PINOCCHIO: OVVERO IL TRIONFO DELL’IO


Avrebbe potuto essere un re, o per tale lo avrebbero potuto confondere i piccoli lettori ai quali Carlo Lorenzini, in arte Collodi, si rivolse nelle prime righe del suo geniale libro di avventure. Invece, Pinocchio fu e per sempre rimarrà nella fantasia collettiva, un ciocco di legno.

Il participio passato in questo caso è d’obbligo visto che il ciocco di legno in questione, al termine del romanzo, verrà sopraffatto dalle sembianze umane di un bel fanciullo con occhi celesti e capelli castani, con tanto di vestiario nuovo e stivaletti di pelle, o meglio, sostituito da quello “schermo” esterno, indispensabile per l’inserimento del giovane Pinocchio nel “gioco” sociale al quale tutti sembrano doversi adeguare.

C’era dunque una volta, e non a caso, un ciocco di legno. Legno: materia prima, sostanza basilare, facilmente riconducibile alla parte più intima dell’essere umano, al nucleo vitale o, per usare una terminologia non ancora coniata negli anni collodiani, al soggetto dell’inconscio. Un ciocco di legno ancora da plasmare, che le abili mani di un padre falegname-scultore levigano e intagliano fino a produrre un burattino a propria immagine e somiglianza. Nonostante le rimostranze dell’indifeso ciocchetto, che ad ogni intaglio pare ripetere: “ohi, non mi far male!”, Geppetto riuscirà, infatti, a realizzare un abbozzo d’infante: Pinocchio. Fortunatamente, la prima fase della creazione si limiterà ad una mera forma fisica esterna, senza intaccare la sostanza di cui Pinocchio è composto: il legno.

Si potrebbe ipotizzare che il Collodi mazziniano, reduce da battaglie risorgimentali conclusesi solo una decina di anni prima rispetto alla stesura definitiva del romanzo, abbia voluto lanciare un monito universale, dimostrando quanto l’influenza esterna, le pressioni politiche, sociali o familiari che siano, possano modificare o addirittura schiacciare la natura dell’individuo, annullando la libertà propria di un organismo allo stato puro. Ma, partendo probabilmente da un messaggio politico e scrivendo con fervore patriottico, Collodi si trovò nella necessità di inventare una forma chiara e giustificativa della configurazione dell’individuo fino a giungere, magari istintivamente e precorrendo i tempi, a creare una distinzione tra inconscio e conscio, tra soggetto e io, o ancora tra Es e Io, dove il legno rappresenti l’inconscio e il bimbo in carne e ossa il conscio.

L’aspirazione a divenire un bambino “vero”, ad assumere una forma esterna adatta ad interagire correttamente, secondo regole socialmente riconosciute, con gli altri, potrebbe essere positiva e accrescitiva a patto che l’essere finale (il bambino umano) non dimentichi la propria origine. In caso contrario, il finale del romanzo, risuonerebbe come una sconfitta, una perdita totale della propria sostanza primaria.

Ripercorrendo le avventure di Pinocchio, pare di aver a che fare con un essere fin troppo consapevole della propria identità e non disposto a sottostare alle regole della società che lo circonda. Pinocchio non accetta la scuola, l’educazione, si rifiuta di chinare la testa persino alla legge e appare sordo ai richiami della propria coscienza, incarnata da un grillo parlante. Eppure, dovrebbe essere proprio la coscienza ad influenzare la formazione dell’Io, modificato dall’azione diretta del mondo esterno, direbbe Freud.

Ma Pinocchio pare non volersi creare un lo. Un lo visto come oggetto, configurazione immaginaria, una facciata esteriore dell’individuo (strutturalmente subordinato, in un contesto sano, alla ragione dell’inconscio, ma che, oserei aggiungere, spesso rischia di acquistare più potere rispetto al soggetto stesso, soprattutto, in società dove la “facciata” conta più del contenuto). Il burattino dì legno, disubbidiente e bugiardo, sfugge all’edificazione dell’Io, egli, sostanzialmente, vuole rimanere nucleo, soggetto, come a dimostrare di non aver bisogno di “maschere” per vivere. Ma, la sua nudità lo rende incapace di interagire con gli altri, con la società tutta. Pinocchio cade e ricade in trappole ovvie anche per i più ingenui, non riconosce falsità e inganno, perché facenti parte di un interesse personale, o meglio, di un egoismo tipico dell’Io che il “ciocco di legno” non comprende.

Non saranno le disgrazie materiali a sopraffare il legno, eppure l’Io avrà la sua vittoria.

Abbindolato da gatto e volpe, scaltrezza e astuzia, ferito dai sensi di colpa instaurati in lui, naturalmente, dalla fata-madre, il burattino di legno sarà definitivamente sconfitto dall’Amore. Infatti, lontano da case, prigioni e scuole, alla larga da istituzioni a cui non si è piegato, in un simbolico ritorno all’origine, nelle profondità del mare, all’interno del ventre di un pescecane, ecco che Pinocchio, di nuovo di legno, ritrova Geppetto, unica fonte di amore “disinteressato”. E, l’affetto per questo padre, povero e sincero, condurrà il burattino ad una rinascita. Pinocchio uscirà dal ventre del pescecane già mutato e assumerà le sembianze di un bambino “vero”, dopo essersi chinato alle “responsabilità sociali”. Il burattino lavorerà per mantenere il padre, studierà e sarà obbediente fino a risvegliarsi in vesti umane, per il pieno e ineluttabile trionfo dell’Io.

Non rimane che chiedersi: cosa ne sarà del ciocco di legno guardato con sospetto dagli azzurri occhi del nuovo Pinocchio?

(In “Il Pensiero Mazziniano” N° 3 – 2002)

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