IL SILENZIO DELL’INIZIATO

IL SILENZIO DELL’INIZIATO

1.- PREMESSA

Le note che seguono sono volte a comprendere alcuni dei significati attribuibili al silenzio imposto ad un Iniziato al Primo Grado della Libera Muratoria, necessariamente visti in un contesto abbastanza ampio. Non si intende condurle come una analisi di verità assolute e nemmeno rivelate, ma semplicemente come riflessioni personali, aventi valore di proposte di lavoro, su ciò che il silenzio del primo anno, c le questioni annesse, hanno generato in chi scrive. Non sembra necessario occuparsi delle esatte modalità e della durata che il silenzio richiesto nel periodo iniziale ha avuto presso diverse istituzioni iniziatiche del passato, oppure presso altre scuole di tipo tradizionale, in cui un discepolo segue il suo Maestro limitandosi, al più, al*chiedergli qualche consiglio. È invece interessante notare come, ovunque si sia presentata una via iniziatica, sia essa stata di tipo individuale, come nello YOGA e nell’ALCHIMIA, oppure di tipo comunitario, come è perla nostra Istituzione, il silenzio del neofita è universalmente riconosciuto , quindi richiesto. Nei casi in cui la Via viene percorsa da soli c sotto la guida di un Guru, al quale il discepolo è vincolato da un vero e proprio atto di fede, il silenzio può venire considerato come un’espressione tangibile (tra tante altre) dell’autorità del Maestro, insieme all’ammissione della propria incapacità o indegnità di parlare. Nel caso della nostra Istituzione e, così almeno credo, di ogni Via di tipo comunitario, la cosa si presenta diversa. Vale forse la pena di fare una disgressione su ciò che, al riguardo della Via Comunitaria, può ispirare il simbolo della Stella a cinque punte, fondamentale in Massoneria, come già lo fu per la Scuola di Pitagora, almeno per quanto è dato sapere di essa. Stabiliamo quindi alcune premesse, considerando ciò che una Via individuale ed una comunitaria possono avere in comune e cosa di distinto.

2.- VIA SOLITARIA DELLO YOGA

Un uomo che si appresti a seguire una via che, per semplicità e ben coscienti della limitazione di questo e di ogni altro termine, possiamo dire Via dell’evoluzione interiore, o forse meglio Via del chiarimento, ad esempio seguendo una disciplina Yoga, riscontra rapidamente un certo stato di fatto, ossia deve constatare che gli è impossibile muovere anche soltanto un passo lungo questa via se non si trova in perfetto equilibrio, e se in più questo equilibrio non è stato ottenuto senza bisogno di alcuno sforzo. Non è infatti equilibrio, da questo punto di vista, quello ottenibile compensando un peso, diciamo sulla mano destra, con un altro peso identico sulla mano sinistra, poiché questa situazione è instabile, richiedendo uno sforzo prolungato e destinato a spezzarsi (questo, ad esempio, può essere il modo di operare di un mago, sia che lo si voglia qualificare nero, che bianco). Nello Yoga lo stato del perfetto equilibrio è uno stato di coscienza personale (di una natura in cui ciò che è fisico e ciò che è psichico non ammettono più distinzioni), conseguibile solo quando tutti i pesi che normalmente si portano senza nemmeno esserne coscienti sono stati portati alla coscienza c riconosciuti come illusioni (ciò in un riconoscimento reale, e non solo formale, ossia ottenuto con un ragionamento formato di parole, o anche simboli, come per analogie); fino a che tale stato non viene raggiunto non è nemmeno esatto parlare dello Yoga come di una via, ma solo di un mezzo per raggiungere uno scopo di qualche genere. Nel linguaggio pittoresco degli indiani ciò viene espresso talvolta dicendo che chi si trova nella prima situazione (quella reale) è colui che ha scelto di immedesimarsi nella Dea, mentre chi si trova nella seconda (quella illusoria) è chi ha scelto di immedesimarsi in una particolare manifestazione della Dea stessa. Nel secondo caso si è quindi irrimediabilmente condannati a divenire fachiri di qualche tipo, chiudendosi nella prigione del proprio scopo, certamente raggiungibile, eventualmente a prezzo di sforzi immensi, poiché è nelle convinzioni di chi scrive (anche come deviazione della parapsicologia) che nulla sia impossibile ad una volontà umana sufficientemente formata e disciplinata. Il problema è, piuttosto, quello di vedere in quale luce debba venire considerata questa volontà operante, prescindendo dalla eventuale nobiltà morale dei suoi scopi ed ignorando temporaneamente il problema di stabilire se tale volontà esista effettivamente o sia essa pure mera illusione (riducibile a qualcosa di analogo ai riflessi condizionati),luce che non deve necessariamente essere positiva. La via così delineata non è certo facile nemmeno per chi è vissuto (o meglio cresciuto) nel clima culturale in cui le discipline Yoga sono nate (almeno per quanto storicamente accertabile), ossia una mente orientale; essa risulta ancora più difficile, forse addirittura impossibile, per la mente di tipo occidentale. È anzi stato affermato che quasi nessuno dei molti Yogi occidentali (o meglio aspiranti tali) verrebbe accettato come discepolo da un vero Guru in India, in quanto egli sarebbe generalmente nemmeno in grado di comprendere gli insegnamenti più elementari. È infatti estremamente raro incontrare in Occidente qualcuno che riesca a comprendere che lo Yoga non è una ginnastica terapeutica psicofisica, né un mezzo di abbandono mistico simile alla preghiera. Della estrema difficoltà del compito (volontariamente assunto) dei fachiri che, come mostrano i risultati, deve considerarsi alquanto miserevole (ed i fachiri in Occidente sono spesso i medium, i guaritori, e coloro che sovente, per loro disgrazia, sono dotati di talenti fuori del comune, i cosiddetti poteri) testimonia anche il racconto dello sconforto da cui fu preso lo stesso Buddha quando, nel momento della sua illuminazione, poté comprendere (o forse vedere?) quanti pochi sarebbero stati, nel corso dei tempi, coloro i quali avrebbero compreso ciò che egli diceva.

3.- VIA COMUNITARIA E STELLA A CINQUE PUNTE

L’equilibrio senza sforzo è quindi ciò che (chiamato meditazione, o meglio, meditazione senza oggetto) permette di progredire lungo la Via. Con una immagine, limitata come ogni analogia, questo progredire potrebbe venire pensato come un considerarsi, o convergere, verso il centro. Le considerazioni che questo simbolo (la convergenza) può suggerire esulano però dal filone principale di cui ci stiamo occupando e possono venire riprese a parte. Il fatto che l’equilibrio deve essere raggiunto senza che si verifichino sforzi significa che, come si è detto in precedenza, non si tratta di compensare pesi, ma semplicemente di osservarli così come sono, e ciò non ne implica l’accettazione passiva, ossia l’atteggiamento estremo che si trova al polo opposto dell’attivismo della compensazione (forzata). Nell’osservarli, se tale operazione è condotta coscientemente, ossia in stato di veglia, al di fuori di ogni emozione e passione, è invece implicito il riconoscimento della loro natura illusoria. Quando questo avviene, i pesi si dileguano come nebbia al sole, e ciò è tanto naturale ed inevitabile quanto il passaggio della luce attraverso il vetro pulito. Si può osservare che in questa ultima immagine, che corrisponde abbastanza bene allo stato della meditazione, è forse racchiuso ogni lavoro di tipo esoterico, qualunque sia la forma che esso assume in un certa civiltà ed in una certa epoca. Quando dalla Via solitaria si passa alla Via comunitaria, le medesime considerazioni continuano ad essere valide; esse prendono un aspetto totalmente diverso, in quanto ogni singolo membro della Comunità dei Fratelli è ben cosciente del fatto che non esiste alcun Maestro, o Autorità superiore a cui rivolgersi, ma solo il lavoro comune svolto con gli altri suoi pari, ed allo stesso tempo sa che i suoi squilibri sono tanto forti da non permettergli alcuna speranza di poter affrontare la Via solitaria. ° Il cammino è lo stesso. Si tratta sempre di convergere al centro, ma talvolta non è più il singolo individuo, al quale le proprie imperfezioni impediscono di convergere al proprio centro, a farlo, ma tutta una comunità allo stesso tempo. Un’immagine di questa comunità, nel suo stato ideale di lavoro, può essere costituita dalla Stella a cinque punte. Questa figura, perfettamente equilibrata intorno al proprio centro, è quindi adatta a convergere verso di esso, mantenendo immutata la propria struttura, è infatti formata da cinque parti, ognuna delle quali non è equilibrata rispetto al proprio centro. È solamente l’unione mistica delle cinque parti che permette di raggiungere l’equilibrio. In ciò è implicito che se uno dei membri della comunità è necessaria la presenza di altri membri di orientamento diverso dal suo.

Più ancora la figura suggerisce che il cammino verso il centro, che porta come conseguenza la riduzione metrica della stella, con una proporzionale riduzione di ognuno dei suoi bracci, richiede una partecipazione continua, totale e cosciente di ognuno dei membri della comunità. Infatti la riduzione, effetto del lavoro esoterico, può avvenire solo quando, senza necessità di alcuno sforzo di volontà, ogni membro diviene cosciente del suo scompenso. Se quindi anche solo uno di essi si rifiuta a questa coscienza, ciò è sufficiente ad impedire il lavoro di tutti gli altri. È però necessario, prima di abbandonare l’argomento, insistere ancora sulla pericolosità del considerare analogie come quella ispirata dal simbolo della stella a cinque punte, in quanto ogni analogia, specialmente nel campo iniziatico, essendo solo un modello di una certa realtà, e non la realtà stessa, è utile solo nella misura in cui si è capaci di riconoscerne i limiti, abbandonandola quindi quando essa non è più necessaria osi rivela inadeguata. Nel caso dell’analogia tra la via iniziatica e la stella a cinque punte (che, per questo scopo, potrebbe essere sei, sette o in qualunque altro numero), la seconda riesce, nel migliore dei casi, solo ad illuminare un aspetto teorico della prima, e nulla più, almeno fino a quando non si riesce a trasformarla in lavoro operante, cioè in uno stato di coscienza che supera il simbolo stesso.

4.- SILENZIO E DISCIPLINE COMUNITARIE

Dalle considerazioni di carattere generale svolte fino a questo punto è ora tempo di scendere a questioni di carattere più pratico, in quanto immediatamente operative, e che debbono essere volte a fornire un metodo per realizzare, con i fatti, le idee espresse; esse riguardano le varie forme di disciplina a cui la comunità, in particolare la nostra Istituzione, assoggetta i suoi membri. Tra le più importati sono:

– il periodo di attesa imposto a chi chiede di entrare nell’Istituzione;

 – il silenzio richiesto agli Apprendisti;

– la riflessione sul significato dei simboli;

– la stretta osservanza del Rituale in ogni occasione;

– il rispetto delle gerarchie e delle forme rituali.

Nell’ultimo punto sembra particolarmente importante rilevare il divieto esplicito di rivolgersi in Tempio ai Fratelli mediante appellativo nominale, in quanto ogni Fratello dovrebbe sempre e soltanto rivolgersi al Maestro Venerabile, anche in questo caso, evitando l’uso del 7 ed imponendosi la forma del Voi, forma di rispetto non tanto per il Fratello che ricopre la carica, quanto per la carica stessa e ciò che rappresenta. Prima di passare a qualche dettaglio sul secondo punto, quello al quale ci interessiamo maggiormente, è bene forse fare due osservazioni, entrambe aventi carattere di petizioni di principio. La prima riguarda la contraddizione, forse solo apparente, tra quanto detto in precedenza sulla necessità di evitare ogni sforzo (quindi ogni imposizione)e la disciplina cui ci si assoggetta (che è una imposizione continua, quindi uno sforzo). Al riguardo si potrebbe però dire che nella stessa imperfezione di ogni membro della comunità, presente in modo tale da impedirgli il cammino solitario, è insita la necessità di rompere il guscio. Con questo si intende però solo portare all’attenzione il problema senza pretendere di risolverlo. La seconda osservazione riguarda il Rituale, più precisamente il fatto che richiamandosi esso ad una Tradizione senza tempo e conoscendone più versioni, magari diverse per aspetti sostanziali, e constatandosi spesso la poca risonanza (0 atmosfera, 0 armonia) generata dal Rituale stesso, sulla sua validità, per i fini proposti, possono nascere seri dubbi. Se nel Rituale deve rintracciarsi una validità magica, ossia esso deve essere pensato come una serie di Mantram destinati a fare circolare delle energie non meglio specificabili, le obiezioni al riguardo sono senza dubbio fondate. Se invece ci si pone nella prospettiva qui proposta, della Via comunitaria come analoga della Via solitaria, tali questioni assumono un aspetto marginale, in quanto l’unico elemento che sembra di importanza essenziale è la partecipazione cosciente dei singoli membri. In questo caso il Rituale potrebbe avere solo lo scopo di focalizzare l’attenzione e le intenzioni congiunte allo stato di coscienza con cui esso viene recitato, hanno importanza preminente rispetto a quanto viene letto o eseguito. Anche per la seconda osservazione quanto detto deve essere inteso solo come proposta di lavoro, non come risultato raggiunto (o asserito).

5.- SIGNIFICATO DEL SILENZIO

Possiamo a questo punto passare, secondo quanto detto in precedenza, ad esaminare il silenzio ripetendo ancora una volta che tutto ciò che segue ha solo il valore di una opinione personale. Si potrebbe, peraltro, pensare che ogni cosa che si possa dire su tale argomento non può assumere altro valore. Parlando del Silenzio la domanda più importante è una sola, esattamente: a che cosa serve? Oppure, in forma più cruda, ma esplicita: serve a qualche cosa? Ciò che chi scrive ha potuto sperimentare può venire detto in questa forma: il Silenzio è il primo (e forse l’unico) Maestro. Infatti nella nostra Istituzione, come in ogni comunità in cui degli uomini si riuniscono per lavorare su particolari problemi, la comunicazione delle idee e dei risultati raggiunti avviene, almeno per ciò che si può immediatamente percepire, tramite la parola, ossia il linguaggio (si noti ancora che in questo contesto si vuole esplicitamente ed intenzionalmente evitare di considerare altre possibili forme di comunicazione che forse potrebbero anche venire dette di comunione). Anche se questa può apparire, per un Iniziato, una impostazione profana del discorso, il perfetto silenzio da parte di tutti è inutile da questo punto di vista. Un esoterista potrebbe invece ribattere dicendo che il perfetto silenzio è proprio la condizione ideale nella quale la Catena d’unione può realizzarsi ed operare; ma egli dimenticherebbe la constatazione di base, cioè la imperfezione di ogni singolo membro della comunità. La parola ha quindi lo scopo, ove non ve ne fossero altri, di aiutare i Fratelli a tenersi desti a vicenda. In Loggia quindi si parla e vengono presi in esame i temi più disparati, anche se ciò, in Grado di Apprendista, dovrebbe venire fatto con opportune cautele (anche a norma di Regolamento). Spesso quanto viene detto riguarda argomenti di attualità politica o sociale, cioè temi sui quali ogni persona degna di far parte della Libera Muratoria deve avere un’opinione (possibilmente chiara). Trattandosi di opinioni è naturale che nascano delle divergenze (per non usare il termine polemiche) e che ciascuno, per motivi di natura svariata, desideri prendere parte a qualche dibattito. Se il Silenzio viene osservato accade che, non potendo esprimere la propria opinione, non si può fare altro che riflettere su di essa; naturalmente non è detto che tale riflessione avvenga effettivamente. Nei casi in cui essa non ha luogo ne consegue, come potrebbe facilmente spiegare uno psicologo, una forma di irritazione o frustrazione. Ciò significa che chi vuole, non potendolo, intervenire, anziché seguire le cose dette da chi può parlare, si limita in generale a seguire un circolo chiuso di pensieri propri ed a rimanere prigioniero di essi. Il Silenzio deve appunto insegnare ad uscire da questa prigione che deve venire riconosciuta come un condizionamento, sullo stesso piano dei riflessi condizionati dei cani di Pavlov. Se, infatti, si inizia a riflettere su ciò che si desidererebbe dire e ci si costringe a seguire invece ciò che altri dicono, si è presto condotti a porsi domande di nuovo tipo, fra le quali la più importante è forse la seguente: perché desidero dire tale cosa? AI posto di asserzioni come: /a tale cosa che desidero dire chiarifica il tale particolare. In ciò l’elemento rilevante è che la domanda (di interesse soggettivo), se considerata in ogni suo aspetto, ha la possibilità di aiutare l’Iniziato a comprendere sé stesso, quindi ad avvicinarsi alla Realtà, mentre la asserzione, anche se fatta in buona fede e su argomenti non privi di interesse e fondamento.

EDIZIONE A CURA DEL FR.’. BEPPE BOLATTO

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