MODESTO ELOGIO DELLA SANTA SEMPLICITÀ

MODESTO ELOGIO DELLA SANTA SEMPLICITÀ

Giovanni Greco

Semplicità e brevità vanno di pari passo, perciò sarò breve; come diceva san Bartolomeo da San Concordio nel 1300, è meglio lo parlar brieve che lo parlar lungo, perché lo parlar brieve fa desiderio, mentre lo parlar lungo fa rincrescimento.

siamo in tempi in cui assistiamo ogni giorno alla morte del prossimo, in cui le moderne tecniche di comunicazione avvicinano i lontani, ma allontanano i vicini, in tempi in cui ci rechiamo presso Mac Donalds, luoghi senza storia e senza memoria, tutti i sabato incolonnati nelle auto sulle autostrade per andare ai centri commerciali, dove abbiamo persino imparato a fare i cassieri di noi stessi e dove la carta di credito ha soppiantato la carta d’identità, in tempi in cui certi bimbi non possono essere allattati dalla mamma perché sono allergici al silicone.

In questo quadro come dimenticare il monito di padre Pio che raccomandava vivamente la santa semplicità: «camminate con semplicità nelle vie e non tormentate troppo il vostro spirito», dato che complicare è facile, semplificare è difficile e che quindi «il semplice è

complicatissimo» (Longanesi). Già ai tempi di Ovidiosi segnalava che «la semplicità è cosa rarissima ai nostri tempi». Allora come ora “che fine ha fatto la semplicità?”

Sia voi che io invece vogliamo certamente adoperare gli occhiali di casa, quelli più vecchi e comodi, quelli che ci han servito da gran tempo, per cercare di seguire i sassolini dimenticati, le mollichine abbandonate, le orme sulla sabbia, le tracce sul terreno e i ramoscelli spezzati sul sentiero e per cercare magari di cogliere fatue schegge di luce, cercando di abbattere la rigidità cadaverica di quelle conoscenze che sono invecchiate senza avere la dignità dell’antico, cercando di seguire la strada dei nostri maestri, autentici pellegrini dei saperi.

Perciò dobbiamo generare tavole come le camice dei nostri nonni contadini: una tunica semplice senza particolari decori, facile da indossare, comoda per lavorare. Semplice non significa semplicistico, semplice non significa immaginare di essere sul palco della vita per dare spettacolo, semplice significa che nella nostra casa, per dirla con i cinesi, le semplici stoviglie di ceramica, risplendono più della giada.

La semplicità è essenzialità, è leggerezza, è eleganza, è naturalezza, è armonia, è creatività, è profondità, spazza via la confusione e il caos, è bellezza allo stato puro, è aprirsi completamente agli altri, è aver cura di loro, è un modo per cogliere il senso più alto della vita, è uno scudo contro l’arroganza e la superbia. Del resto per non avere una vita vuota, secondo Lao Tzu, bisogna  essere semplici nelle azioni e nei comportamenti, «così tu torni alla fonte dell’essere, perciò sii semplice come la pietra».

Semplicità è accendere un camino, ammirare un panorama, sprofondare nelle gioie della natura, è formaggio e miele, è pane, burro e marmellata: «si può essere felici anche mangiando un cibo molto semplice, bevendo acqua pura e avendo come cuscino il proprio braccio ripiegato» (Confucio). Non è però taverneggiando  o con una certa clownerie intellettuale che ciò sarà possibile.

Semplicità è fare il viaggio della propria vita con un solo bagaglio, o magari pur avendone molti, sapersi acconciare ad averne uno solo ed essere mentalmente e praticamente pronti a questa evenienza.

Semplicità è tra due ipotesi scegliere la più chiara, tra due forme quella più semplice, tra due parole la più breve, tra due frasi quella essenziale.

A volte può bastare uno sciocco qualsiasi per imboccare la via della complessità, mentre forse serve un genio per fare la cosa più semplice (P. Seeger), perciò è corretto pensare che la semplicità è la suprema eccellenza. Non casualmente Giacomo Leopardi sosteneva che «gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito».

Maniere semplici e parole semplici. Parole semplici, parole rasoterra, come un pescatore che lancia un piccolo verme per prendere un bel pesce, per prendere la verità che è sul fondo. Raymon Queneau che aveva una sua ricetta cultural-culinaria: «prendete una parola, prendetene due, scaldatele a fuoco lento, versate la salsa enigmatica, spolverate con qualche stella, mettete pepe e sale andare a vela».

Parole semplici, a maggior ragione che sempre più spesso si adoperano vocaboli vuoti, astratti, cadaverici, parole che non aderiscono alla realtà, alla conoscenza, al sapere, all’anima: sì perché le parole hanno un’anima e noi dobbiamo darle da mangiare nell’incavo della mano. Nel suo memorabile Capodanno d’un prigioniero (1961), dopo 27 anni di prigione nell’inferno del famigerato Hanoi Hilton, una delle prigioni al mondo dove la tortura è stata più praticata, il poeta vietnamita Nguyen Chi Thien, così ricorda:

Notte nella giungla,

continua a piovere

i tetti gocciolano,

tremando di freddo

ci abbracciamo le ginocchia,

il punto azzurro

di una lampada ad olio,

il secchio dell’urina

quello degli escrementi,

il letto pieno di insetti

che mordono.

Parole semplici per formare una lingua magica, parole semplici che si rifiutano di farsi mettere in riga, parole ribelli come quei bambini che scappano a piedi nudi e sono quasi imprendibili. Parole semplici che devono essere usate come i pezzi di un immenso lego, montate e rimontate, in maniera che l’artigiano della parola le possa allineare e far convergere. D’altronde la vera eloquenza consiste, con parole semplici, nel dire il necessario e soltanto il necessario.

Parole semplici, parole appassionate, parole misurate: la perfezione di un orologio non è nella rapidità del suo moto, ma nella sua esattezza. È con parole semplici, grazie ad una chimica singolare dell’intelligenza, cercando di mescolare poesia, sensibilità, nostalgia e speranza che si possono forse presagire con lucidità i tratti del nostro confuso e desolato paesaggio spirituale.

La semplicità si accompagna, e non solo per gli apprendisti, con l’umiltà, l’umiltà nei comportamenti, nelle azioni di ogni giorno, l’umiltà del dubbio, non la vanità del dubbio: il dubbio è quella cosa che quando la si ha, si pensa di non averla. Umiltà e semplicità sono due fonti della stessa sorgente e non casualmente Alda Merini aveva sposato il connubio semplicità umiltà:

«Mi piacciono quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo. Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è amore».

Credo che la semplicità si accompagni anche con la curiosità, con l’atteggiamento di chi non ha paura dei mari più vasti. Einstein diceva di sé: «Io non sono un genio, sono solo curioso. Faccio molte domande, e quando la risposta è semplice, allora vuol dire che Dio sta rispondendo». La curiosità è una dote grande, e bisogna sempre avere in tasca la bussola della curiosità per rubare granelli di sabbia alla furia del vento, e per conferire un senso alla nostra vita instancabilmente curiosa e aperta. Non sono forse le piccole cose, gli sguardi, i volti, i sorrisi, le carezze, non è forse accordando la storia di un paese con la p minuscola con la storia del paese con la P maiuscola, non sono forse le lectiones minimales, non sono forse queste cose che fanno una rivoluzione e cambiano il mondo?

Per chi si fonda sulle sottigliezze della mente e sulle intuizioni del cuore, compiacersi del semplice è di anime grandi, e la santa semplicità è un punto di partenza e di arrivo unitamente alla buona fede e alla dignità, e cercare di mostrarsi, e cercare di esserlo davvero, sereni e semplici, «è l’arte suprema del mondo» (S. Esenin).

In effetti le rivoluzioni più sovversive sono quelle delle piccole cose che poi sono quelle che cambiano tutto.

Se è vero ciò che sostiene Corrado Alvaro, che il calabrese vuole essere parlato, allora vuole essere parlato anche l’emiliano-romagnolo, e vuol essere parlato col cuore: «solo così potremo trovare consolazione alla nostra solitudine» (Liu Changyuan). La semplicità ricca di densità è uno dei modi per toccare con mano che noi siamo un’élite della sensibilità, come ha di recente sottolineato il Gran Maestro Stefano Bisi. Il nostro è un laboratorio dove si cesellano le opinioni e i racconti, fino a farli diventare semplici, limpidi, condivisi, amati, come il pensiero del poeta e monaco buddista vietnamita Thich Nhat Hanh:

com’è fresco il soffio del vento,

la pace è ogni passo,

e fa gioioso il sentiero senza fine.

Sorridi, respira e vai piano.

Noi ora siamo in un’antica società segreta senza segreti in una casa di vetro fra le più trasparenti al mondo: e questa è una straordinaria innovazione! Non è forse vero, come dicevano i nostri nonni contadini, che il seme deve sentire il suono delle campane? Perciò i nostri nemici non riusciranno mai più a rimettere il genio nella lampada.

Tutto ciò accade in un’Europa che mostra costantemente il suo vuoto spirituale, la sua progressiva perdita di identità. A tutti coloro che intendono negarci, per dirla con Giorgio Bertani, «il titolo di esseri umani per legittimare la distruzione della cultura occidentale, per velare col drappo nero della morte, finalità economiche e geopolitiche», allora forse è opportuno – col metron che ci pertiene come persone allevate dalla cultura della Grecia classica – ricordare l’aforisma di Chesterton: «Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono: essi lo sanno già. Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere uccisi».

 HIRAM  1/2016

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