamo nel cap. XVI, quando, dopo l’impiccagione di Pinoc­chio, lo fa raccogliere e, portatolo nella sua casa, chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto. Ebbene, quella “Bella Bambina”, potremmo interpretarla come la Libera Muratoria, la sua casa come la Loggia ed i tre medici, come il Maestro Ve­nerabile, il 1° ed il 2° Sorvegliante. Ed è nei suoi stessi confronti che Pinocchio mette in pratica il dovere di un Libero Muratore di aiutare un Fratello con i pro­pri mezzi, allorché – cap. XXXVI – alla notizia che la povera Fata giace in un let­to di Ospedale ed abbisogna di cure ed aiuto, con slancio, offre i suoi unici 40 sol­di. Un gesto che si ripeterà, in senso op­posto, allorché il burattino troverà, ai pie­di del letto, un vestito nuovo ed un pic­colo portamonete d’avorio con una dedi­ca della Fata turchina, con dentro 40 zec­chini.

Ed è qui che risuona alla mente, la fra­se che il Maestro Venerabile rivolge al po­stulante durante la cerimonia di iniziazio­ne: “…come Voi in questo momento, tutti possono trovarsi senza risorse”. La rivisitazione di Pinocchio in chiave di al­legoria massonica, può forse apparire a qualcuno una fabulazione, una persona­le invenzione, ma Collodi, da uomo non solo di “natura”, ma anche “di cultura” qual’era, ha offerto e costruito troppe “si­militudini”, per poterle definire casuali e considerarle fortuite.

La stessa crescita del naso, come casti­go alle bugie dette, può essere interpretata come una ulteriore accentuazione del­la pietra grezza e quindi un aggravio al lavoro di levigatura a cui far fronte. La stessa acqua del mare, in cui si getta il bu­rattino quando – cap. XXIII – vuoi anda­re in aiuto di Geppetto (la figura dell’I­niziato), assurge al ruolo di una purifica­zione ed il corpo del pescecane, altro non è che una sorta di Gabinetto di Riflessio­ne, in cui Pinocchio ritrova se stesso (Gep­petto), mostrando pentimento per ciò che ha commesso: “…ora non vi lascio più, mai più”, sino ad abbandonare le sem­bianze di burattino – cap. XXXVI – e di­ventare un ragazzo in carne ed ossa. Ciò appare come la conferma della sua com­pleta iniziazione, il nascere, o rinascere, di quella condizione indispensabile attra­verso la quale proseguire da “uomo libe­ro e di buoni costumi” la vita muratoria.

C’è da chiedersi se queste avventure ap­partengano ad un’unica mano o si collo­chino a livello di Catena di Iniziati; la ri­sposta non è semplice ma la cosa certa è che le potenzialità di questo libro vanno aldilà delle scontate significatività e di­mensioni, mostrando archetipi occulti e latenti, non estranei al mondo Massoni­co.

Un’opera, dunque, da leggere non so­lo con gli occhi, ma degna della più at­tenta meditazione.

­

Pinocchio     di A. Menzio (ottobre 1990)

Non so se Collodi fosse massone. Esaminando il suo capolavoro  di dire proprio di sì.

Pinocchio è la Divina Commedia dei bambini.

La storia di una iniziazione e del mutamento che interviene quando si passa dalla profanità alla coscienza di sé.

Che Pinocchio nasca da un pezzo di legno può voler dire molte cose. Che Geppetto è un demiurgo che nella materia infonde il soffio vita­le. Che il pezzo di legno è la pietra grezza della simbologia massoni­ca . Che, ancora, Collodi fosse un panteista e volesse porre l’accento sui legami intercorrenti tra le varie componenti del tutto. Pinocchio è un bugiardo e gli cresce il naso.

Un monito per tutti coloro che non amano la verità. Diventano dei mostri. Creature orribili, ma soprattutto anormali. Il che vuol dire che il fine autentico dell’uomo è la verità e che seguire altre vie porta sempre alla menzogna, allo snaturarsi.

Pinocchio non vuole studiare e vende l’abbecedario. Dall’ignoranza non possono che scaturire disgrazie, vicissitudini ne­gative, paure, avventure spaventose.

Mangiafuoco è la rappresentazione del male ed anche delle lusinghe (iniziali) che possono attrarre gli sprovveduti ed i deboli. Bengodi come filosofia materialista ed il Gatto e la Volpe rappresen­tazione dei difetti che più frequentemente allontanano dalla perfe­zione: cupidigia, astuzia, arrivismo, egoismo.

Il Grillo Parlante come voce della coscienza e della saggezza. Nell’inferno iniziale Pinocchio non può ubbidire alla voce interna per­ché ancora troppo legato al contingente.

La Fata Turchina, simile a Beatrice, con una fantesca Lumaca. Lentezza, ponderazione, ogni cosa a suo tempo. Il mutamento iniziatico non può essere immediato, ma è meditato, sofferto, frutto di studio e volontà.

Geppetto nel ventre della balena. E la disperazione cupa ma non fatale. Geppetto ha con sé una piccola luce. E quella la sua autentica speranza, la sua salvezza. La luce come simbolo di vittoria sugli avvenimenti e come sinonimo di verità.

Una serie di prove dure, faticose, tutte volte a maturare Pinocchio che, però, da solo forse non riuscirebbe a superarle se non avesse ac­canto la Buona Fatina. Ella non opera autentiche magie ma ottiene risultati positivi con l’amore e la bontà.

«L’amore che move il sole e l’altre stelle».

Pinocchio non ha una madre, ma soltanto un padre.

Potrebbe essere l’accento sulla teoria secondo cui l’iniziazione, es­sendo solare, è di stampo maschile. Teoria che certamente  Collodi abbracciava.

Dovrò rileggere Pinocchio. Troverò altre sorprese ed altri temi di meditazione.

Non so se poi abbia  riletto in maniera più approfondita Pinocchio.

Il nostro Fr.’.  Roberto Cabib lo ha fatto e ne ha trovati tanti.

Riflessioni su Pinocchio (laboratorio 33 Nov. Dic. 1997)

-Al Fratello Carlo Lorenzini, alias Collodi, gior­nalista, educatore, mazziniano — nato a Firenze il 24 novembre 1826 e passato all’Oriente Eterno il 26 ottobre del 1890 — siamo debitori del capolavo­ro de “Le avventure di Pinocchio: Storia di un bu­rattino”, pubblicato in volume nel 1883 e divenuto l’opera della letteratura italiana dell’Ottocento più conosciuta al mondo. Il libro è una storia di grande carica umana in cui sono narrate le peripezie del ragazzo-burattino che va alla scoperta della vita ora dolente, ora gioiosa, in un’altalena di vicende che finiscono per esaltarne l’indomita volontà. Pinocchio si ribella, sbaglia, si pente e cerca giustizia, spera e si disillude, si dispera e cade: ma mai si arrende e sempre risorge dopo ogni naufragio. L’opera di Collodi è un ritratto preciso della situazione sociale e culturale di un’Italia povera e contadina, è un’al­legoria della favolosa condizione infantile; è la ce­lebrazione della libertà e dello slancio della fanta­sia contro le regole del perbenismo borghese.

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Di tale spirito erano espressione, in quegli anni, vari libri di testo o di supporto all’istruzione popo­lare, o di pubblicazioni per la gioventù, che anda­vano ad inserirsi sulla scia del “Giannetto” di Luigi Alessandro Parravicini, tutti tendenti alla concilia­zione ed al compromesso tra aspirazioni nazionali e tradizioni religiose. Tuttavia resisteva e sussultava ancora, negli anni Ottanta, un’altra letteratura per la gioventù, nella quale era assente “la dottrina del parroco” e che aveva i suoi momenti più alti e significativi nel noto “Cuore” di De Amicis e nell’opera del nostro Fr T Collodi.

Nel suo “Pinocchio”, infatti, traspare un costan­te “fil rouge” che potremmo definire “etica laica”, riassumibile nelle parole del cane Alidoro, quando dice al burattino: “in questo mondo bisogna aiutar­si l’uno con l’altro’’; o nel comportamento del Co­lombo che trasporta Pinocchio in riva al mare, alla ricerca del povero Geppetto, e che se ne va via rapidamente, fatto il prezioso servizio, senza atten­dere né sollecitare ringraziamenti. Come altrettanto si può individuare nel concetto del lavoro che alla fine premia e dà i frutti che non potranno mai esse­re dati dai “quattrini rubati”. Come un’etica laica si può scorgere nelle varie invocazioni che Pinocchio esprime durante lo sviluppo del racconto, tutte rivolte verso qualcosa di trascendente, che però non si identifica mai con Dio, ma semmai più gene­ricamente nell’immagine del Cielo.

Ma in “Pinocchio” c’è dell’altro, c’è ancora di più, a ben guardare. All’opera di Collodi sottinten­dono anche altre motivazioni che trascendono i li­miti della letteratura per l’infanzia o dell’indagine sociologica del tempo. Vi sono significati e motiva­zioni nascoste di fronte alle quali chi, come me —che appena qualche ora fa non sapeva “né leggere né scrivere, ma solo compitare” — può solo cerca­re di intuire, confidando nel benevolo riscontro dei FFr T del linguaggio esoterico. Ecco trasparire dal romanzo, allora, tutta una serie di simboli a noi familiari: lo scalpello ed il maglietto di Geppetto. con i quali scolpire la sua pietra grezza, quel tronco di legno datogli da mastro Ciliegia; ecco i cappucci dei conigli che si avvicinano, con la bara, al burat­tino riottoso che non vuole prendere la medicina amara; il cappio a cui il Gatto e la Volpe appenderanno Pinocchio alla Quercia grande; la barba di Mangiafuoco descritta come un grembiale che copriva il petto e le gambe del burattino.

Ed oltre ai simboli, i richiami ai riti iniziatici dell’antichità: il serpente che intralcia la via del burattino, il battente della porta che improvvisa­mente diventa anguilla, il nome Lucignolo, che all’epoca era sinonimo di un altro piccolo rettile, la cecilia. Tutti elementi ricollegabili a quelle sette degli Ofiti, dediti al culto del serpente e delle pratiche magiche, che possono catalogarsi nell’ambito di una Gnosi volgare. Un riferimento al culto di Osiride e lside, al quale il prescelto, dopo giorni di digiuno veniva iniziato, potrebbe venire dalla scena del Pinocchio affamato in quella cucina buia, disadorna con gli oggetti virtuali dipinti sulle pareti (perché non un Gabinetto di Riflessione?), a cui la sorte riserverà la bruciatura dei piedi durante la notte fredda e buia. Così come il mutamento in asino di Pinocchio, nel Paese dei Balocchi, somiglia all’analoga trasformazione di Lucio, nella “Metamorfosi” o “Asino d’Oro” di Apuleio, scrittore latino iniziato ai culti misterici come il personaggio della sua opera che ritorna uomo grazie all’aiuto della dea Iside, in una vi­cenda allegorica che rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo.

Un altro tentativo di interpretazione potrebbe essere l’individuazione di Pinocchio quale attore di un cammino iniziatico: dal 1° viaggio del Gabinet­to di Riflessione della cucina della casa del falegna­me, ai clamori di spade rappresentanti le passioni e le difficoltà della vita; durante le peripezie di Pinocchio nel 2° viaggio, quando rischia di essere cucinato allo spiedo dal burattinaio; quando incon­tra gli assassini ed è derubato dal Gatto e dalla Volpe e quindi rinchiuso in galera; quando rimane nella tagliola del contadino ed è costretto a rimpiazzare Melampo; quando corre il rischio di finire ­fritto nella padella del pescatore. Secondo viaggio che termina col ritorno a casa e con la promessa a se stesso ed alla Fatina di un sincero ravvedimento e di un riscatto con il profitto nella scuola. Il 3° viaggio di Pinocchio potrebbe essere quello intra­preso con Lucignolo per andare nel Paese dei Ba­locchi. Ritrovato poi Geppetto nella pancia del Pe­sce-cane e definitivamente rimessosi sul cammino della virtù, girando la macina ed intrecciando cane­stri per sostentare il povero padre (4° viaggio), il burattino-bambino trova l’equilibrio, lontano dai cla­mori della strada, e compie la definitiva palingenesi diventando un essere umano in carne ed ossa, o se vogliamo, un Fr T dell’Arte muratoria.

Nel compimento del faticoso percorso, Pinoc­chio dimostra di possedere quell’arduo metodo esoterico della ricerca libera, intimistica. Egli ha voluto sbagliare con la sua testa, piuttosto che accettare i consigli prefabbricati del Grillo par­lante, aspirante muratore, è soggetto di desiderio e di curiosità non disposto a sacrificare la sua ansia di conoscenza all’accettazione acritica di consigli che rassomigliano a precetti di religione rivelata o a disvelamenti di ierofante. La perseve­ranza dimostrata lo porterà al premio finale, dopo aver calcato quel pavimento a quadri bianchi e neri che è la vita nella sua eterna contraddizione tra il Bene e il Male. Male e Bene, inoltre, che si camuffano a prima vista, invertendo addirittura i loro ruoli per meglio ingannare colui che si fer­ma alle apparenze.

Mi piace lumeggiare, in conclusione, proprio l’antinomia più evidente del racconto Collodiano: quella che sorge dalla comparazione tra le figure del truculento Mangiafuoco e dell’Omino tenero come “una palla di burro” che guida la carrozza verso il Paese dei Balocchi. Ma nonostante le apparenze. quanta umanità si rivelerà, infine, nel primo e quanta efferatezza nel secondo!

 Appro­priate a descrivere l’effimera apparenza tornano allora giuste le parole messe in bocca a Mangia-fuoco dal regista Luigi Comencini nel Pinocchio televisivo di qualche anno fa, quando il buratti­naio commosso al pensiero delle sofferenze di Geppetto, regala cinque zecchini d’oro alla ma­rionetta, dicendogli: “Pinocchio, diffida sempre di chi ti sembra troppo buono e ricordati che anche in chi sembra cattivo c’è sempre qualcosa di buono”.

 Ecco … Mangiafuoco, che al volgo pare cattivo e tenebroso, ma poi si rivela pieno di umanità … perché non identificarlo nel Libero Muratore? E l’Omino “palla di burro” che parla con voce suadente, sottile e carezzevole … non as­somiglia, costui, ad uno di quei monopolisti della bontà che si spacciano come unici intermediari dell’accesso alla verità, per meglio attirare nella loro trappola teologica un’umanità impaurita?-

Sempre del  Fr .’. Roberto Cabib  troviamo nel Laboratorio n. 30 (Mar. Apr. 1997) una bellissima tavola dedicata alla Luce dal titolo:

“ E  LUCE  SIA “

ed anche in questo lavoro trova un importante significato allegorico nel “PINOCCHIO” di Collodi.

-Parlare di luce, o meglio della Luce, è impre­sa ardita e complicata, sia perché questa entità si presta aspiegazioni, commenti, ragionamenti che coinvolgono la sfera della religione, della fisica, della filosofia, del sociale, dell’intimo personale, sia perché la storia di questo concetto avvolge ed affianca la storia di tutto il pensiero umano. Fin dai primordi, quando gli uomini adorarono la pri­ma sorgente di vita, di calore e di luce che co­nobbero, alla luce associarono sempre la deriva­zione e gli albori del pensiero filosofico e religio­so, sia come sorgente e pura forma di vita, sia come antitesi al concetto di tenebre, anch’esso primordiale, anch’esso suscitante ancestrali e reverenziali timori.

Dall’antitesi di questi due concetti fondamen­tali — luce e tenebre — si è sviluppata la storia del pensiero e di molte delle teogonie e filosofie. Io credo che nessun popolo, nessuna corrente di pensiero, dai primordi ai giorni nostri, abbia tra­lasciato di esaminare, usare, approfondire questa entità: la luce, assurgendola a simbolo, in antite­si al suo contrario: le tenebre.

Chiedo perciò scusa al religioso, al teologo, al fisico, all’uomo stesso, se oso addentrarmi in que­sti meandri.                       

 ……………..

La fisica tenta di definire la luce come una entità fisica alla quale è dovuta l’eccitazione di quell’organo preposto alle sensazioni visive: l’oc­chio, cioè la possibilità da parte dell’occhio stes­so di” vedere” gli oggetti. Ovviamente l’uso di questo concetto nelle religioni e nella filosofia assume un valore del tutto simbolico e figurato: “Dio fonte di verità che illumina le menti”, “Dio fonte di beatitudine eterna per gli spiriti celesti”, “Antagonista di tenebre, dal Vangelo di Giovan­ni : Gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la Luce”. Quest’ultimo concetto si ritrova anche in Giacomo Leopardi ne “La Ginestra”.

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 .

La Massoneria si discosta da questo concetto, pur partendo anch’essa da una iniziazione solare: dall’Oriente la luce si irraggia nel cosmo, assu­mendo le valenze simboliche fisiche e morali che conosciamo. Anche noi infatti, parliamo spesso di luce, e fondamentale è inoltre per tutti noi il passaggio del rituale di iniziazione al primo grado, dopo la promessa solen­ne del profano:

 M. V T. “Fr. 1° Sorv . che cosa chiedete per il can­didato ?”

     1 °  Sorv .  : “La Luce , M . V T .

M .V .       : “Che la Luce sia….   “

Pensiamo bene ora di quale luce si tratta. Non certo del faro di un porto che guida i naviganti con le sue ritmiche intermittenze, non certo della luce sperduta nella foresta che conduce Pollicino diritto alla capanna dell’Orco. Sicuramente nep­pure di quella che intende il senso comune della religione, cioè un’entità che emana da un essere superiore, che ci infonde la sua essenza ed impli­citamente ci obbliga a seguirne i canoni. Esso, Dio, ci concede per irraggiamento parte della sua essenza, invitandoci a salire sulla scala dei valori della conoscenza per cercare di raggiungere la fonte dell’irraggiamento.

La Luce massonica sintetizzando ha invece un significato ben differente, essa non conserva in nessuna maniera le sia pur minime tracce della fonte ma vive una realtà avulsa, a sé stante. Ma ammonisce: uomo, ti ho illuminato, ma non ti ho dato niente di me, perché sono pura luce e non emanazione dell’Essere Supremo. Tu ora sei solo, non hai con me la mia essenza, sei solo nel tuo cammino che ti ho fatto intravedere, sei solo con le tue capacità personali, sei solo con la tua vo­lontà. Ma soprattutto ora sei un uomo libero, dai legami morali, dai vincoli dell’essere, dai condizionamenti, libero di progredire o di resta­re, di vivere o di morire!

A mio parere, questo concetto è chiarissimo nel testo di uno scrittore molto caro a noi masso­ni: Collodi. Egli, in due passi vicini, che riporto integralmente, introduce il concetto di luce, sen­za curarsi della fonte, senza curarsi se provenga da nobili sorgenti, o dall‘alto.

Essa è, nel primo passo che riporto, guida sem­plice verso la salvezza, impersonata dal babbo; nel secondo passo è salvezza, il contorno alla sen­sazione di libertà, al cammino finale irto di osta­coli che porterà il burattino verso la dignità umana. Affiancata alla figura del babbo, la sorgente è solo un’umile candela. Nel cammino finale, “un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna”.

Riporto integralmente le parole di Collodi (dal capitolo 25 di ”Le avventure di Pinocchio, ed. Mondadori):

…..Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo al buio, e cominciò a camminare a ta­stoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chia­rore che vedeva baluginare lontano lontano.

E nel camminare sentì che isuoi piedi sguaz­zavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolosa, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva d’essere a mezza quaresima.

E più andava avanti, e più il chiarore si face­va rilucente e distinto: finché, cammina cammi­na, alla fine arrivò: e quando fu arrivato che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cri­stallo verde, e seduto a tavola un vecchietto tutto bianco, come se fosse…… 

Chi è, e che cosa rappresenti. è superfluo ri­cordarlo! E infine, nella parte finale dello stesso capitolo:

“ …per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna”.

Non so se questa conclusione — che esalta a mio parere il significato profondo della Massone­ria — potrà essere condivisa da tutti: ecco perché ho chiesto scusa a tutti, all’inizio, al religioso, al fisico, al filosofo. Ma costoro, se FFr T, mi avranno sicuramente compreso e perdonato, Alla Gloria Del Grande Architetto Dell’universo!

Dov’è  il Paradiso di Pinocchio

(Renzo  Lucchesi)

………………………

Pinocchio è il simbolo dell’uomo; egli nasce da un pezzo di legno rozzamente tagliato, ed è la mate­ria, l’ignoranza, l’intelligenza; come un neonato, andrà incontro ad esperienze, vicissitudini, traversie e guai, che sono quelli della vita umana, che lo plasmano e lo modificano, i furbi ne abusano, i malvagi lo tartassano, un grosso animale lo ingoia come ha già fatto col babbo, ne escono, una fata l’aiuta ed infine diviene ragazzo, non più legno ma essere umano; è un mutamento dovuto a innumerevoli colpi del male, e nella sua nuova veste dovrà ancora misurarsi con esso, che è comune a tutti gli uomini, procederà fra disavventure e difficoltà, aspirando alla felicità, come tutti…

Pinocchio: da legno (materia, inerzia, ignoranza) a uomo (spirito, volontà, sapienza). Dov’è il suo Paradiso Perduto? Potremmo localizzarlo per lui, ma sarebbe ben triste, nell’essere burattino, legno, igno­rante, inetto, senza costruttiva esperienza del passato e senza consapevoli previsioni del futuro. E d’al­tronde, dopo la fortunata (o sventurata?) trasformazione andrà trovando conoscenza, esperienza, forza potere, emozioni e sentimenti, navigherà fra i marosi d’una perenne tempesta, dovrà eliminare tutto il male possibile e solo allora, se avrà successo, potrà trovare il suo Paradiso Cercato.

………………………

Il Fr . Del Bino nel 1995, quando essere massoni, era  peccato mortale punibile anche con la perdita del posto di lavoro, sul n. 17 del Laboratorio cita parte del processo a Pinocchio  per introdurre una tavola critica nei confronti della  giustizia italiana

La giustizia di Pinocchio

Delfo Del Bino (Laboratorio n. 17-1995)

Quando Carlo Lorenzini licenziò il suo buratti­no destinato a divenire famoso, sapeva, raccontan­do le sue avventure, di dire molte cose sagge, ma non immaginava il successo che avrebbero avuto più di un secolo dopo, certe sue profetiche intuizioni.

“Pinocchio,” scrisse nel capitolo XIX, “alla pre­senza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode di cui era stato vittima, dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.

Il Giudice lo ascoltò con molta benignità, prese vivissima parte al racconto, s’intenerì, si commos­se e, quando il burattino non ebbe più nulla da dire, suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da gendarmi.

Allora il Giudice, accennando ai gendarmi Pinocchio, disse loro:

—Quel povero diavolo è stato derubato di quat­tro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo su­bito in prigione.

Con questa descrizione il Collodi, introdusse il “non senso” nella letteratura infantile: si tratta di un non senso che propone esattamente il contrario di quanto ci si potrebbe attendere: e, infatti, in que­sto caso, non i malandrini che avevano carpito la buona fede del burattino vengono cacciati in prigio­ne, ma nientemeno che la vittima.

Un non senso, questo, che non è mancanza di senso comune, ma il suo esatto contrario.

Possono verificarsi nella vita corrente fatti che capovolgono le attese, com’è accaduto a Pinocchio, punito per essere rimasto vittima dei malandrini?

Purtroppo si !

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