IL SENSO DELLA PROMESSA

GENNAIO 2018 (GLSA)

Il senso della promessa

Ogni Massone, durante la propria iniziazione, pronuncia una Promessa solenne. Purtroppo duole constatare che spesso essa non viene rispettata. Si pensa erroneamente che si tratti di vetuste e anacronistiche usanze ormai destituite di senso. In questa Tavola cercheremo di indicare l’autentico significato simbolico che riveste tale promessa al fine di restituire il profondo valore fondante di tale atto per la consistenza di tutta la catena fraterna.

Qualsiasi aggregazione sociale ha bisogno di determinate regole per disciplinare i rapporti tra le persone che ne fanno parte. Esse servono a preservare la pacifica convivenza, l’ordine pubblico e la sicurezza ma anche beni come la salute e l’ambiente. Non è possibile vivere insieme senza rispettarle. Nella realtà esistono molteplici norme che si possono suddividere in due grandi categorie: le norme giuridiche e quelle sociali.

Norme giuridiche e norme sociali

Le prime sono quelle che costituiscono il diritto e si definiscono tali proprio perché organizzano l’ordinamento statale e ne fanno parte. La violazione di tali norme è punita con una sanzione stabilita dallo Stato che può essere civile, penale o amministrativa. Le norme sociali invece sono quelle la cui osservanza o meno dipende dalla coscienza di ciascuno, come nel caso di norme morali o semplicemente di buona educazione. Quando un soggetto non rispetta queste norme avrà come conseguenza una punizione che non proviene dall’organizzazione statale. Per esempio se qualcuno cominciasse a parlare mentre il pubblico sta guardando un film in un cinema, costui non avrebbe una sanzione stabilita dallo Stato ma una critica e disapprovazione di coloro che vorrebbero ascoltare senza noiose interferenze la proiezione. Ebbene la Promessa massonica potrebbe essere considerata una norma sociale alla quale, almeno oggigiorno, non viene praticamente più associata una autentica punizione. Il fatto che una determinata condotta non venga formalmente sanzionata viene considerata la dimostrazione che quel comportamento non è grave. Si tratterebbe di una semplice leggerezza che non merita particolare attenzione. A nostro parere tale criterio di giudizio è profondamente fuorviante. Ci sembra decisamente meno grave pagare una multa, anche salata, piuttosto che perdere la propria stima o la propria reputazione che al contrario non hanno prezzo. Una parola come «onore» oggi risulta arcaica, appartenente ad un passato remoto. Locuzioni come «Tutto è perduto fuorché l’onore», «persona d’onore», «onore al merito», «farsi onore», «questione d’onore» suonano come parole vuote, come pedante e inutile retorica. Eppure che l’onore sia qualcosa che esiste anche se non è tangibile dovrebbe essere abbastanza facile convincersene. In effetti se basta poco per scalfirlo, per profanarlo e se poi è evidente che una volta perso risulta particolarmente difficile recuperarlo vuol dire che esso rappresenta senz’altro un livello di realtà, anche se non direttamente osservabile come si può percepire una casa o un’automobile. Se in alcune culture si è addirittura disposti a compiere i reati, i delitti più gravi in nome dell’onore vuol dire che esso detiene senz’altro una qualche forma di esistenza. Ai giorni nostri quando si pronuncia la parola «onore» la si accompagna con una sfumatura di ironia, o addirittura di vera e propria compassione. In realtà l’onore dovrebbe costituire ciò che una persona ha di più prezioso. È la sua considerazione, la sua reputazione, la sua stima, la sua dignità, la sua rispettabilità che sono in gioco. Senza di esse l’uomo non è nulla.

Fare il proprio dovere

Alla fine della Promessa si dice: «Tutto questo lo prometto sul mio onore». Si capisce che se il termine «onore» viene considerato come un residuo di archeologia lessicale, i doveri verso la famiglia, la patria, l’umanità e i segreti sui segni di riconoscimento non vengono scolpiti nel cuore, ma restano cerimoniose parole che lasciano il tempo che trovano. Inoltre a voler essere puntigliosi non dovrebbe neanche essere l’onore a spingerci a rispettare la propria parola. Questo punto è stato magistralmente illustrato da Kant. Tutti i principi che finora si sono voluti dare alla moralità sono «materiali» nel senso che hanno posto come motivo determinante della volontà un oggetto (materia) della facoltà di desiderare. Ora, qualunque sia questo oggetto (dal piacere fisico alla volontà di Dio), tutti i principi materiali si basano sempre sul sentimento del piacere e del dispiacere, perché ciò che quei principi prescrivono di volere, lo prescrivono in vista della felicità. Le teorie morali tradizionali hanno fornito le giustificazioni più diverse dell’agire umano. Fin dall’antichità esso è stato spiegato con la ricerca del piacere, dell’utilità del singolo o della collettività, dell’equilibrio interiore…Le morali tradizionali sono per Kant eteronome, ossia dettate da norme che provengono dall’esterno. Esse si avvalgono di imperativi ipotetici nel senso che la ragione comanda un’azione come necessaria solo come mezzo in vista di un certo fine desiderato. Si tratta quindi di un comando condizionato, di un precetto e rivolto perciò ad un fine particolare. Se invece la ragione comanda un’azione come necessaria per se stessa, senza relazione a nessun altro fine, allora abbiamo un imperativo categorico, cioè un comando assoluto ed incondizionato.

Solo le azioni compiute per dovere possono essere chiamate morali; sono invece da chiamare legali le azioni compiute solo conformemente al dovere, ma non per dovere, bensì sotto la spinta delle inclinazioni sensibili, le quali tutte mirano alla felicità. L’etica kantiana è detta rigoristica nel senso che per essa un’azione motivata dal desiderio della felicità non può per ciò stesso avere un valore morale. Lo ha solo l’azione compiuta per dovere. Ciò non significa però rinunciare alla ricerca della propria felicità, ma soltanto che, quando si tratta di dovere, non si abbia riguardo alla felicità. Sotto un certo aspetto può persino essere un dovere averne cura. «Niente – scrive Kant nei «Fondamenti» – può essere pensato che sia incondizionatamente buono all’infuori di una volontà buona». Per volontà buona si intende una volontà la quale, determinata a compiere ciò che essa sa essere il proprio dovere, nulla tralascia perché esso sia compiuto.

Mi raccontava un anziano imprenditore che una volta per concludere un affare non c’erano bisogno di avvocati e di un apparato burocratico soffocante; una stretta di mano tra gentiluomini era una garanzia sufficiente per rispettare i patti. Purtroppo oggi la situazione è cambiata completamente. Non ci si fida nemmeno dei parenti più stretti. Una promessa, una parola data non bastano più a nessuno. Anche per questioni di poco conto si sente ormai l’esigenza di mettere tutto nero su bianco e firmare. È chiaro che questo cambiamento di paradigma può essere spiegato con delle esigenze di rigore, di ordine e sistematicità, praticamente inevitabili nel sempre più complesso mondo contemporaneo. Tuttavia è difficile non ravvisare in questo cambiamento di abitudini uno scetticismo sempre maggiore sull’uomo e sulla sua attitudine a regolarsi in base a principi e valori condivisi che lo vincolano senza contratti a comportamenti leali che erano, e dovrebbero ancora essere, i tratti distintivi di una persona rispettabile, stimata e dignitosa.

Concetti come «onore, rispettabilità, dignità» suonano sempre più come parole appartenenti ad un vocabolario antiquato, ormai superato da termini maggiormente operativi e concreti, tipici del linguaggio giuridico e amministrativo. Fortunatamente, da questo punto di vista, la Massoneria difende e porta avanti dei principi controtendenza. L’impegno a mantenere la Promessa o il Giuramento espresso il giorno dell’iniziazione non è parte di un rituale folcloristico, come forse alcuni tendono a pensare, ma è l’atto più solenne con il quale si comunica ai Fratelli che su di noi si può fare affidamento assoluto. Violare la Promessa massonica non vuol dire solamente commettere un’innocua leggerezza destituita di qualsiasi importanza e dalla quale non discendono conseguenze rilevanti. In realtà significa introdurre di soppiatto materiale inconsistente o di scarto nelle fondamenta di un edificio imponente. Sottovalutare l’importanza del Giuramento può, presto o tardi, portare ad un crollo irreparabile non solo di una Loggia, ma di tutto il Tempio a cui stiamo lavorando con dedizione da generazioni e generazioni. È per questo che storicamente, nella Libera Muratoria, il tradimento della Promessa poteva essere punito con la pena più severa. Ricordiamoci che l’espressione la lingua tagliata e il cuore strappati, la testa tagliata di Pichard del 1730 e la sepoltura effettuata tra la bassa e l’alta marea erano le pene inflitte nel XVI e XVII secolo per il crimine di tradimento. Comunque non c’è bisogno di risalire dei secoli per rendersi conto dell’importanza della Promessa. Basta ricordare le parole del nostro rituale per percepire la solennità e l’importanza fondamentale di questo momento: «….sia per voi questo liquido, che da dolcissimo è diventato amaro più ancora del fiele, il simbolo imperituro del rimorso e dell’amarezza che fino alla morte affliggeranno il vostro cuore qualora aveste a venir meno alla parola data!»

D. B.

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