L’ETERNITÀ E IL SIMBOLO

L’ETERNITÀ E IL SIMBOLO

P. P. B.

La gloria di colui che tutto move

per l’universo penetra, e risplende

in una parte più e meno altrove.

(Par.  1,1-3)

La libera muratoria ci consente col simbolo di poter entrare in contatto con una Realtà che sentiamo trascendente e immanente, così tanto ineffabile quanto vicina; la sua sostanza è il Mistero che ci avvolge da dentro e da fuori e tentare di avvicinarci alla sua “comprensione” è il tentativo eroico di poter abbracciare il senso originale e profondo di ciò che lega tra loro l’uomo, l’universo delle cose nel quale siamo e ciò che intuiamo come GADU.

Non è possibile rappresentare tutte le esperienze col pensiero e per questo il metodo libero muratorio si serve dei simboli, dei riti, dei miti, e nel pellegrinaggio dei suoi vari gradi ci dà l’audacia, il coraggio, la forza, ma anche l’umiltà, di voler gettare lo sguardo più in là dell’apparente frammentazione delle cose e di parlare di questa Realtà, o forse è più giusto dire di voler parlare intorno a questa Realtà, che resterà per l’uomo il segreto stesso della sua esistenza e del suo senso.

Così ci pare che attraverso i simboli tutto il mondo si spiritualizzi e che la vita assuma progressivamente all’aspetto di un viaggio ritroso fino al senso profondo dell’origine comune di tutte le cose e dell’Essere stesso, trasformandosi sempre più consapevolmente da esperienza profana in esperienza del sacro: è come se uno squarcio di verità riuscisse a filtrare dalle fessure del mondo e facesse riemergere ciò che da sempre

sappiamo ma custodito nel nostro recondito più profondo, come un ricordo eterno che si risveglia e che riaffiora sulla soglia del Finito.

Perché attraverso i simboli rimettiamo alla luce l’esistenza di una “relazione” con l’infinito, di un legame sentito come un “atto d’amore” originale che supera spontaneamente l’apparente separazione tra tutto ciò che è manifestato e tutto ciò che intuiamo appartenere all’ Assoluto.

— L’uomo si sente come una ipostasi dell’unica Realtà che sola essa E; una forma particolare e sempre in gestazione che si è generata in un particolare tempo e spazio dell’Essere infinito ed eterno, che è insieme

tempo e spazio sempre nuovo, e che l’intelligenza dell’uomo legge nelle infinite forme delle infinite cose che lo avvolgono.

Questa Realtà esiste ed è in noi, la sentiamo esistere come sentiamo il battito del nostro cuore e che noi siamo appena una delle molteplici forme del suo Spirito che imprime il suo contatto e la sua mediazione nel Finito.

Allora ci pare di riconoscere di far parte da sempre di un unico respiro, di una relazione fraterna tra noi, il nostro di-dentro e le cose del mondo; sentiamo di poter ricomprendere nelle moltitudini delle forme discordanti che ci appaiono reali e presenti nell’intero universo e quindi anche in noi stessi che ne siamo parte, la manifestazione momentanea e nello stesso tempo eterna, il riflesso cangiante, il seme divino di una Energia vitale, potente e sconosciuta ricca di un unico Spirito increato, senza inizio e senza destino, che costituisce tutto.

Ecco che l’essenza e il senso stesso della Natura che ci circonda ci sembra la nostra stessa essenza e lo stesso senso profondo dell’esistenza umana, perché questa Realtà non ci è data al di fuori della nostra vita con essa e in essa.

Sento che le cose sono pervase del suo senso, del suo Logos riversato su di noi e dentro di noi nella doppia natura dell’uomo, che diventa una rappresentazione transitoria del Tutto, allo stesso tempo finita e infinita: l’uomo è insieme l’idea, lo strumento, il luogo e il tempo con il quale e nel quale l’Assoluto agisce e si manifesta.

E il cammino verso o intorno a questa Realtà è, per me, non una mera astrazione intellettuale o il risultato di uno studio particolare, ma è sentito come un atto ideale di “fede”, un proiettarsi fiducioso verso o un cadere intorno a ciò che sentiamo, convinti che quello che il nostro intelletto tenta di ricostruire è già la risposta a un “qualcosa” che si lascia intelligere e da cui non riusciamo, non possiamo e non vogliamo distaccarci.

Questa fede così ricolma di speranza ci fa sentire tempio e scrigno vivente, manifestazione umana, immagine e simbolo di questa Realtà, custodi del suo Spirito e della Luce che illumina di sé stessa tutte le cose, che risplendono in Essa proprio nella misura del proprio riempimento di Luce e della propria capacità di rifletterne i suoi raggi.

Così la nostra pur momentanea € fragile vita personale è ricompresa in un’unità armonica che scaturisce da questo solo Principio e concorre a mantenere ininterrottamente in vita la Vita di questa Realtà che è così

da sempre.

Ecco perché sentiamo questa fede (o fiducia) in questa suprema Realtà non come una fede in un comandamento caduto dall’alto, non in un suggerimento esterno, né sentiamo questa fede (o fedeltà) come una fede nelle credenze di altri o nella ragione dell’uomo, che si ferma impotente davanti ai paradossi della logica e che ha anch’essa, tante volte nel nostro mondo insidioso e ricolmo dell’autorità della scienza, l’aspetto di una fede idolatrata, ma la sentiamo come fede nella nostra spiritualità che avvertiamo come una parte non quantitativa del Mistero e nel nostro aprirci a Esso.

Credere, per me, rappresenta la risposta a ciò che la ragione non riesce a concludere da sola, intendendolo non come un “difetto” momentaneo che potrà trovare una soluzione in un futuro che oggi non c’è nelle magnifiche sorti e progressive dell’umana gente’, ma come un arricchimento della coscienza che si apre alla speranza mentre interroga incessantemente questo Mistero.

Non credo neppure nei “contenuti” del mio credere, sempre aperto e inconcluso, ma credo in quanto credere appartiene alla natura ineffabile di questa Realtà stessa che ci interpella, che ci chiama a Sé e della quale io stesso mi sento parte con la mia dimensione sostanziale: questo è, per me, il senso di credere in ciò che sento, perché è parte della mia condizione, della mia unicità irripetibile e della libertà del mio essere nell’immanenza dell’Essere.

Il mistero di questa Realtà, di questo Principio, resta inesauribile al di là di ogni nostra conoscenza 0ggettiva e soggettiva, perché non è nulla delle cose che abbiamo elaborato o di un qualsivoglia sforzo che abbiamo ideato per definirlo; non è neppure il prodotto stesso delle nostre intuizioni perché resta ciò che il simbolo nasconde col suo velo, resta un “mondo intero” indivisibile che si è incarnato ricongiungendo

intimamente le cose stesse dal loro di-dentro e perché altrimenti senza questo intreccio, senza questa inter indipendenza tra il GADU, il Mondo e l’Uomo, si rischia di dissolverla in un’astrazione della mente o peggio ancora di trasformarla in un concetto, in un emblema, in un segno finito e di celebrarla come fosse un evento straordinario o come fosse un idolo.

Il nome del GADU non è scritto con le lettere dell’uomo e neppure con quelle delle stelle in cielo, perché, come il simbolo, non può essere delimitato come un oggetto che può essere pensato, ma come orizzonte che rende possibile il pensare, l’immaginare, V’intuire.

E in questo Mistero noi cerchiamo la nostra Via, un “testimone” della nostra esistenza che ci dica chi realmente siamo, per non cadere nel vuoto di un enigma insolubile e senza senso o nella resa incondizionata a una vita isolata che attende solo di essere inghiottita nell’annientamento dell’entropia, consapevoli invece che la nostra esistenza, la vita che esiste indipendente da noi, l’esserci in un “qualcosa” anziché nulla, il sentire che l’universo è un posto in grado di accogliere il Bene, il Bello, I Armonia, ci fa sentire legati a una Energia eterna e tenuti per mano da un’Intelligenza autocosciente che ci sostanzia e che ci fa appartenere al suo stesso logos.

Noi siamo compenetrati in questa Realtà viva, sovrapponendoci alle cose ma senza dominarle, partecipando continuativamente al Tutto e al suo eterno e inesplorabile Progetto senza poter trovare alcun “luogo”

esterno, lontano da Esso, dal quale poterlo osservare, cosicché resta velata in noi la sua essenza senza remunerarci mai di alcuna certezza, mentre l’imperscrutabilità del Mistero scuote l’intelletto e le ferite procurate anche per aver strappato una minima conoscenza di questo non-conoscere non ci lasciano in pace.

E siccome non è dato all’uomo di vedere l° Assoluto spogliato del suo velo simbolico, questo velo non diviene un impedimento alla visione della Realtà, ma è la visione stessa della Realtà non deformata dai nostri occhi e resa a noi accessibile senza attraversare la soglia checi trasfigura: la nostra condizione umana non è quella di risolvere l’enigma del mondo o di trovare la formula del Tutto, ma è l’esperienza, qui e ora, dell’infinita e struggente meraviglia della Realtà che ci alimenta, e che ci  fa esistere incarnandosi in noi e nelle cose intorno a noi; è il vivere costantemente al cospetto di questo Mistero lasciandoci trovare liberi di accoglierlo col cuore puro e colmo di meraviglia, pur nella nostra sgualcita e fragile materia.

Riconoscendo le fattezze di questo velo possiamo non considerarci più spettatori del mondo e possiamo

scendere finalmente dall’albero della conoscenza e dell’autorità dell’Io per salire quello della Vita, dell’esistenza dell’Essere e rimanere nel nostro stesso particolare e vedere senza essere abbagliati dalla luce del

Tutto.

Realizzare la nostra natura di messaggeri e di simboli dell’Eternità nel breve tempo del Divenire che ci è concesso: così l’immagine terrena e transitoria della Manifestazione, la verità frammentata e umana e la Verità integra ed eterna si somigliano; di più, si uni-sostanziano, si appartengono l’una all’altra nello stesso istante, come un’immagine in uno specchio.

Considero queste poche parole solamente un tenue riflesso di quello che mi pare di vedere guardandomi nel mio specchio annerito, senza alcuna certezza e senza alcuna presunzione di darmi una spiegazione convincente o definitiva del mio cammino; né tantomeno di delineare una sorta di personale quanto ingenua visione filosofica dell’esistenza. Vorrei solo che le parole non rimanessero una declinazione del pensiero, ma potessero trasformarsi in carne viva e fossero capaci davvero di toccarmi, come un giorno di sole d’inverno che scalda e sparisce liberandosi in un irraggiungibile sospiro… … talvolta anche un piccolo sole d’inverno sorride luminoso e puro, benché la primavera sia ancora lontana.

L’uomo che pensa si è già incamminato sul ponte che da qualche parte conduce, forse sulla sponda dell’Eden, forse sull’orlo dell’Abisso.

Egli ha già capito che non possiede nulla su questa sponda.

Dall’altra parte non vede niente,

anche se gli sembra un Tutto,

su questa parte vede tutto,

anche se gli sembra niente.

E nel cammino,

questo niente lo sente sempre più niente,

senza quel Tutto ove non vede niente’.

° Tratto liberamente da una lettera d P.A. Florenskij, matematico, filosofo e sacerdote ortodosso, deportato in un gulag di Stalin e fucilato nel 1937.

DA “GRDUS” n° 110

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